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Pandemia e opportunismo politico
Man mano che il culto della “tecnica” si è imposto all’interno di una civiltà globalizzata quella che Jürgen Habermas definisce la “ragione comunicativa” è stata progressivamente subordinata alla “ragione strumentale”. In un simile contesto globale, ma privo di regole condivise, la formazione culturale del cittadino, delle sue capacità critiche e argomentative, della consapevolezza dei suoi doveri rispetto alla comunità oltre che dei suoi diritti è stata sempre più trascurata. Questa circostanza ha fatto sì, per esempio, che si perdesse a poco a poco la consapevolezza dell’importanza dei valori fondativi della civiltà europea insieme alla volontà di promuoverli e rinnovarli nella coscienza dei suoi cittadini.
Nell’attuale frangente della pandemia la Cina, il cui governo non doveva rendere conto a dei liberi elettori, sembra aver affrontato la situazione con ben altre decisione e coerenza di quante ne abbia mostrate il nostro, il quale, nonostante avesse davanti a sé da mesi le mappe e le proiezioni matematiche che rendevano con largo anticipo leggibili i tempi della diffusione dell’epidemia, ha preso con almeno un mese di ritardo i provvedimenti più idonei a contenerla.
A questo punto, anche alla luce della prova d’efficienza da parte del governo cinese, non si può escludere che tra non molto il popolo italiano sarà pressoché indifferente alla possibilità di essere governati da oligarchie o despoti più o meno illuminati o scellerati, a seconda dei casi cui la sorte vorrà sottoporci, piuttosto che dai suoi rappresentanti eletti con procedure democratiche.
Questo scenario non riguarda però solo l’Italia, ma più in generale tutto il mondo occidentale. Certo, a differenza di quanto accade oggi, nel caso che anche i governi di alcuni paesi oggi democratici dovessero sempre più assomigliare a quello cinese anche i loro eventuali futuri oligarchi sapranno muovere come un sol uomo i rispettivi popoli verso i fini che saranno di volta in volta dall’alto prefissati, senza incertezze, senza scorie polemiche di sorta e senza possibilità di replica; ma se questo scenario dovesse mai verificarsi sarebbe il segno che quei popoli considerano la libertà alla stregua di un bene di consumo superfluo.
In ogni caso, già oggi nulla pare impedire a molti cittadini occidentali di risultare indifferenti al profilarsi di un simile scenario, quando addirittura di non scoprirsi ad esso favorevoli; e proprio queste circostanze dovrebbero far comprendere a tutti i liberali quale sia, in questo momento storico, la posta in gioco. Questa è infatti molto più decisiva di quanto in genere risulti, dato che lo Stato liberale non correva un simile pericolo di naufragare da circa un secolo. Il tipo di dittatura che potrebbe prenderne il posto, la sua catalogazione politica, pare a molti una questione secondaria: che assomigli di più a una dittatura comunista o a una fascista sembra marginale, come si può evincere dalla constatazione che la stragrande maggioranza dei politici italiani, di destra, di centro e di sinistra, continua a definire quella cinese una dittatura “comunista”.
Per capire che non lo è affatto basti considerare che il tratto essenziale del comunismo è l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, proibizione che da qualche decennio non è più in vigore in Cina. Poiché le uniche forme di governo che hanno combinato la soppressione delle libertà politiche con il mantenimento della proprietà privata dei mezzi di produzione sono gli Stati di tipo fascista, o comunque le dittature che ad essi s’ispiravano, la Cina assomiglia molto di più, almeno sotto il profilo politico-economico, a questa tipologia di Stato che non a quella comunista.
Il prenderne atto non sarebbe tuttavia per alcun governo né opportuno né conveniente sotto alcun profilo: non sotto quello della politica estera, né sotto quello della politica interna; per cui è meglio per tutti continuare a denominare la Cina così come la Cina vuole essere denominata. Del resto, ciò di cui in politica risulta conveniente prendere atto è decisamente più rilevante rispetto a ciò di cui invece sarebbe giusto prendere atto e, in ogni caso, rispetto alla verità, che com’è noto può risultare spesso alquanto scomoda da constatare.
Dunque, a ben vedere, anche la catalogazione della dittatura cinese non è dovuta a una certa ipotetica “marginalità” della questione, ma molto più probabilmente a ragioni di opportunismo politico. Analogamente, proprio per ragioni d’opportunismo molti politici nostrani, sia della maggioranza sia dell’opposizione, negli ultimi mesi hanno adottato posizioni opposte e ondivaghe su varie questioni, tra cui spicca tragicamente quella della pandemia, ostentando un sovrano disprezzo verso il principio di non contraddizione. Ma la cosa più incredibile e stupefacente è che più dicevano tutto e l’opposto di tutto più il loro gradimento cresceva nei sondaggi, quasi avessero davvero capito la cosa fondamentale: che agli italiani della coerenza non importa un piffero e che sono di gran lunga più attratti da chi promette loro quanto sa di non poter mantenere, e magari lo fa sbraitando e dando ogni colpa di quanto non funziona a tutti gli “altri”, che non da chi gli spieghi in modo onesto e franco la verità su quanto accade.
Così, l’attuale governo è rimasto a lungo in attesa che non risultasse troppo impopolare prendere i provvedimenti più idonei per affrontare l’emergenza della pandemia. Un simile ritardo, che ha probabilmente comportato alcune migliaia di morti in più rispetto a quanti non si sarebbero comunque potuti evitare, è stato altresì accompagnato da un ritardo non meno rilevante nella produzione delle mascherine, con il conseguente ulteriore sacrificio della vita, oltre che di molti cittadini, anche di coloro che, come il personale medico e paramedico, combattono questa battaglia dalla prima linea, ancora oggi senza le protezioni adeguate.
Il sospetto che tra le cause di questa irresponsabile inefficienza possa aver giocato un ruolo non minore, oltre a una notevole dose di cinismo, anche l’italico timore reverenziale verso la burocrazia, tradizionalmente concepita come la principale “nutrice” economica della politica e dei suoi apparati di potere, non può che accrescere l’indignazione di ogni cittadino non troppo fazioso, indignazione che appare ormai ben proporzionata alla mole di dolore prodotto da questa pandemia e allo spettro di una crisi economica che minaccia d’essere profonda e ineludibile.