A scuola da Lev Nikolaevič, con nostalgia e gratitudine

 Qualche nota in margine al libro di Pietro Citati su Tolstoj

 

Non è semplice scrivere un libro su uno scrittore come Lev Nikolaevič Tolstoj senza scadere nel già detto o nello specialismo critico-letterario. La sua personalità e la sua opera sono già state più volte rivoltate e analizzate e dire qualcosa di nuovo, o anche il voler proporre rielaborazioni semplicemente interessanti di quanto già scritto, potrebbe rivelarsi un’impresa vana o troppo ambiziosa.

È vero che Pietro Citati è solito cimentarsi in maniera programmatica con simili imprese (basti pensare, tanto per fare solo qualche esempio, alle monografie su Goethe, Kafka e Leopardi) ma l’impressione è che un progetto tanto impegnativo possa essersi originato in lui solo grazie a un sentimento simile a quello che Vas’ka Morozov, uno degli alunni di Lev Nikolaevič nella scuola di Jasnaja Poljana, nutriva verso il suo vecchio maestro: un sentimento composito di ammirazione, nostalgia e gratitudine. Il ricordo delle giornate trascorse da Vas’ka ad ascoltare i suoi racconti, il giocare con lui a pallate di neve, le passeggiate nei boschi e le lunghe conversazioni sulla terrazza dopo tanti anni risplendevano ancora luminose nelle sua anima e rischiaravano la sua vita.

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Fabrizio Puccinelli e le radici del raccontare

 In alcuni di questi racconti di Fabrizio Puccinelli (Il Ritorno, Aracne editrice, Roma, 2014) c’è il piacere di un raccontare antico, per certi versi ancora ottocentesco, che scivola nell’animo dei personaggi e li accompagna come una postuma rivisitazione della loro esistenza, fino a produrre il rendiconto di un destino, di una sorte immacolata, di un’esistenza comunque integra e trasparente. In altri, per lo più successivi, chi narra si fa testimone defilato di novecentesche esasperazioni od ossessioni, d’impasse che hanno risonanze kafkiane o beckettiane (come ha messo ben in evidenza Franco Petroni nella prefazione al volume), ch’emanano un senso d’oscura prigionia, di un arcano isolamento che si sublima però in una solitudine accettata che non rinuncia mai a cercare di cogliere al volo la vita di passaggio, a provare il gusto di trasfigurarla in virtù di un’indole narrativa pacificata e sincera, scevra d’ogni sorta di arroganza o pretesa verso l’esistenza. Questi diversi scenari e questi modi di narrare, sempre aderenti a un universo interiore che si sprigiona dai personaggi all’unisono con quello dello stesso narratore, non sono mai forzati, non accondiscendono ad artifici o invenzioni. Anzi, si potrebbe dire che nella prosa di Puccinelli nulla sembra mai inventato, creato da chi racconta, ma che tutto, ogni piega che la vita ha voluto assumere su di sé, ogni gioia terrena e ogni dolore, è stato trovato, accolto e assaporato senza fatica, in una maniera naturale, senza rimpianti e spesso con un’implicita e spontanea consapevolezza filosofica.

Il neorealismo di Puccinelli non sfocia però mai nel naturalismo, lo sguardo dei personaggi  sul mondo è sempre al centro, fedelmente raccolto, riflesso e irradiato dalla narrazione. I fatti e le circostanze della guerra e del secondo dopoguerra, come altri ancora successivi, contano quel che devono contare, sono importanti non più di tanti altri mai da alcuno registrati: son quel che sono solo dentro quello sguardo, dentro lo specifico sentimento della vita che scandiscono. Non sono mai loro a decidere, a determinare. Se ne stanno quieti sullo sfondo, dove sono nati, si ripercuotono sul futuro senza implicarlo e sembrano produrre piuttosto un’eco, il riverbero d’un suono o di un rumore famigliare, quasi avessero già iscritto nella loro origine il compito di permettere a quello sguardo che il narratore raccoglie di nascere come da un nulla, di germogliare per una sua inerzia nell’interno celata, come una pianta, come gli alberi che sul limitare di un bosco stormiscono alla fine dell’estate per annunciare l’inverno, come il profumo dell’erba bagnata o quello della legna che brucia in un camino.

La nostalgia che alcuni di tali personaggi provano per il passato – in particolare di Simona, la narratrice in La Raccolta – non si trasforma in recriminazione verso il presente, nel rifiuto di assecondare in qualche modo lo scorrere del tempo. I suoi ricordi si fondono con le impressioni più vive dell’ora e la melanconia traspare dal paesaggio delle prime colline apuane nelle solitudini di una campagna ombrosa. La fatica del lavoro è accennata, suggerita, talora con parsimonia enumerata. L’anima di Simona pare esente da qualsiasi sorta di enfasi: pare sapere bene, forse ancor di più di altri personaggi di queste storie, che la vita non cerca alibi e non può trovarne, che tutto l’essenziale accade semplicemente, senza intenzione di alcun Dio, o per quella di un Dio che coincide con la vita stessa.

In un altro racconto (Marì, un bambino e le radici del raccontare) l’origine della vocazione a raccontare viene individuata nel vuoto che si sente intorno, nella mancanza delle persone, nel nulla che sente ognuno che scrive, sul quale si stagliano le immagini e che “chiede di essere popolato da personaggi, situazioni, storie”. Così il narratore dice di aver iniziato a scrivere in certi pomeriggi in cui la luce finiva, lasciando cadere parole su un foglio di carta, accompagnato dal rumore della pioggia o da un albero mosso dal vento, dal grido di un uccello o dai passi di sua madre sulle scale. I dialoghi con suo padre gli fornirono poi le coordinate per meglio orientarsi in questo mare: in questo secolo – diceva al figlio – la letteratura civetta con la sociologia e con le scienze e tende a riempirsi di molte cose che letteratura non sono, perdendo i contatti con la narrazione orale, con l’eco di un raccontare più lontano, più organico e non meccanico, con la cerimonia e il rituale, e ciò perché è “morto e rescisso alla base il fatto sacro e quotidiano su cui il narrare si fondava”.

Dopo che aveva parlato con suo padre qualcosa rimaneva lì seduto, come un angelo dietro le sue spalle, mentre lui, davanti a quei fogli bianchi, si accingeva a ritrovare lo stupore che provava da bambino di poter significare, ora attraverso lo scrivere, qualcosa che gli era sconosciuto.

Come da bambino anche ora si faceva domande e si dava risposte: il mondo – dice il narratore de La Cripta – era sempre lo stesso, anche se ogni tanto qualcosa sembrava sparire. La conoscenza dipendeva dalle domande che uno si faceva, come Gotamo, il Buddho, aveva mostrato. Così il bambino rievocato in questo racconto si rigirava di notte sotto le coperte, ragionava, approfondiva, cercava le domande giuste.

I personaggi di questi racconti di Puccinelli hanno in effetti spesso il desiderio di capire, non sono mai indifferenti all’esigenza di farsi una ragione, ma questa non diventa mai un’ossessione, sebbene il domandare continui a interrogare il passato e si ostini a volerlo interpretare. Passarono gli anni e il narratore de La Cripta imparò a starsene riparato: faceva le sue cose, si accudiva. Aveva voglia d’inseguire una donna e ogni tanto in effetti la inseguiva per i boschi, dove stava nascosto il matto di cui si sentiva parlare, che quei boschi fortificava e rendeva in qualche modo più arcani.

