Il paradosso di Popper e le minacce della guerra ibrida
Il cosiddetto “paradosso della tolleranza”, formulato da Karl Popper anche ne La società aperta e i suoi nemici (1945), pone una domanda cruciale per le democrazie contemporanee: una società tollerante deve tollerare anche l’intolleranza? La risposta di Popper è netta: no. Una tolleranza illimitata porterebbe alla distruzione della tolleranza stessa, perché i movimenti intolleranti, se lasciati liberi di agire, approfitterebbero delle libertà democratiche per minarle dall’interno.
Popper sostiene che una società liberale deve essere intollerante verso chi non accetta la discussione razionale e cerca di imporsi con la forza o la propaganda violenta. Non propone una censura preventiva, ma una vigilanza attiva, argomentando a riguardo come segue: “Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti; se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.” E ancora: “Non dobbiamo, quindi, dichiarare fuorilegge le opinioni intolleranti, finché possiamo contrastarle con la ragione e tenerle sotto controllo tramite l'opinione pubblica. Ma dobbiamo reclamare il diritto di proibirle, se necessario anche con la forza.”
Le precauzioni di Popper su questo aspetto cruciale della democrazia non sono isolate. Anche Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo (1951), considera i regimi illiberali come fenomeni che possono nascere dall’interno delle società democratiche, quando la società civile abdica alla propria funzione critica. La filosofa tedesca allieva di Heidegger sostiene infatti che: “il totalitarismo è l'emancipazione dell'intolleranza dal bisogno di mascherarsi.” La democrazia per la Arendt non è solo una procedura istituzionale, ma una cultura politica da difendere attivamente: “la libertà d’opinione è una farsa se l’informazione sui fatti non è garantita e se i fatti stessi non sono oggetto di dibattito pubblico.”
Il fatto che una liberaldemocrazia possa stabilire i limiti che è giusto adottare nel garantire la stessa libertà d’espressione costituisce tuttavia un aspetto controverso. Herbert Marcuse, per esempio, nella sua opera Tolleranza repressiva (1965), sostiene che una tolleranza indiscriminata favorisce le forze reazionarie e il mantenimento dello status quo. Per lui, alcune forme di tolleranza finiscono per essere “repressive”, in particolare quando non tutelano la giustizia sociale. Secondo Marcuse “la tolleranza verso i movimenti di destra, specialmente negli Stati Uniti, è servita a consolidare la dominazione e ha ritardato il cambiamento” e “la tolleranza verso le opinioni che rafforzano l’aggressività, la discriminazione e la violenza deve essere ritirata.” Egli propone quindi una sorta di “intolleranza militante” verso le ideologie che si pongono in contrasto con i valori fondamentali dell’uguaglianza e della giustizia sociale.
Ora, poiché la “giustizia sociale” può essere intesa in vari modi, e non tutti compatibili con i presupposti della società liberaldemocratica, basterebbe questa declinazione marcusiana del paradosso di Popper per far capire quanto possa rivelarsi insidioso un uso dell’intolleranza che vada oltre una tutela dall’abuso delle libertà fondamentali al fine di minare le basi della stessa società che ne consente a tutti l’esercizio: in nome di una qualche idea di giustizia si potrebbero impugnare e cercar di sopprimere, come la storia ci ha insegnato, anche alcune di quelle stesse libertà.
A questo riguardo la posizione di John Rawls sembra raccogliere in parte le istanze di Marcuse, per poi meglio definirsi successivamente: in Una teoria della giustizia (1971) egli difende infatti un modello liberale e istituzionale contemplando tuttavia la possibilità di predisporre una sua autodifesa da ideologie illiberali: una società giusta può infatti secondo lui tollerare l’esistenza di diverse concezioni del bene, “a patto che esse rispettino i principi della giustizia come equità.” In Liberalismo politico (1993) egli precisa però che la democrazia può legittimamente difendersi da movimenti che minacciano le libertà fondamentali, purché nel rispetto dello stato di diritto: “la libertà dei cittadini non può essere usata come strumento per abolire quella stessa libertà.”
