Un colpo di mercato

 

di Gianni Pitti

 

 

1-Il fatto e la sua circostanza, in breve.

 

La vicenda che dovrebbe condurre il giovane attaccante Juan Pablo Ferrigno a indossare, a titolo definitivo, la maglia del River Plate è stata rocambolesca e imprevedibile. Quando il giocatore sembrava ormai destinato ad essere tesserato dal Boca Junior, un colpo di teatro delle ultime ore di mercato pare abbia mutato la sua destinazione calcistica.

Bravo ad attaccare gli spazi, brevilineo, il giocatore, solo quindicenne, è in grado di essere impiegato sia come punta centrale che esterna. Il giovane, nato a Neuquen, in Patagonia, pare abbia grandi potenzialità. Quando era già dato per imminente l’arrivo a Buenos Aires di Enrique Borges, agente del giocatore e secondo cugino del noto scrittore, per definire la trattativa e il passaggio del calciatore al Boca era considerata cosa fatta, è intervenuto un suo lontano parente che pare averlo consigliato altrimenti. Si tratta di Luis Casimiro Gardel, terzo cugino del celebre musicista, che insieme al noto faccendiere italiano Florio Tirinnanzi lo ha indotto a mutare destinazione.

I retroscena dell’affare che sta per andare in porto sono assai curiosi. La trattativa con il Boca si sarebbe improvvisamente arenata a causa di un'improvvisa lite tra i procuratori del calciatore, Borges e Gardel. I due eccentrici lontani parenti dello scrittore e del musicista argentino sarebbero incappati in uno dei loro soliti diverbi calcistico-filosofici intorno alla natura del gioco del calcio. Difficile riassumere le rispettive posizioni. I passeggeri del volo per Buenos Aires, dove Ferrigno e i suoi procuratori erano attesi dai dirigenti del Boca, raccontano che i due avrebbero per un po' discusso garbatamente, ma sarebbero poi passati alle vie di fatto, arrivando persino ad aggrapparsi ignominiosamente alle rispettive lunghe barbe.  

Al termine della lite furibonda sembra che il procuratore Gardel abbia letteralmente strappato il talentuoso giovanotto dalla custodia di un malconcio Borges e che si sia diretto speditamente nella sede del River per offrirlo a prezzo di favore al suo presidente.

Secondo fonti vicine al Tirinnanzi, non è escluso, tuttavia, che quest’ultimo sia in grado, con uno dei suoi voltafaccia più tipici, nonché facendo leva su alcuni residui dubbi del calciatore e sul suo senso dell’onore (si era infatti promesso al Boca) di far saltare all’ultimo istante una trattativa che sembrava ormai conclusa. Pare addirittura – secondo altre fonti vicine al Boca – che lo stesso Tirinnanzi sia atteso insieme al giocatore nella sede della società per la firma del contratto, e ciò sebbene le ultime notizie dall’Italia riportino che il faccendiere si trova ancora in vacanza sul suo yacht in Costa Smeralda in compagnia dei suoi numerosi ospiti, tra cui l'agente italo-svizzero Michele Sonforte, noto alle cronache per aver tentato, qualche anno fa, l'acquisto della Lazio.

 

 

 

2- I retroscena salienti e l’incipit di una discussione in volo.

 

I fatti sono andati più o meno in questo modo. I due agenti del calciatore si erano sistemati al fianco del giovane Ferrigno e discutevano di contratti e provvigioni, annuendo compiaciuti ad ogni stima di guadagno, tutti comodi e belli larghi nell'affare.

Ferrigno non ascoltava: se ne stava in mezzo e in disparte, la musica nelle cuffie. Ogni tanto staccava l'auricolare, ora da un lato, ora dall'altro, per dare sbrigativo assenso alle incalzanti parole dei due procuratori, che erano in vena di mostrare a se stessi, all'altro e all'assistito, i più ottimistici vantaggi dell'impresa.

Ferrigno sarebbe rimasto al Boca un paio di stagioni, magari solo una o appena qualche mese. Poi le sue prodezze gli avrebbero aperto facilmente gli scenari dei campionati europei. E allora, diceva Gardel, l'agente internazionale Florio Tirinnanzi non avrebbe avuto alcuna difficoltà a piazzare il campioncino nelle più grandi squadre d'Europa. Erano noti a tutti, anche in sud America, i suoi solidi e stretti rapporti con i dirigenti delle migliori società. Il Tirinnannzi, infatti, aveva fama d'impareggiabile bravura nel concludere gli affari. E a tale fama davano più pregio che altro le dicerie sui modi di condurre in porto le trattative, che dovevano essere tra i meno onesti e chiari.