In Fabulator qualis humanus il narratore ogni tanto traduce qualche frase in latino, tra parentesi, per dare retroterra temporale, per arcaizzare e prolungare il respiro, ma lo fa in modo anche qui del tutto naturale, senza sentore di artificio. Si commisura alla grande macchina dell’istituzione, del mondo presente, che procede implacabile per conto suo, assumendo anche lavoratori come lui, forse per infondergli coraggio a continuare e partecipare. Frequentava allora “l’archivio generale delle cose scritte” e si rammaricava di non poter scrivere cose grandi come nel passato. Ma perché poi scrivere? “A qual fine? Cos’è esso stesso, il racconto (fabula)?”.

Capita di guardarsi intorno, di fare attenzione alle cose che vediamo: “ad esempio il sole va sotto o un albero si muove al vento o dei bambini si chiamano nell’ombra che scende prolungando i loro giochi nella sera. Accade che vediamo tutto in un altro modo (ut ab alio oculo propterea visio). Par già di essere stati lì, o di essere in un altro tempo. Prende una specie di angoscia. Prende la fretta di tornare ai nostri compiti. Si vuole andar via. Ma non dimentichiamo che è proprio allora che si intuisce il mondo della narrazione, ci si sente sospesi in un vuoto, fatti accaduti tornano alla mente e la nostra infanzia e l’amore; e ci si ricorda. È allora che scendono su di noi gli uccelli fatati della quiete e cercano l’uovo delle storie”.

Queste prose raccolte ne Il Ritorno (dal titolo del primo dei racconti) furono apprezzate da scrittori e critici quali, tra gli altri, Pasolini (che annoverò Il Supplente tra i romanzi più pregevoli della generazione di Puccinelli), Tobino, Mariotti, Pannunzio, Cancogni, e furono pubblicate per la prima volta in riviste quali Il Mondo, La fiera letteraria, Nuovi argomenti.  Se ne può tuttavia ricavare un ritratto umano del suo autore in misura solo parziale, perché Puccinelli era anche altro. La sera in cui ebbi l’occasione di conoscerlo, ad un cena di amici, parlò quasi sempre lui, anche al cospetto di conversatori indefessi che rimasero a lungo ad ascoltarlo un po’ a bocca aperta, e lo fece inframezzando i suoi racconti e le sue riflessioni con aperte risate o fugaci espressioni assenti. Disse - ricordo, tra l’altro - che stava leggendo L’enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, e che tale lettura gli serviva per “strutturarsi”. Il suo senso dell’ironia e del paradosso erano spiccati e facevano da contrasto con la malinconia che lo attraversava come un balsamo quando scriveva. Gli piaceva dare un nome alle cose e ascoltare quel nome ritornagli in mente come nuovo quando era immerso nelle pagine di un libro, scritto da lui o da altri. Poiché non voleva sembrare null’altro da quel che era, dissimulava, e a volte sembrava che giocasse con il pensiero, che era tuttavia per lui una cosa molto seria. Ne ho bel ricordo, e allegro, e provo ancora gratitudine rileggendolo.

 

Fabrizio Puccinelli, Il Ritorno, Aracne editrice, Roma, 2014.

Le "belligeranti" derisioni di Pippo Russo


Nel suo ultimo libro, L'importo della ferita e altre storie (edizioni Clichy), Pippo Russo illustra diffusamente i difetti formali e stilistici delle opere di alcuni autori di successo, come Giorgio Faletti, Fabio Volo e Federico Moccia. Con grande sfoggio di sarcasmi e argomentazioni pretestuose, li irride tutti per circa trecento pagine. Sebbene il targhet di lettori più o meno deliberatamente prescelto da alcuni degli autori in questione abbia forse determinato l’adozione di uno stile e di ambiti tematici che non risultano interessanti per tutti, credo che gli scrittori presi di mira da Russo non meritino un trattamento così gratuito e derisorio. Inoltre, alcuni dei malcapitati, come Moccia, hanno indotto molti ragazzi alla lettura, un merito non poco trascurabile di questi tempi.
Russo rimprovera ai sopra menzionati autori un uso approssimativo o scorretto della lingua italiana, sostenendo che la lettura delle loro opere potrebbe avere addirittura effetti diseducativi sui loro poco accorti estimatori. Tuttavia, alcune espressioni contenute nei romanzi presi in esame, pur essendo in effetti non corrette da un astratto punto di vista grammaticale e/o sintattico, risultano in fin dei conti giustificabili dal punto di vista letterario, mentre quelle suggerite dallo stesso Pippo Russo sarebbero risultate decisamente inefficaci e fuori luogo.
Ciò di cui l’autore del saggio non sembra tener conto è che, quando i narratori di alcuni romanzi, come ad esempio quelli di Moccia, si servono, utilizzando un discorso indiretto libero, di frasi formalmente non irreprensibili, essi tendono giustamente ad assecondare il gergo interiore con cui i personaggi pensano e sentono, rispetto al quale si rivelerebbero inappropriate espressioni più consone sotto il profilo lessicale e sintattico-grammaticale.
Per esempio, a pagina 183 Russo cita la seguente frase da Ho voglia di te: “Deve essere un Pampero. No, un Havana Club, vejo sette anos almeno”, e così commenta: “Spagnolo maccheronico. La formula esatta è viejo siete años. È stato capace di sbagliare tre parole su tre”. Tuttavia, non pare probabile che Moccia non sapesse che quell’espressione non era corretta, anche per il semplice fatto che, risultando da una mescolanza di due lingue diverse, non poteva esserlo in nessuna delle due; ciò che risulta molto più verosimile è invece che, nell’intento di mimare e assecondare il modo di pensare e di esprimersi abituale del personaggio, egli abbia tenuto conto che l’espressione appropriata in castigliano sarebbe risultata alquanto innaturale e artificiosa.
La maggior parte delle critiche di Russo sono di questo pretestuoso tenore. Poiché sembra piuttosto improbabile che un giornalista e scrittore non sia a conoscenza della liceità di tali procedure letterarie, e quindi anche della tonalità mimetica che il discorso indiretto può assumere in certe narrazioni, sorge il legittimo sospetto che le sue perentorie critiche siano state avanzate in virtù di una sostanziale malafede intellettuale.
Giorgio Faletti è, tra tutti i malcapitati, forse quello che si tira addosso le battute più caustiche. Sebbene vi siano talora nelle sue opere espressioni quanto meno “curiose”, anche in questo caso molte delle critiche che gli vengono mosse sembrano più l’effetto di un’antipatia istintiva e pregiudiziale che non il risultato di una ponderata riflessione. Russo se la prende ad esempio con la qualifica di “non belligeranti” riferita a delle “fantasie”, dicendo che non ha idea di come possano essere “non belligeranti” le fantasie”, ma forse, usando per l’appunto un po’ di fantasia, si può capire che, se esistono delle “fantasie belligeranti” – e credo siano, se si asseconda la metafora, un’esperienza piuttosto diffusa – forse ne esistono anche di “non belligeranti”, ovvero, come si specifica nel testo di Faletti, d’innocue e prive di secondi fini, come quelle di un “contaballe” che ha il talento di credere per primo alle storie che racconta.