Anche in Italia alcuni pensatori liberali hanno avvertito quanto questo nodo sia decisivo. Gaetano Salvemini, per esempio, pur non teorizzando direttamente il paradosso della tolleranza, sostiene che la democrazia deve difendersi attivamente da chi intende sovvertirla, scrivendo, a tal proposito, che “la democrazia non può essere una livella tra libertà e sopraffazione; chi trama per instaurare la tirannide non può essere trattato come un semplice avversario politico.” E in una celebre lezione a Harvard avverte: “la libertà politica può morire per suicidio, quando i suoi difensori la lasciano manomettere in nome di essa stessa.” Per Salvemini, dunque, come per Popper, la difesa della democrazia richiede coraggio civile, vigilanza e, se necessario, anche l’uso della legge per impedire che i suoi strumenti vengano piegati contro di essa.
Tutti questi filosofi, pur con diverse formazioni e da angolazioni diverse, concordano su un punto fondamentale: la tolleranza non può essere illimitata. Una società democratica non è obbligata ad accettare chi usa le sue libertà per distruggerla. L’equilibrio è difficile: si tratta di difendere la democrazia senza cadere nell’autoritarismo. Ma, come affermava Popper, la sopravvivenza della tolleranza dipende dalla capacità di riconoscere e neutralizzare l’intolleranza militante, cosa che si può realizzare solo con l’esercizio assiduo del confronto dialogico sui media e nelle scuole, ovvero attraverso un’autentica formazione democratica che educhi al rispetto della libertà di tutti, ma anche predisponendo delle eccezioni a tale sistematico rispetto che prevedano alcune circoscritte limitazioni ogni qualvolta tali libertà vengono usate per sopprimere o minare gli stessi fondamenti della società liberaldemocratica, quando non addirittura per sovvertirla con la violenza.
In questo senso, pur tenendo conto della prospettiva necessariamente soggettiva di chi deve decidere, si può forse individuare un duplice limite che non dovrebbe mai essere superato e che potrebbe essere riassuntivamente formulato come segue: non si dovrebbero confiscare libertà democratiche se non in presenza di un pericolo concreto per la stessa sopravvivenza di un sistema democratico; e non si dovrebbero tollerare manifestazioni del libero pensiero dei cittadini quando queste si traducano in sostegni e promozioni di attività e iniziative che potrebbero mettere in pericolo le stesse istituzioni democratiche, per esempio favorendo la loro trasformazione in società totalitarie. Pur trattandosi di limiti non appurabili in modo oggettivo e non controverso nelle varie circostanze che la storia propone, non bisogna rinunciare a cercare d'individuarli e sostenerli con impegno e tenacia, perché il rinunciare a ipotizzarne l'esistenza potrebbe scardinare gradualmente l'essenza stessa di quelle società che sanno anche tollerare, almeno fino a quando non diventano pericolose per la propria stabilità democratica, l’espressione d’idee che tendono a minarne le fondamenta.
Questo doppio limite, che poi è lo stesso visto da due prospettive diverse, diventa particolarmente delicato e fluttuante quando la democrazia è minacciata da qualche dittatura che dall’esterno cerca di condizionarne le sorti politiche. Si tratta della situazione in cui si trova oggi l’Europa, minacciata dalla politica neo-imperiale del Cremlino, che oltre ad aver invaso un paese libero massacrando e deportando il suo popolo con modalità ad un tempo naziste e sovietiche minaccia i paesi dell’Unione europea e quelli che ambiscono a farne parte con un’offensiva ibrida particolarmente subdola ed efficace, che combina cyberattacchi, disinformazione e sostegno a movimenti politici radicali, cercando così di minare la stabilità delle democrazie occidentali.
In questo contesto storico cruciale, Germania e Romania offrono due esempi emblematici delle sfide che i Paesi europei stanno affrontando nel tentativo di difendere le loro istituzioni, cercando di bilanciare la tutela delle libertà democratiche con la necessità di risposte drastiche e coraggiose contro una minaccia che mette in gioco l’intero progetto europeo. Il paradosso di cui parla Popper diventa così uno snodo teorico fondamentale e ricco d’implicazioni stringenti per comprendere quali vie si possano intraprendere per far fronte ad un simile attacco senza tradire i principi della propria civiltà politica.