Ora, che Borges non amasse il Tirinnanzi non si faceva fatica ad intendere. Perché non poche volte il faccendiere italiano aveva messo ruvidamente le mani nel paniere del procuratore argentino, sollevando polveroni nei giornali locali che lo stesso Borges aveva dovuto calmare, per non sembrare lui stesso vittima delle maniere scaltre di un rivale più astuto, tanto furbo quanto italiano, ricco dei denari degli altri.

Insomma, quando Gardel tirò fuori il nome del Tirinnanzi, Borges cancellò d'un colpo i suoi progetti di profitto e lo fece con stizza e delusione, nei modi innaturali con cui sarebbe possibile pettinarsi al rovescio, o, peggio, ringoiare uno sbadiglio.

Così, quando ormai l'aereo si nascondeva nelle grosse nuvolaglie argentine, Borges restò assorto nei pensieri, in un silenzio che a Gardel sembrò sospetto. Era chiaro che Borges, mentre Ferrigno dormicchiava e ondeggiava per le allettanti sirene della musica e del suo futuro, aspettava un momento per recare dispetto, porsi di traverso e mettere in dubbio gli accordi.

Ora tra i due, affiatati come lo sono talvolta i più tenaci avversari, le contese trovavano spesso insolite strade per manifestarsi. Non si facevano dirette e non nascevano per risolversi. Bensì per ingarbugliarsi, sublimandosi sul piano di dispute ideologiche, diatribe colte, condotte dapprima a colpi di pensiero, poi talvolta, nei casi più intricati, a colpi di irridenti tirate di barba.

Così, quando il giovane Ferrigno, nei più inquieti dei suoi placidi movimenti di passeggero, cominciò a tamburellare con le dita sul suo ginocchio sinistro, Borges, ammiccando, approfittò per gettare l'esca.

- Il ragazzo così fa in campo. Un attaccante di razza, calmo come una tigre, appena scosso nei nervi dal suo talento -

Sulla calma del giovane attaccante avevano discusso a lungo. A Gardel, che ancora rimuginava su nodi e clausole contrattuali, non servì molto per capire che era giunto ad una svolta nella conversazione, che i conti andavano regolati filosoficamente, che il silenzio di Borges, ora era chiaro, era già armato di malanimo. Quel messaggio, così cauto e riflessivo, gli parve allora come una dichiarazione di guerra consegnata alla sua ambasciata. E allora rispose, non ci volle molto del resto per riaccendere, agli orecchi di Borges, la mola dei suoi più irritanti discorsi.

- Quel gesto con le dita, lo vedi mio caro? Non è che il segnale di una sottile nevrosi, di quelle che hanno i giocatori di fascia, agili e un po' storti, come le ali di questo aereo che ora sta virando. Non ti pare?-

- Proprio no! - rispose Borges - Ho visto molti giocatori di fascia nella mia vita e nessuno che avesse qualche somiglianza con Juan Pablo. Che è un giocatore agile, brevilineo, ma con un piede preciso e affilato come la punta di un compasso – qui disegnò con le dita un cerchio, che era una delle sue più care metafore per spiegare il gioco di squadra. Per Borges, infatti, la squadra perfetta era quella che sapeva tessere un'ampia ragnatela circolare che comprendesse, nel suo ordinato insieme, le molteplici e infinite varianti del gioco. Ciascun interprete del quale, per Borges, raggiungeva il culmine della sua grandezza, quando si fosse infine identificato con gli stessi ingranaggi del gioco, quando il suo talento individuale fosse parso connaturato alla necessaria tipicità dei movimenti di squadra. Per questo, diceva Borges, i grandi calciatori non sono altro che replicanti, i quali, con saggezza d'istinto, con la sapienza di una fiera reale, sanno ripetere le antiche trame del gioco, sanno rifletterle sulla scena, modellando in una sorta di non tempo la temporalità degli eventi.

- Juan Pablo sarà un grande calciatore, di quelli per intenderci alla Romario. Te lo ricordi, vero? Ecco, uno di quelli che sa cancellare dalla scena i suoi stessi movimenti. Dei quali insomma resta l'atto e non il gesto -

Gardel prese tempo, cominciò ad allisciarsi la barba e replicò, guardandolo con la coda dell'occhio:

- Un gioco di squadra non può prescindere dall'individualità dei suoi componenti. Il calcio esprime al massimo grado, nella coralità del gioco, un destino individuale -.

E nel ribadire la sua più ferma convinzione, anche lui sentendo quasi il dovere di difendere il vivo pensiero delle sue cuginanze, tirava in ballo le sue consuete metafore di milonghe, di piazze corali dove si infiamma il destino e la passione solitaria del tango.

-   Juan Pablo, se proprio vogliamo essere precisi, è uno di quei giocatori di fascia che stanno ai bordi del campo come i gauchos nelle periferie. Non è la punta di un compasso, ma una spina selvatica, una punta di coltello che preme e che tenta la sorte, ad ogni scatto furente verso il centro -.