Pippo Russo non si limita però a proporre critiche di ordine formale. Talora si spinge a etichettare anche aspetti contenutistici delle opere che prende in esame. È quanto accade ad esempio con Fabio Volo: da Un posto nel mondo, il  suo terzo romanzo, Russo riporta stralci di una lunga lettera che un figlio scrive a un padre. Si tratta di una lettera non banale, né lagnosa né stereotipata, che nella sua veste di sistematico derisore Russo bolla come un frammento “denso di buonismi all’ingrosso”.
L’aggettivo “buonista” è una spia eloquente dell’atteggiamento liquidatorio che percorre tutto il suo saggio, perché l’uso liquidatorio di tale termine è ricorrente tra tutti coloro che non sanno distinguere tra “buoni sentimenti” e “sentimenti buoni”. Chi è incline a scambiare uno stato d’animo positivo, comunicativo e costruttivo, talvolta ingenuo e comunque non troppo rielaborato con uno stato d’animo falso e preconfezionato, un sentimento “buono” a posteriori con l’effetto  stereotipato di un sentimento predefinibile come “buono” in base a cliché convenzionali e socialmente condivisi, ha la tendenza ad affibbiare diffusamente quest’etichetta.
Proprio quest’attitudine, ad etichettare e irridere con argomentazioni frettolose e pretestuose interi periodi o singole espressioni, scelte lessicali o metafore più o meno originali, contraddistingue e attraversa tutto il saggio, che ha tuttavia il merito di suscitare qualche riflessione non vana sull’uso della lingua italiana in letteratura, oltre a quello, decisamente non voluto, di far venire voglia di leggere – almeno a chi ancora non lo aveva fatto prima di questa lettura, o lo aveva fatto in modo parziale e discontinuo - le opere dei suddetti bistrattati scrittori.

La fuga di Tolstoj

 

“La vecchiaia si può fuggire in mille modi, magari scrivendo un libro”. Così si legge nel retro di copertina di La fuga di Tolstoj, di Alberto Cavallari. La prima impressione che si ricava dalla lettura di questo lungo racconto, che ha il sapore e la fisionomia di una cronaca, è che l’autore - già direttore del Corriere della sera e successivamente opinionista di Repubblica – sia in qualche modo riuscito, forse anche per la grande umiltà letteraria con cui ha affrontato un tema così impegnativo, a trasformare lo stesso Tolstoj in un personaggio degno di comparire in un racconto del grande scrittore russo.

La vicenda inizia la notte tra il 27 e il 28 Ottobre 1910, quando l’ormai ottantaduenne Lev Nikolàevič decise di lasciare la famiglia e la sua casa di Iasnaja Poljana, dov’era nato e cresciuto e dove aveva a lungo abitato negli ultimi anni della sua vita, per una destinazione a lui stesso ignota. Il motivo erano le ormai reiterate incomprensioni e i litigi con la moglie Sof’ia, preoccupata per l’intenzione del marito di lasciare allo Stato i diritti d’autore di tutte le sue opere. Ma a queste motivazioni faceva da sfondo una ragione più vasta e profonda, che si può ricavare da un passo di una lettera scritta proprio alla moglie nel tentativo di fornirle una spiegazione della sua scelta subito dopo la sua fuga: “La vita non è uno scherzo, e non abbiamo il diritto di abbandonarla così. È anche irragionevole misurarla secondo la durata del tempo, forse i mesi che ci rimangono da vivere sono più importanti di tutti gli anni vissuti: bisogna viverli bene.

Questa convinzione, che imponeva di cercare di continuare a vivere una vita degna fino all’ultimo istante, per quanto potesse essere breve il tempo che gli rimaneva, lo indusse a continuare il viaggio appena intrapreso cercando di far perdere le sue tracce a Sof’ia e a quanti potessero cercare d’indurlo a ritornare a casa.

Così, per quanto possibile in incognito, viaggiando su treni a volte assai scomodi, Tostoj decise di dirigersi prima verso Optino e Samordino e poi, dopo aver soggiornato per un po’ nei pressi del convento dove si trovava la sorella Màrija, verso il Don.

Lo stato d’animo che doveva anche in quell’occasione accompagnarlo in un ultimo sussulto vitale è probabilmente riconducibile a quanto Radiščev attribuiva, già nel diciottesimo secolo, a se stesso, e di cui per Georg Steiner il romanzo russo del secolo successivo costituisce una glossa, ovvero il sentirsi sopraffatti “dal peso della sofferenza umana”. La risposta di Tolstoj a tale sentimento di sopraffazione trae slancio, almeno negli ultimi decenni della sua vita, dalla propria visione del Cristianesimo, per la quale “solo Dio esiste veramente. L’uomo è la sua manifestazione nella materia, nel tempo, nello spazio. Più la manifestazione di Dio nell’uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (le vite) degli altri esseri, più l’uomo esiste”.

Questa convinzione impone a ciascuno d’imparare a nuotare con la propria pietra al collo, riconoscendosi nel dolore degli altri non meno che nel proprio, perché proprio quella pietra con cui ciascuno deve continuare a nuotare costituisce l’unica garanzia di un senso della vita che non sia un effetto secondario e posticcio di false credenze egotiche, di una falsa coscienza che può solo condurre a una prigionia dell’anima e precludere ogni possibilità di rinascita spirituale.

Come osserva il narratore, i treni non erano mai piaciuti molto a Tolstoj, che li aveva sempre percepiti come “simboli lugubri”, e questa sua diffidenza conteneva probabilmente l’agnizione di un destino. Che dovesse intraprendere il suo ultimo viaggio proprio da una stazione ferroviaria lo si poteva tuttavia prevedere: era in parte già annunciato nei suoi romanzi, e non solo nei suoi, ma anche in quelli di altri scrittori russi che stimava e che continuò a leggere fino agli ultimi mesi della sua vita. Le ferrovie costituivano in effetti quasi un topos letterario che condivideva con altri scrittori russi, e in particolare con Dostoevskij: basti pensare all’inizio e alla fine di Anna Karenina, o all’inizio dell’Idiota, al ruolo anche simbolico che i treni e la stazioni hanno nell’intreccio dei due romanzi.

Durante il suo viaggio verso est, quando si trovava nei pressi della stazione di Astàpovo, le condizioni di salute di Tolstoj si aggravarono rapidamente, la febbre salì fino a quaranta gradi e Dusàn Makovickij, il suo medico personale, che lo accompagnava nel viaggio insieme alla figlia Aleksandra (Saša) e a Varvara Michàilovna Feokrìtova, la sua copista, decisero che era meglio interrompere il viaggio. Così, “alle sei e trentacinque il treno si fermò qualche minuto a una piccola stazione. Sotto la pensilina una lampada rischiarava una scritta: Astàpovo. Makoviackij aprì lo sportello, scese nel nevischio, sparì. Il treno fu trattenuto, Makovickij tornò col capostazione, Tolstoj fu fatto alzare, sorretto da Makovickij e dal capostazione scese dalla vettura. Saša e Varvara buttarono giù i bagagli. Tolstoj, sempre sorretto, venne portato nella sala d’aspetto più vicina, quella per le signore. Mentre vi entrava, il treno ripartì nel nevischio. Continuò la sua corsa verso il Don, e loro rimasero ad Astàpovo”.

L’accoglienza del capostazione, che lo riconobbe subito, fu commossa, così come quella della folla che si radunò sul posto poco dopo: gli uomini si scoprivano il capo al suo passaggio e lui rispondeva ai loro inchini “portando un dito al berretto”. Gli venne assegnata una stanza, “povera, coi mattoni rossi, lucidi, qualche stampa alle pareti, un calendario”. Una volta che fu disteso sul letto, “le luci vennero attenuate”.

Nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute nei giorni successivi, volle scrivere ancora qualche riga sul suo diario, descrivendo la sua giornata. La sua agonia durò sei giorni. Sof’ia, sopraggiunta con un treno speciale, su consiglio dei medici e poi per decisione della famiglia, non poté vederlo, e rimase chiusa dentro il suo treno fermo alla stazione. Lui seppe che c’era, ma non la fece chiamare.