Proprio partendo da questo scenario, due giorni fa Filippo Piperno faceva qui alcune considerazioni su un articolo di Mattia Feltri apparso sul Huffington Post. Secondo la tesi di Feltri, il tentativo di fermare l’estrema destra in Germania rischia di far cadere la democrazia in un terribile equivoco. Per condurre in porto un’operazione del genere bisogna infatti utilizzare il lavoro svolto dai servizi segreti, che hanno dichiarato Alternative für Deutschland incompatibile con la democrazia costituzionale, ma i servizi segreti, che rispondono al governo, si trovano in questo modo a indagare e sentenziare sull’opposizione avvalendosi peraltro di documenti accusatori piuttosto generici e finendo così col sollevare l’inquietante interrogativo su come una democrazia effettiva possa tutelarsi dalla loro stessa azione.
Piperno si dichiara d’accordo fino a un certo punto: “dal punto di vista di un liberale – scrive - il ragionamento non fa una piega. Ma anche un liberale è pronto ad accettare la legge marziale in tempo di guerra. Sulla legge marziale in Ucraina, a parte i russi e qualche trumpiano, nessuno fa una piega o sbaglio? Dunque esiste una causa di forza maggiore che in particolari ed estreme contingenze può consentire ad una democrazia di sospendere alcuni diritti costituzionali. Per questo – continua - il tema va analizzato partendo da una domanda. La guerra ibrida è assimilabile ad una guerra tout court? Se sì allora a mio avviso è concesso di ricorrere ad azioni non commendevoli dal punto di vista liberale ma utili a salvare la baracca, se invece no allora ha senz’altro ragione Feltri.
Sebbene condivida pienamente le circoscritte riserve di Piperno sulla tesi di Feltri, credo sia opportuno aggiungere un’avvertenza: certamente la guerra ibrida in corso è assimilabile a una guerra, ma si tratta in realtà di una guerra assai più insidiosa per le democrazie di quella che siamo soliti definire con questo nome, in quanto concede alle dittature un enorme vantaggio. La guerra ibrida infatti consente oggi alla Russia di Putin di agire sottobanco nei paesi che minaccia di aggredire avvalendosi, in un territorio che considera nemico o terra di conquista, di quelle stesse libertà che ha confiscato sul proprio territorio nazionale, contribuendo cosi, attraverso un’incessante attività di falsificazione e disinformazione, a orientare a favore della sua politica imperiale la coscienza dei cittadini occidentali e lavorando ai fianchi le loro residue convinzioni democratiche.
Alla luce di questa premessa, le contromisure preventive che questa guerra richiede sono ben superiori a quelle richieste da una guerra convenzionale, perché quando un paese ne invade un altro la reazione dei cittadini del paese invaso, a meno che prima non si trovassero sotto il giogo di padroni peggiori, non è in genere loro favorevole, e anzi tende a compattarsi contro gli invasori, o comunque i nemici. Invece, questa guerra ibrida portata avanti dalla Russia ormai da diversi anni in modo pressoché unilaterale - dato che le dittature sono abbastanza impermeabili, per la soppressione preventiva del loro fronte interno, ad analoghe controffensive - è riuscita a spostare in tutto l’occidente una rilavante percentuale di consensi, forse sufficiente a influenzare l’esito di alcune tornate elettorali.
In un caso come questo, le azioni “non commendevoli” da un punto di vista liberale, che si rendono necessarie per impedire o limitare l’azione delle dittature che cercano d’infiltrarsi nella coscienza politica e civica dei cittadini di una democrazia, dovrebbero quindi essere non solo quelle proprie di un generico tempo di guerra, ma ancor più sofisticate ed estese, in grado cioè di bloccare sul nascere l’efficacia della guerra ibrida. Purtroppo, in alcuni paesi europei, e soprattutto in Italia, è avvenuto esattamente il contrario: i media, sia quelli di Stato sia quelli privati, hanno scelto deliberatamente di far cassa da risonanza alla politica criminale del dittatore del Cremlino, e così molta stampa e moltissime persone più o meno reali sui social network.