 

 

3- Le ragioni di una controversia calcistica, e forse anche metafisica.

 

La visione che Gardel aveva del calcio tendeva infatti a esaltare la funzione delle varianti imprevedili, di quelle attitudini d’eccezione che potevano risultare funzionali a un sistema di gioco proprio in quanto non gli si subordinavano. La metafora del compasso per gli agili piedi e la saettante velocità di pensiero del suo protetto non lo trovava quindi consensiente, anzi, gli procurava un sordo fastidio incline a trasformarsi in un pungente risentimento, quando non in gesta assai avventate di protesta.

Come si poteva ridurre l’arte di un giocatore di talento al suo saper assecondare trame geometriche disegnate a tavolino da un’altrui mente? Con quale diritto poteva un ipotetico allenatore preordinarne i destini pedatori ignorandone lo specifico contributo d’estro e imprevedibilità che avrebbe potuto apportare al gioco di una squadra? Del resto, ancorché in modi diversi, tanto Guicciardini che Tolstoy – che il Gardel stimava quali filosofi della Storia - avevano a più riprese sottolineato come, anche nelle vicende della guerra o della politica, il gesto non prevedibile di un singolo individuo svolgesse spesso un ruolo decisivo, in barba a tutte le strategie disegnate sulla carta o agli assiomi del buon governo. Questa prerogativa non solo non si era attenuata durante l’epoca che aveva visto le masse ergersi a protagoniste della vita sociale, ma semmai ne era stata accentuata e convalidata, come l’impatto di grandi strateghi, spesso rivelatisi poi tiranni e puri demagoghi, avevano recato testimonianza. Non solo, dunque, il destino individuale non poteva, e quindi non doveva, essere compresso o limitato per non alterare impropriamente l’istinto o la vocazione di un individuo di talento, ma anche perché la sorte di qualsiasi battaglia, o guerra, o di qualsiasi più o meno sofisticato, felice o scellerato, disegno politico non avrebbe potuto mai prescindere da simili specifici contributi. Solo sapendoli prevedere e assecondare prontamente si poteva sperare di conseguire una vittoria sul campo, o anche una più tardiva e lenta nella vita in generale, perché era soltanto grazie ai contributi rivelatori di un qualche talento che qualsiasi strategia avrebbe potuto realizzarsi con successo.

Borges opponeva a questa concezione, implicita nella parole dell’avversario, le sue più tipiche  considerazioni in merito: in cosa consisterebbe questo contributo di un talentuoso calciatore al gioco di una squadra – era solito argomentare - se non sapesse interpretarne nel modo più propizio il movimento complessivo? Se non fosse cioè in grado di cogliere in un attimo, quasi antipandolo, il senso globale di una trama di passaggi verso il suo esito finale? Non a caso si soleva dire, di certi giocatori in certe azioni, che si erano trovati al posto giusto al momento giusto, e quando poi a questa felice ma non casuale concomitanza si poteva aggiungere che avevano fatto anche la cosa più semplice, allora il gonfiarsi della rete in un istante successivo non era che la conferma della loro capacità d’interpretare un organico programma di gioco.

-   Ma questo lo sanno fare in molti… , e per questo, sebbene sia necessario per nutrire qualche ambizione di vittoria, possono bastare i buoni giocatori. Ma qui si tratta d’altro! – interloquì Gardel piuttosto bruscamente e alzando la voce a un certo punto della conversazione, che fino a quel momento si era svolta abbastanza pacificamente: - ciò di cui stiamo discutendo è sé, a parità di buoni giocatori e di buone giocate quali sono quelle che descrivi, il calciatore di talento non abbia la vocazione ad apportare un contributo determinante attraverso giocate che risultano imprevedebili sia per gli avversari sia, talora, per i compagni, e che sono in grado di modificare radicalmente le trame di gioco che questi avevano fino a quel momento disciplinatamente eseguite. Juan pablo per me appartiene a questa categoria ed è mio dovere cercare di accasarlo presso la società che sappia valorizzarne questa prerogativa. O forse non ti ricordi bene di quante talentuose promesse sono state bruciate da allenatori che volevano farne una pedina ossequiosa delle loro direttive? Le spine nel fianco non le si può, e quindi non le si deve, limare o arrontondare: sarebbe cieco e irresponsabile volerne limitare l’acume, oltre che controproducente sacrificarle in nome di una fantomatica armonia prestabilita che in questo gioco, esattamente come nella vita, non può mai trovare piena esecuzione.