Le ultime sue frasi, dopo sette giorni di delirio, ribadivano il suo fermo desiderio di proseguire, di andare in qualche posto, di scappare, e questo desiderio gli sopravvisse, in effetti, attraverso le storie e i personaggi delle sue opere, nella loro accettazione complessiva della vita e nella ricerca incessante di un suo significato, nel desiderio di non fermarsi a contemplare il proprio passato, ma di continuare a vivere la propria vita, come un tutto indissolubile, insieme a quella degli altri, di tutti coloro che gli era stato concesso di amare o di comprendere, di sentire come parti di una stessa sofferenza, riscattata e redenta da un’unica possibile grazia, perché riflessi infiniti di un’unica fraterna esistenza spirituale.

Si tratta, a ben vedere, di quello stesso tipo d’esistenza evocato dal desiderio che Lev Nikolàevič e suo fratello maggiore Nikolaj avevano espresso insieme, ancora bambini, incidendolo poi su un bastoncino verde: che gli esseri umani si amassero gli uni con gli altri. Questo era il segreto per rendere felici tutti gli uomini. Quel bastoncino venne poi da loro seppellito esattamente in quel luogo, in un bosco a poche centinai di metri dalla casa dov’erano cresciuti, ed esattamente in quel luogo, sotto un rilievo erboso, fu sepolto Tolstoj, nel pieno rispetto delle sue volontà, dopo il suo ritorno da Astàpovo.    

 

Alberto Cavallari, La fuga di Tolstoj, Skira editore, Ginevra-Milano, 2010.

 

Il desiderio di menzogna e la scelta dei candidati


Reflexions sur le mensonge (trad. it Sulla menzogna politica, Lindau editore, Torino, 2010) fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1943 e poi ripubblicato due anni dopo nella <<Contemporary Jewish Record>>, nel contesto del dibattito, che si stava proprio in quel periodo avviando, sui crimini nazisti contro l’umanità. In questo breve saggio, il grande storico della scienza e filosofo Alexandre Koyré fornisce una lucida e impietosa analisi della soggezione delle “masse” ad una sistematica menzogna politica, in particolare nel contesto dei regimi totalitari del Novecento.
Per lo studioso russo (ma culturalmente di adozione francese) la menzogna moderna è “fabbricata in serie e si rivolge alla massa”. Poiché ogni produzione destinata alla massa è destinata ad abbassare i propri standard, nulla si rivela altrettanto grossolano dei contenuti delle asserzioni della propaganda moderna, “che rivelano un disprezzo assoluto e totale della verità. E addirittura della mera verosimiglianza. Disprezzo che è uguagliato solo da quello – che esso implica – per le facoltà mentali di coloro a cui essa si rivolge” (trad. it. p. 11).
Tale disprezzo si sviluppa parallelamente a una crescente indifferenza o intolleranza verso l’idea stessa di verità. Non a caso, nei regimi totalitari si è soppressa la fiducia stessa nell’esistenza di una verità oggettiva, subordinando la stessa nozione di verità a fattori come lo spirito della razza, della nazione o della classe (cfr. ivi, p. 12). Il tradimento operato dai chierici in tali sistemi politici, l’abdicazione alla funzione critica che loro compete, gli ha progressivamente trasformati in “educatori” ideologicamente supini a un potere totalitario e capillarmente diffuso in ogni settore della società.
Il pensiero, per questi chierici arruolati e omologati, ha cessato di essere una luce per comprendere la realtà e si è trasformata in un’arma, tanto subdola quanto retoricamente ben attrezzata, per modificare la realtà e coltivare la menzogna come un imprescindibile strumento di potere. Secondo Koyré essi non disprezzano la ragione discorsiva e calcolante, che è uno strumento di potere sulla natura e sugli altri esseri umani; essi aborriscono piuttosto l’intelligenza intuitiva, ciò che i greci chiamavano Nous, ovvero il tipo più elevato d’intelligenza, quello che permette di operare i collegamenti più profondi e meno scontati (cfr. ivi, pp. 37-38).
Questi chierici di regime, ostili a qualsiasi forma di onestà intellettuale, ritengono la massa incapace di capire e per questo pensano di aver diritto di mentirle. Poiché la massa non sa pensare né volere, qualsiasi inganno o raggiro che la usi come mero strumento di potere, e quindi qualsiasi menzogna “politica”, dal loro punto di vista non solo è giustificata, ma persino auspicabile per il buon andamento delle cose d’interesse comune.
Un simile culto della menzogna, tuttavia, non si è fatto strada solo all’interno delle società totalitarie. Si può infatti ritenere, sulla scia delle considerazioni di Koyré – che per alcuni tratti sembrano procedere affiancate ad altre simili della Weil, di Le Bon o di Ortega y Gasset  - che anche nell’ambito delle democrazie occidentali chiunque eserciti una funzione pubblica debba saper mentire, perché il non saperlo fare attesterebbe la sua inaffidabilità agli occhi dei suoi stessi colleghi.
Ogni dirigente di partito è infatti obbligato a mantenere dei segreti, a non dire tutto, a omettere sistematicamente e deliberatamente qualche aspetto o fatto rilevante; ogni sua pubblica dichiarazione si rivela spesso “un crittogramma e una menzogna” (ivi, p. 35), che la massa degli adepti prenderà tuttavia per vera, dimostrandosi così indegna di entrare a far parte dell’elite degli iniziati, e cioè di quei bugiardi più credibili, disinvolti e sistematici che occupano le posizioni più alte nella gerarchia del potere.
Gli iniziati sono coloro che, conoscendo il pensiero intimo e profondo del capo, “non restano turbati dalle contraddizioni e inconsistenze delle sue asserzioni pubbliche: sanno che esse perseguono lo scopo di confondere le masse, gli avversari, gli altri e ammirano il capo che usa e pratica così bene la menzogna. Quanto agli altri, a quelli che credono, essi mostrano di essere insensibili alla contraddizione, impermeabili al dubbio, incapaci di pensare” (ivi, p. 36). Essi sono animali parlanti e creduli, che non pensano perché sono convinti di qualsiasi cosa già prima di pensare, e sono quindi portati ad assecondare i più sfacciati semplicismi ideologici. Guidati dal risentimento e dall’invidia sociale essi tendono a credere nei paralogismi più grossolani, nei pregiudizi più infantili e nei dogmi più nefasti. Il loro spirito gregario autorizza così, agli occhi delle elite, il loro progressivo immiserimento culturale, che viene indotto a prescindere da quale sia la visione del mondo e della società che tali elite prediligono. Naturalmente, queste denotano un carattere ben poco nobile, ma hanno comunque almeno un merito: quello consistente nel saper smascherare lo spirito servile che caratterizza le masse, che si dimostrano spesso inclini a lasciarsi persuadere e imbonire da politici senza scrupoli, quasi fossero attraversate dal desiderio che venga loro sempre elargita qualche nuova menzogna in cui credere.
Con il suo saggio Psicologia delle folle (1985), Gustav Le Bon aveva già involontariamente fornito a tutti i dittatori futuri un prezioso vademecum su come raggirare e utilizzare le masse:  Lenin, Mussolini, Stalin e Hitler furono tutti meticolosi lettori ed estimatori della sua opera, che insegnò loro persino il non semplice artificio psicologico di credere alle proprie stesse menzogne. Il saggio di Koyré non ebbe altrettanto successo di quello di Le Bon presso i dittatori del Novecento, ma purtroppo non ne ha avuto nemmeno uno proporzionale ai suoi meriti presso i cittadini elettori delle democrazie occidentali, che si rivelano spesso propensi ad abbracciare le teorie e le proposte elettorali più demagogiche e gratificanti per la loro immaginazione piuttosto che quelle più razionali e meglio argomentate.
Anche i cittadini delle moderne società liberal-democratiche non sembrano infatti immuni dal rischio di preferire le proposte di quello che Robert Musil definiva - nei suoi diari, durante il primo conflitto mondiale - il candidato ideal-tipico Signor Comesivuole rispetto a quelle del candidato, altrettanto ideal-tipico, Signor Comesideve (R. Musil, Herr Tuchting und Herr Wichting, in Soldaten Zeitung, n° 12 del 27 Agosto 1916, pp. 3-4). Così come quest’ultimo è intelligente – troppo intelligente per la massa degli elettori, che per questo nutrono nei suoi confronti una spontanea diffidenza - colto, onesto e indipendente, il signor Comesivuole è invece privo di onesta intellettuale e incline a pronunciare sempre le parole che tutti si aspettano da lui in ogni circostanza. Risulta così molto più popolare del primo, cosa che gli conferisce il diritto di nutrire la legittima aspettativa di ricevere incarichi e mandati, obiettivo che riesce spesso a conseguire anche per il saper esibire in ogni situazione una sorridente faccia tosta.
Al momento opportuno, infatti, il signor Comesivuole sa allungare la mancia giusta e riesce sempre trovare gli argomenti più accattivanti e politicamente idonei per convincere qualsiasi funzionario o dirigente della ragionevolezza delle sue intenzioni. Viene per questo sempre trattato con ossequiosa cortesia e stimato dai colleghi di partito per il consenso che sa produrre. Il fatto che anteponga ad ogni altra istanza i propri interessi particolari costituisce in effetti solo l’indizio positivo che saprà anteporre anche quelli del suo gruppo politico agli interessi più generali del paese e della cittadinanza, requisito questo necessario per poter scalare rapidamente la gerarchia interna del suo stesso partito.
Per evitare che le moderne democrazie parlamentari degenerino progressivamente, come paventava Hobbes, in “aristocrazie di oratori”, l’elettore può soltanto, secondo Musil, cercare di individuare e votare candidati Comesideve senza lasciarsi imbonire da candidati Comesivuole; dal canto loro, i candidati eletti dovrebbero opporsi a qualsiasi forma di corruzione e non diventare mai strumenti per la realizzazione delle esigenze di questo o quel partito o di gruppi particolari di cittadini, ma essere al servizio di tutto il popolo e dello Stato. 
Ma come riconoscere i candidati Comesideve di cui parla Musil? Probabilmente, coloro che si avvicinano di più a poter essere inclusi in tale categoria sono quelli che si mostrano meno smaniosi di detenere cariche pubbliche o ricevere mandati, che non amano fare promesse che potrebbero rivelarsi avventate e che sono più inclini a usare argomenti piuttosto che asserzioni, dimostrandosi così, in quanto cultori di quella che Habermas definisce “ragione comunicativa”, sempre anche rispettosi delle altrui opinioni. Quest’ultima loro disposizione dialogica potrebbe poi essere a sua volta riconosciuta grazie al fatto che solo essi sono in grado, durante una discussione con i loro avversari politici, di mutare opinione, almeno su qualche aspetto particolare del tema in oggetto. Questi tre indizi possono forse rendere riconoscibili meglio di altri i candidati Comesideve e mitigare i danni che recano abitualmente a ogni comunità i loro contraltari ideal-tipici, i demagoghi opportunisti, ovvero quei signori Comesivuole che sono attivi in ogni contesto storico-politico e di cui sarebbe auspicabile che ogni Democrazia imparasse a fare progressivamente a meno.