Nelle sue linee generali la questione sollevata dall’articolo di Mattia Feltri viene affrontata anche da Michele Magno su Il Riformista in un articolo titolato in modo eloquente: “Le contraddizioni sul partito di Weidel. La sola cura è democrazia”. Dopo aver illustrato e commentato la tesi di Feltri, Magno giunge alla conclusione che, sebbene l’AFD abbia dimostrato “un certo debole per parole d’ordine che sanno di Terzo Reich come ‘Festung (Fortezza) Europa’ e partecipi all’antica fascinazione di tutte le destre tedesche per la Russia”, e sebbene questi elementi debbano essere tenuti in considerazione per comprendere perché più di dieci milioni di elettori abbiano manifestato la loro fiducia verso Alice Weidel, tutto questo non giustifica una messa al bando per via giudiziaria dell’AFD, perché come diceva il filosofo americano John Dewey “la cura per le malattie della democrazia è più la democrazia”.
Ora, pur condividendo la tesi di Dewey (e di Michele Magno) per quanto riguarda le malattie endogene della democrazia in tempo di pace, non credo che si attagli a curare i problemi che una democrazia deve affrontare in tempo di guerra, e poiché considero la situazione in cui oggi l’Europa e tutto l’occidente si trovano coinvolti una condizione di guerra ibrida credo che debbano essere ammesse delle deroghe al principio di tolleranza, e non tanto proibendo il ricorso a parole come Festung, e ad altre parole in qualche modo evocative di un passato ben poco radioso, ma perché l’appoggio alla politica d’aggressione di un dittatore criminale costituisce di per sé un attacco allo Stato liberale che richiede, anche da un punto di vista liberale, una limitazione della tolleranza.
Com’è noto, la situazione in cui si trova oggi la Germania ha diversi punti in comune con quella della Romania, dove si sta ponendo da qualche settimana un problema simile. La nuova vittoria dell’estrema destra, e soprattutto il fatto che circa il 60% dei rumeni residenti all’estero abbia votato per il suo candidato nonostante i vari capi d’accusa che lo riguardano (e non solo in Romania, ma anche in Moldavia), fa ben comprendere che un’ondata populista filorussa sta riuscendo a condizionare in modo significativo l’elettorato europeo.
Naturalmente, sarebbe ingenuo e fuorviante pensare che la causa di questa situazione ricada solo sulla propaganda del Cremlino. La coscienza democratica dei popoli europei è in declino da tempo e solo quelli che sono strettamente a contatto con l’imperialismo russo sembrano averla ancora ben desta. Ma l’Europa e tutti i paesi democratici, i loro popoli come i loro governi, devono essere consapevoli che è necessario predisporre subito e bene una difesa dei loro valori di riferimento e delle loro istituzioni con strumenti efficaci, anche quando “non commendevoli” da un punto di vista liberale, perché la guerra ibrida è sotto questo profilo ancora più insidiosa e pericolosa della guerra tradizionale, perché è sotterranea e spesso invisibile, ma può essere tremendamente efficace e destabilizzante.
Del resto, le regole che sono in vigore in tempo di guerra, se non sono poi dei regimi dittatoriali a trionfare, vengono revocate e si può tornare a una vita normale dopo qualche anno, ma non bisogna dimenticare che invece, quando si rinnega la democrazia o se ne sottovaluta i pochi ma decisivi pregi, le libertà fondamentali cui siamo ormai abituati possono essere revocate non solo in parte e per un tempo relativamente breve, e cioè fino alla fine della guerra, ma annichilite completamente per decenni, o per un tempo comunque imprevedibile. Se questo è il prezzo, il paradosso di Popper si rivela ancora oggi come un monito e un crocevia in cui ogni capo di Stato o di governo è chiamato ad assumersi responsabilità enormi e ineludibili, che tuttavia potranno tradursi in scelte lungimiranti solo con l’appoggio di cittadini consapevoli, il cui consenso potrà essere garantito solo attraverso un’attenta vigilanza sull’azione dei media, tale cioè da poter evitare alla propaganda dei paesi aggressori di farsi strada presso l’opinione pubblica dei paesi minacciati o aggrediti. La pervasiva efficacia degli strumenti a disposizione della guerra ibrida, ormai in grado addirittura di paralizzare un’economia o un sistema di sicurezza, non consente di rinunciare pregiudizialmente all’opzione estrema prevista da Popper e da altri grandi pensatori del Novecento, ovvero quella di divenire intolleranti verso l’intolleranza, o comunque verso chi è complice di quei paesi che di tale intolleranza sistematica hanno fatto l’asse portante del loro regime totalitario.