-    Non si tratta di limare alcunché – replicò Borges agitandosi sulla sedia e quasi risvegliando Juan Pablo dal gradevole torpore che gli procurava il suo tamburellare a tempo di rock -: ciò che anche ogni talento è chiamato a fare è l’apportare una variante già prevista da un copione, come un attore cui sia lasciata la possibilità di recitare a braccio in un certo frangente di una scena. Certo, lui stesso, o qualche ignaro spettatore, può essere indotto a ritenere la sua performance imprevedibile, ma nella visione del regista era già stata prevista come una possibilità tesa a realizzarsi. In altri termini: il compasso resta invisibile, ma le linee che rimangono tracciate sul campo ne attestano la presenza, mentre quella acuta spina selvatica è solo un’illusione che si produce nell’attore della giocata, o in chi, dall’esterno, non ha saputo intraverderne le genesi alla luce della causa finale di un movimento complessivo.

-    Mi pare di sentire l’eco di una sorta di astuzia della ragione. O che ti sei fatto hegeliano?  - esclamò Gardel con un’intonazione marcatamente ironica - Ci manca che tu aggiunga che tutto ciò che accade doveva accadere, e il tuo compasso è salvo. Ma nel calcio non esistono piani provvidenziali della ragione destinati a realizzarsi, come non ci sono nella storia.

Questo perentorio commento indusse Borges a restare per qualche istante soprapensiero e a lisciarsi la barba con particolare cura. Non gli era in effetti ancora mai capitato, nella sua ormai lunga e movimentata carriera, di sentirsi dare dell’hegeliano, e per qualche istante sospettò che potesse trattarsi di un’offesa grave.

- Ma quale piano provvidenziale! – riprese poi a rispondere con rinnovato vigore dialettico, mentre per contrasto simulava una certa noncuranza digitando qualcosa sul suo telefonino: - qui non si ventila alcun piano del genere, né una qualche necessità che incomba nel disegno della Storia. Stiamo ai fatti e a quel che s’è detto, per favore. Le varianti apportate da un talento sono tali appunto perché assomigliano in tutto e per tutto alle variazioni previste da uno spartito musicale: non sono in alcun modo necessarie, tant’è vero che sono di solito multiple e aperte, ma devono comunque tutte a quello spartito risultare funzionali, perché altrimenti lo deturpano e vanificano.

- Già, e che dire allora di quei giocatori che per aver giocato troppo a lungo fuori ruolo e con compiti da ingegnere idraulico hanno finito col perdersi in meandri di schemi che ne hanno annichilito la personalità? Magari risultavano anche loro funzionali a un progetto di gioco, ma è proprio cercando ad ogni costo di assecondarlo che finivano col vanificarlo. E che fine avrebbero fatto in questa prospettiva i grandi fantasisti della storia? Anche loro, se capitati in mano a gente che la pensava come te, avrebbero finito con lo snaturarsi, o almeno col rendere molto meno di quanto non abbiano fatto con allenatori che la pensano come me.

- I grandi fantasisti – disse Borges alzandosi in piedi e incominciando a perdere le staffe - come tu li chiami assecondando una rozza terminologia giornalistica, sono in verità dei registi offensivi, e il fatto che tu ignori questa differenza la dice lunga sull’approssimazione in cui versano tristemente le tue teorizzazioni. In ogni caso anche loro si sono rivelati, in virtù del loro impiego funzionale, perfettamente idonei a un progetto di gioco. In realtà sei capace solo di ripetere dei luoghi comuni… – aggiunse poi con tono alterato – e questo dimostra una volta di più, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che sei un miserabile luogocomunista.

Quest’ultima affermazione, che per giunta era stata fatta puntando un indice contro l’interlocutore - urtò i nervi di Gardel, il quale, ignorando esattamente il significato di quel termine senza essere certo della sua inesistenza, si alzò a sua volta in piedi sporgendo il proprio naso aquilino contro quello del nemico.

-    Luogocomunista sarai tu! – gli gridò in faccia fissandolo ferocemente negli occhi, mentre nel contempo, non soddisfatto della sua reazione vocale ed espressiva, lo afferrava per la barba.

Quando l’ebbe strattonata e strappata a dovere, ritrovandosi con un mucchietto di peli cacio e pepe stretti in una mano, Juan Pablo, la promessa tutelata, smise di ascoltare tamburellando le sue arie musicali e, senza nemmeno togliersi le cuffie, si rivestì dei panni del paciere: alzatosi di scatto, estrasse con forza subitanea la mano di Gardel dai grovigli della barba di Borges e con qualche spinta vigorosa li rimise entrambi a sedere sui rispettivi sedili, esortandoli a stare calmi, che tanto avrebbe deciso solo lui del suo futuro. Da questo momento in poi i due iniziarono a sfidarsi, contemplando terrei qualche punto imprecisato lungo il corridoio, con i loro rispettivi silenzi, pur continuando ciascuno a coltivare in segreto i disegni più idonei per realizzare il proprio piano.