Il fascino indiscreto di "Non dire piacere"

Da quando è uscito nelle librerie italiane il libro di Sibilla della Gherardesca Non si dice <<piacere>> (Sperling & Kupfer editore, Milano, 2000, pp. 225) capita sempre più spesso di sentir ripetere da amici e conoscenti che sarebbe una buona abitudine non usare questa espressione quando ci si presenta o si è presentati a qualcuno, specialmente se si tratta di un colloquio di lavoro. Su alcuni social networks capita persino di leggere la testimonianza di molte persone che, avendo preso molto sul serio il suggerimento dell’autrice, dichiarano di essersi morse la lingua dopo aver usato tale espressione, o di essersi comunque rammaricati. Ma per quali ragioni essa dovrebbe essere esclusa dal novero di quelle previste dalla buona educazione? Su questo, non pare che siano in molti ad essersi interrogati, forse preferendo, visto che l’indicazione viene da una nobile fiorentina, prenderla per buona.

Il brano in cui l’autrice sostiene questa tesi – usando, come del resto in tutto il libro, un tono garbato, ancorché lievemente ironico e perentorio - è il seguente: dopo esservi presentati dicendo semplicemente il vostro nome e cognome, “chi vi è di fronte vi risponderà con un <<Buongiorno>> o un  <<Buonasera>> seguito dal suo nome e cognome, e vi tenderà la mano. Eviterà però il classico <<Piacere>>, che, pur diffusissimo, sa molto di adulazione e indulge eccessivamente verso la piaggeria (parente lontana e degenerata della buona educazione), che sarebbe sempre meglio evitare. Anche se si tratta solo di formalità, il <<piacere>> di conoscere quella persona poi, in questa fase iniziale del rapporto, è ancora tutto da verificare e questa formula racchiude quindi spesso il massimo dell’insincerità. Dunque niente <<Piacere, dottor Rossi>> (troppo compiacente), ma nemmeno <<Onoratissimo>>, <<Fortunatissimo>>, <<Felicissimo>> (troppo entusiastici), e tanto meno <<Salve>> o <<Buondì>> (troppo informali e sbrigativi): è sufficiente e più diretto un bel <<Buongiorno, Mario Rossi, con un quasi impercettibile inchino della testa. Se invece è una terza persona a presentarvi, alzatevi (se per caso siete seduti), porgete la mano e accompagnate il tutto con un <<Buon giorno>>, aggiungendo magari anche <<Come sta?>>” (pp. 3-4).

A questo punto, l’autrice si raccomanda di non rispondere a quest’ultima domanda con frasi del tipo: “<<male, non ho chiuso occhio tutta la notte>>, che non fa parte del gioco, a meno che non conosciate già questa persona ed essendo in confidenza possiate quindi andare oltre il piano della formalità” (ivi, p. 4).

A parte il fatto che questo caso non si pone nemmeno, perché se così fosse non si tratterebbe di una <<presentazione>>, è interessante soffermarsi  sull’argomento principale avanzato da Sibilla della Gherardesca: quello per cui il dire <<Piacere>> sarebbe un atto di “piaggeria” e un sintomo della massima “insincerità” in quanto, nella fase iniziale di un rapporto, non si può essere certi che il fare quella nuova conoscenza possa in effetti costituire un <<piacere>>, dato che, ripensandoci il giorno dopo, potremmo non considerarlo tale.

Il fatto che nella maggior parte delle lingue del mondo – come per esempio in inglese (Nice to meet you); in tedesco (Freut mich, dich kennenzulern); in francese (Enchanté) e in spagnolo (Encatado/a) – esistano espressioni che hanno un significato analogo dovrebbe però già farci venire qualche dubbio sulle ragioni che hanno ispirato l’autrice. In effetti, quando si usa una simile espressione – così come quando si dice <<Nice to meet you>> - non si vuole annunciare che all’indomani ricorderemo con piacere l’incontro con quella persona, né che ci impegniamo a farcene un’opinione positiva, ma solo che in quel preciso momento ci fa piacere fare la sua conoscenza. Si tratta cioè di un’espressione che rivela una disposizione d’animo positiva, che si ritiene cortese comunicare all’altro anche per favorire un buon avvio della conversazione. Nessun impegno, quindi, nessuna piaggeria e nessuna ipocrisia, sebbene sia possibile usare tale espressione anche in assenza di uno stato d’animo corrispondente a quanto intende comunicare. Essa palesa solo la disposizione favorevole del momento, una certa curiosità e magari il desiderio di avviare un cordiale scambio d’idee. Non solo non c’è nulla che possa indurre ad escluderla dal novero delle buone maniere, ma, anzi, essa rivela uno stato d’animo antico quanto il mondo, nonché propizio all’instaurazione di buoni e amichevoli rapporti sin dal primo momento.

L’argomentazione dell’autrice non è del resto esente da alcuni riflessi abbastanza comici e paradossali. Per esempio, l’indicazione di presentarsi con un semplice <<Buon giorno, come sta?>> potrebbe innescare una risposta insidiosa - specialmente alla luce del menzionato parametro sincerità/insincerità - come per esempio quella da lei stessa ventilata: “<<Male, non ho chiuso occhio tutta la notte>>”. Si tratterebbe, in effetti, di una risposta che non sta alle regole del gioco, ma sarebbe senza dubbio, se fosse vero, una risposta sincera. Ma di fronte a una domanda di questo genere (<<Come sta?>>) da parte di una persona appena conosciuta potrebbe anche venir voglia di rispondere: <<Bene, grazie, ma a lei cosa gliene importa?>>. Certo, sarebbe una risposta maleducata, ma avrebbe almeno il merito di rivelare una certa indelicatezza della domanda, visto che non siamo diventati ancora assidui frequentatori reciproci.

Il dire semplicemente <<Buongiorno>>, poi, sarebbe il segno d’un approccio generico e di uno scarso interesse specifico, dato che lo stesso augurio può essere rivolto anche a persone che si conoscono già da tempo e verso le quali non si nutre una spiccata simpatia: in questo caso, inoltre, tale espressione non risulterebbe in potenza meno insincera di quell’incriminato <<Piacere>>.

Nel libro in questione si esiliano dall’albo delle buone maniere anche tante altre locuzioni di uso comune, con argomenti che non solo non risultano più felici, ma che costituiscono indizi piuttosto inquietanti di una visione alquanto asfittica delle relazioni umane. Il dire <<Buon appetito>> all’inizio di un pasto è, per esempio, considerato “poco elegante: una volta che tutti sono serviti, basta un sorriso ai propri vicini di tavola. Per essere sicuri di poter iniziare a mangiare dovete solo sincerarvi che tutti siano stati serviti e che le signore abbiano iniziato, oppure, in mancanza di signore al vostro tavolo, che l’abbia fatto l’ospite più importante” (ivi, p. 169). La scena, piuttosto divertente, che potrebbe seguirne se questa indicazione fosse presa alla lettera potrebbe essere la seguente: tutti i commensali, a un certo punto, cominciano a sorridere ai propri vicini, dando luogo ad una catena di sorrisi poco motivati. Qualcuno, poi, in assenza di signore, potrebbe assumere un’espressione particolarmente preoccupata e concentrata nel tentativo di stabilire chi sia la persona più importante al proprio tavolo. Se si trattasse di nobili (ai più non capita di frequente di averli come ospiti a cena) potrebbe essere facile individuarla, ma se fossero semplici borghesi? Forse l’avvocato tal dei tali dovrebbe essere considerato più importante dell’ingegnere tal dei tal altri? Chi dovesse trovarsi in questa situazione imbarazzante potrebbe decidere di aspettare che qualcuno inizi a mangiare, perché colui che si auto-autorizzasse a farlo potrebbe essere il “più importante” tra i commensali, ma anche in questo caso può sorgere il dubbio che si tratti di un segno di auto-sopravvalutazione, per cui, per fare le cose fatte bene, sarebbe molto meglio aspettare ancora, pur correndo così il rischio che, al sommo della buona educazione, nessuno incominci per un bel po’, facendo registrare una diffusa esitazione ancor più imbarazzante.

Eppure, il dire <<Buon appetito>> è un bell’augurio e un bell’inizio per un pasto: significa auspicare implicitamente che tutti godano della buona salute che è necessaria per avere, appunto, un buon appetito, ma anche augurare a tutti i partecipanti al desco di sapersi godere i piaceri della vita, i quali, d’altra parte, non dovrebbero mai essere disprezzati, specialmente quando possono essere condivisi e il goderne non reca nocumento ad altri.

Dopo la pubblicazione di questo libro – che è uscito in libreria circa tredici anni fa – dobbiamo dunque, a quanto pare, fare a meno di troppo espliciti riferimenti a piaceri sensoriali e a espressioni in grado di evocare spontanei moti dell’anima, che possiamo tuttavia sostituire con flebili sorrisi mentre ripassiamo frettolosamente le gerarchie d’importanza delle persone che siedono al nostro tavolo, per poi iniziare a mangiare in un algido silenzio, con la recondita preoccupazione che un frammento d’insalata o di un ripieno di spinaci ci rimanga sovra-esposto indebitamente sopra il bianco di un dente, il che dovrebbe indurci, se non riusciamo a rimuoverlo in fretta e in gran segreto, a evitare di sorridere per il resto della serata (cfr., ivi, p. 172), col rischio che gli astanti ci trovino noiosi o torvamente depressi. Naturalmente, si può sempre sperare che anche gli altri siano afflitti dalle stessa cattiva sorte e che, non sorridendo più nessuno e mettendosi ognuno nei panni altrui, alla fine possiamo risultare almeno solidali, e ritenerci virtualmente tutti abbastanza allegri da poterci vicendevolmente attribuire la capacità di divertirci un mondo in un’altra vita e ad un’altra mensa, dove un moto d’animo che traspaia da una frase o una macchia verde che faccia capolino da un sorriso non possano mettere a repentaglio la nostra onorabilità e le nostre buone maniere.

 

 

Verso una tana calda e buia

 

Il Sessantotto visto da dentro in Per misura d’igiene di Franco Petroni

 

“E se ci fosse davvero, l’inferno? No che non c’è. Non c’è nessun Dio e nessun Diavolo. Le favole sono favole, purtroppo; e la vita è la vita. Non esiste nessun vecchio saggio nella grotta sul monte; nessuna vecchina benefica nel folto della foresta. Non c’è nessuno a cui credere; nessuno a cui chiedere consiglio”. Per la protagonista e narratrice di Per misura d’igiene di Franco Petroni - recentemente riedito per l’editore Morlacchi (dopo una prima edizione per le edizioni "Il Lichene", nel 1995) - non ci sono, più in generale, buone ragioni per confidare o sperare in qualcosa che vada al di là della distruzione dell’esistente: perché questo è contaminato da un male radicale, da un difetto d’origine.

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Lo Zarathustra crocefisso

I seminari di C. G. Jung su “Lo Zarathustra” di Nietzsche

 

Nel biennio 1934-35 C. G. Jung tenne, nei pressi di Zurigo e dopo qualche sollecitazione da parte di alcuni suoi allievi ed estimatori, un seminario su “Lo Zarathustra di Nietzsche”. Tra tutte le opere di Jung – sia scritte che trascritte in seguito, sia pubblicate in vita che postume – questa ci pare senza dubbio una delle più dense e significative, e non solo perché vi si legge “Lo Zarathustra” da una prospettiva nuova, che offre un contributo critico assolutamente originale e comunque molto diverso da quelli usciti in epoche diverse dall’ambito accademico-universitario, ma soprattutto perché le numerose digressioni su tematiche religiose, filosofiche e psicologiche fanno di questo testo (recentemente tradotto in italiano per Bollati Boringhieri da Alessandro Croce, in un volume curato da James L. Jarrett) uno dei più preziosi per la stessa comprensione del pensiero di Jung.


 

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L'elogio della pazienza del nulla

 

Dopo aver trascorso più della metà della sua vita in missioni all’estero – prima in Africa, poi soprattutto in America latina – negli ultimi anni della sua vita Don Arturo Paoli fece ritorno a casa. Nella chiesetta di San Martino in Vignale, sulle colline lucchesi, le sue celebrazioni erano gremite di persone di ogni età ed estrazione sociale, e ciò nonostante che il tipo di cristianesimo che traspariva dalle sue letture del Vangelo non fosse dei più concilianti. Questa circostanza dipendeva probabilmente dal fatto che la sua reale esperienza del deserto e del “nulla” conferiva ai suoi discorsi un alone spirituale tale da renderli fonti di riflessione e ispirazione sia per i fedeli più fervidi sia per quelli più dubbiosi e incerti.

Forse, se volessimo riassumere in un motto soltanto il significato dell’intento spirituale del suo ultimo libro (La pazienza del nulla, Chiarelettere editore, Milano, 2012), potremmo riprendere con lui quanto gli ripeteva spesso Carlo de Foucauld, suo maestro spirituale: jamais avoir peur, non avere mai paura; oppure l’esortazione, che lo stesso Paoli cita da un’opera di Bernhard Welte (La luce del nulla, Queriniana, Brescia, 1983): “non temete”. Il fatto che queste esortazioni possano aver ispirato anche il cuore pulsante e segnato l’eredità più significativa del pontificato di Giovanni Paolo II non costituisce probabilmente una casualità, dato che la paura sembra costituire, nel contesto della civiltà contemporanea, il sentimento che la caratterizza in maniera più essenziale e rilevante.

La paura del nulla è infatti, per Arturo Paoli, una espressione diretta dell’attuale società dei consumi, che dal nulla è portata a difendersi in maniera aggressiva e affannosa. Una simile autodifesa tanto allarmata, non avrebbe tuttavia ragion d’essere se imparassimo a considerare il nulla in questione un nostro alleato e amico, ovvero quella dimensione che può aiutarci a ritrovare una nostra specifica e individuale autenticità. Nell’esperienza del nulla, infatti “il soggetto sparisce del tutto, è spogliato proprio dell’essere soggetto”, ma questa circostanza, se può rivelarsi anche pericolosa e spaesante, costituisce tuttavia una condizione necessaria a qualsiasi rinascita non episodica, e ciò perché, come spiega bene Welte, “<<chi fa esperienza del nulla fa veramente un’esperienza, incontra cioè qualcosa che lo colpisce, lo sconvolge e lo trasforma>>”, qualcosa che è in grado di liberarlo da quanto la società, con le sue chiacchiere e le sue illusioni falsamente rassicuranti, gli hanno calato addosso.

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La caduta e la perdità dell'unità


Recensione a: Carlo Lapucci, Estetica e trascendenza, edizioni Cantagalli, Siena, 2011.

Quando l’argomento è molto esteso e quando si cerca di fornire una visione generale di una tematica variegata e complessa, allora uno stile espositivo chiaro e l’uso di un lessico non troppo tecnico costituiscono requisiti quasi indispensabili affinché la trattazione risulti piacevole e comprensibile anche per lettori non specialisti. Il libro di Carlo Lapucci Estetica e Trascendenza ha questi requisiti, e se anche per alcuni tratti sembra prefissarsi una finalità quasi divulgativa, la chiarezza della sintesi che propone non deve trarre in inganno, perché in modo sorprendente, con una prosa leggera e a tratti colloquiale, vi compaiono spesso osservazioni che sorprendono per la loro capacità di gettare uno sguardo originale e significativo su una problematica che attraversa un arco di tempo molto vasto.

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Le città vivono nello sguardo dei poeti

 

    Una decina di anni fa, in un piccolo libro discreto e prezioso, Piera Mattei indagò ed espose il rapporto privilegiato che i poeti hanno con le città. Ciò che i poeti vi vedono, ciò che a volte in esse scorgono appena, quanto sanno cogliere con il loro sguardo, può addirittura indurre a sospettare che solo a loro sia concesso di avvertirne l’indole, l’umore e il respiro segreto.

   Le città sono per i poeti muse ispiratrici, luoghi simbolici dell’anima, spazi circoscritti che alludono a quello complessivo in cui ogni vita si svolge necessariamente. In altre parole, sono per i poeti entità dotate di vita propria, di una luce con cui ci si può trovare o meno in sintonia: sono angoli in cui ci si può sentire ad un tempo protetti e precari, spaesati o accolti all’interno di un ordine che ha talora l’aspetto di uno spazio concluso ritagliato all’interno di un vortice incomprensibile.

   In quel breve saggio, I poeti e le città, Piera Mattei si soffermava sulla relazione che alcuni poeti avevano avuto in particolare con Roma, che forse più di ogni altra è idonea a rappresentarle tutte per la sua capacità di far provare a chi la abita il senso “di appartenenza al luogo”. Dal soggiorno romano di Ingeborg Bachmann in via Giulia – che, come ricorda Giorgio Agamben, attribuiva a Roma il merito di averle insegnato a “darsi tempo, a guardare e ad ascoltare”, tanto da considerarla tra le metropoli “l’ultima in cui si possa avere un sentimento di patria interiore” - attraverso quelli di Palazzeschi, di Rilke, di Keats e Shelley, dell’Alfieri e di Metastasio, il libro si snoda attraverso considerazioni e aneddoti intrecciati in modo tale da rendere percettibili sia le atmosfere dei luoghi sia alcuni tratti delle poetiche dei loro illustri ospiti, ma anche le relazioni che tali poetiche hanno instaurato con le loro vite da “cittadini” romani.

   Talora l’autrice si sofferma sui riverberi prodotti dai soggiorni antecedenti di alcuni poeti su quelli di altri successivi. Quando per esempio il Tasso si farà condurre al “munistero di S. Onofrio” - non solo per poter godere dell’aria salubre del luogo, ma soprattutto per iniziare dal quel luogo eminente, attraverso la conversazione con i suoi “divoti padri”, la sua “conversazione in cielo” - lascerà una testimonianza del suo rapporto con la città tutta che risulterà preziosa e cara per Leopardi, al quale capiterà spesso di commuoversi presso la tomba del poeta meditando sulla di lui infelicità e sul contrasto di questa con la bellezza del luogo.

   Il ricordo commosso del Tasso da parte di Leopardi ci consente di comprendere meglio come questa città – che nell’Apocalisse è paragonata, con un’immagine per altri versi attuale, ad una “meretrice che cavalca la bestia vermiglia delle sette teste (i suoi sette colli) e ha in mano la coppa colma delle sue nequizie” – sia anche il luogo privilegiato in cui s’intrecciano memorie di poeti diversi, talora saldandosi o fondendosi in una sola variegata scia.

   Le altre città menzionate dal libro – la New York di Withman, la Trieste di Joyce e Svevo, la Madrid e la “collina dei pioppi” di Lorca, Bunũel e Dalì, sembrano alla fine anch’esse eco e risonanze particolari dell’attitudine di Roma a trasfigurarsi in un luogo dell’anima: luogo in cui si riannoda incessantemente un discorso fatto di memorie diverse, in una ridda di voci, di luci, di ombre e di specchi che lascia trapelare la vocazione più autentica di ogni città. Il fatto che spesso i loro abitanti attuali mostrino di trascurare la memoria stessa di chi vi ha soggiornato restandone affascinato e commosso, rendendole così più compiutamente ciò che sono, e che quelli stessi abitanti omettano talora anche una piccola lapide in ricordo di una residenza che pur ha lasciato una traccia significativa nella loro storia, alla fine testimonia della disposizione ottusa e distratta dei nostri tempi verso quanto ci circonda e a suo modo ci accoglie.

   Per chi sentisse però il bisogno di tener viva l’immagine di scorci e di strade, di piazze, parchi e palazzi, o delle umili dimore e dei cortili delle città che ha amato, anche questa triste forma d’oblio potrebbe suonare invece come una provocazione, come un invito ulteriore a sfogliare il palinsesto delle presenze sovrapposte che ancora vi risuonano. Sarà forse proprio riscoprendo il piacere di farci in questo modo visitatori e cittadini più attenti, in grado di conversare con lo sguardo di chi prima ha apprezzato le atmosfere e gli incanti segreti delle città che ci sono più care, che queste potranno rimanere scrigni vivi di memorie anche per le generazioni future.

 

 Piera Mattei, I poeti e la città, Il Bisonte editore, Firenze, 2009.

 

Cinque anni con Mario Tobino


Si sa che una cosa è scrivere anche di sé, trasponendo alcune parti della propria vita in qualche personaggio, altra cosa è avere la dimensione e le prerogative di un personaggio letterario. Ma cosa fa di uno scrittore un personaggio virtuale, pronto ad essere raccolto dalle impressioni e magari dalla penna di qualche altro scrittore? E più in generale: può uno scrittore farsi personaggio letterario? Forse sì, quando è felice di trovare una persona a sua volta felice di farsi testimone della sua vita e di ascoltare i suoi racconti.
Non tutti gli scrittori sono adatti a dare vita a un personaggio. Un requisito per essere idonei a questo ruolo potrebbe essere l’aver conservato una certa dose d’ingenuità e di autenticità, qualità che sono connesse con quell’onestà intellettuale che sempre deve accompagnare chi ha appreso l’arte paziente e dolorosa di essere da solo, di cui è corollario il saper provare indignazione.

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L'io che mi parla


           Il seminario di Jacques Lacan sulla psicosi

   Da alcuni anni le nozioni fondamentali della teoria psicoanalitica di Jacques Lacan sono divenute, anche in Italia, patrimonio comune di chiunque coltivi un qualche fondato interesse per la psicoanalisi. Tuttavia, l’opera svolta da alcuni seguaci e divulgatori del pensiero di Lacan in Italia (ma non solo)  ha dato via libera ad una serie di modulazioni retoriche che hanno contribuito non poco a confondere le linee salienti dell’insegnamento del maestro.
   Famoso più per la sua oscurità che per le sue essenziali delucidazioni, più per i suoi giochi linguistici o i suoi “nodi” che per il rigore della sua indagine, Jacques Lacan è probabilmente oggi lo psicoanalista che ha suscitato - anche grazie ad un “gergo” incessantemente allusivo, procrastinante, ostico e accattivante a un tempo - i fraintendimenti più radicali del proprio pensiero, i suoi usi più verbosi e affabulatori.
  

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Persuasione, rettorica e poesia.


    Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia nel 1887 da famiglia italiana-ebrea, appartiene alla schiera di quei pensatori la cui filosofia ha origine da un’unica contrapposizione fondamentale. Per alcuni di questi, come Schpenhauer, Nietzsche o Wittgenstein, tale caratteristica è mascherata dalla storia della loro produzione, che estendendosi in un periodo relativamente lungo presenta articolazioni che ne variano e arricchiscono le problematiche.   
   Basterebbe tuttavia limitarci alla considerazione delle loro prime opere per avvertire distintamente la struttura dicotomica del loro approccio iniziale. Nel caso di Michelstaedter tali sviluppi non sono stati possibili, perché la sua attività ha avuto termine quando aveva solo ventitre anni. Non appena ebbe ultimato il suo saggio di laurea: La persuasione e la rettorica , saggio che oggi è considerato da molti uno dei più significativi della letteratura filosofica italiana del Novecento.
 

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Ribelli e mancati

  
                        Il tempo degli assassini. Un saggio su Rimbaud di Henry Miller.


   “Rimbaud rappresenta tutti i crimini e i moti della pubertà” - scriveva Paul Valéry nei suoi Cahiers:  “atti solitari, notti impossibili, cattiva coscienza anche in un angelo sapientissimo, intensa commedia intellettuale, tensione degli estremi nutriti da lunga inazione”. Ma proprio il coltivare questa cattiva coscienza e l’esasperare tale “commedia” comportò, secondo alcuni insigni critici, il principale limite della sua opera poetica: una certa involuta ricercatezza letteraria saldata a un forzoso vitalismo. Basti citare a proposito il giudizio di Croce, secondo il quale Rimbaud  tentò, “mercé la vita lazzaronesca o bohemienne”, di accumulare materiali atti ad “eccitare artificiosamente una impossibile poesia”.
   Pur divergendo nelle valutazioni, Valéry e Croce concordano sul nesso provocatorio che sussiste  tra la vita di Rimbaud e la sua poesia. Entrambi  non soffermano però abbastanza la loro attenzione sul fatto che il poeta francese dette inizio alle proprie scorribande nell’esistenza al termine della sua stagione poetica, quando la sua ispirazione lirica si era consumata e nel tentativo di prolungarne la lucidità estenuante egli cercò di commisurarvi la propria vita a venire.

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Il motore della critica? L'affetto.

Nel dopoguerra si sono avvicendate sulla scena culturale francese scuole filosofiche tra le più feconde ed originali del secolo, correnti e mode prolifiche e discordi. Parigi è stata la madre adottiva di sciami di teorie, alcune d'importazione, altre autoctone.

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Ingenuità bruciata

Francis Scott Fitzgerald, 28 Racconti, Mondadori

I ventotto racconti di Francis Scott Fitzgerald scelti da Malcom Cowley per The Stories, un'antologia uscita in America negli anni cinquanta , erano quasi tutti già apparsi in volume prima della morte dell'autore.

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Vocazione e apprendistato dei poeti

Friedrich Schiller: Sulla poesia ingenua e sentimentale;  "Se" edizioni

Il poeta, o è natura, o vorrà riconciliarsi con la natura; o cercherà di "far felice il proprio oggetto, o d'elevarlo". Nel primo caso abbiamo il poeta ingenuo, nel secondo il sentimentale. "L'ingenuo è una fanciullezza che si manifesta là dove non è più attesa (…), il sentimentale è la capacità d'elevare la realtà all'ideale", ovvero di trovare nell'ideale quell'unità con la natura alla quale il poeta sentimentale non può accedere spontaneamente.

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Amanti al femminile

Margherite Duras, L'amante , Feltrinelli

Colette, Chéri , Adelphi

Colette, La fine di Chéri , Adelphi

In ogni opera letteraria si possono distinguere dei limiti interni e dei limiti esterni. Quelli interni sono dati dal mondo dell'autore, dai personaggi che riesce ad individuare e dalle storie che si propone di costruire. 

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L'uomo che scambió sua moglie per un cappello

Oliver Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi

Sulla scia dell'eminente studioso russo A. R. Luria - autore di alcune opere fondamentali per la neurologia contemporanea quali Le funzioni corticali superiori nell'uomo e Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla  - Oliver Sacks, neurologo newyorkese e scrittore per vocazione, ha raccolto in un volume di brevi racconti le storie inquietanti e spesso amare di alcuni suoi pazienti.

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