Le "belligeranti" derisioni di Pippo Russo


Nel suo ultimo libro, L'importo della ferita e altre storie (edizioni Clichy), Pippo Russo illustra diffusamente i difetti formali e stilistici delle opere di alcuni autori di successo, come Giorgio Faletti, Fabio Volo e Federico Moccia. Con grande sfoggio di sarcasmi e argomentazioni pretestuose, li irride tutti per circa trecento pagine. Sebbene il targhet di lettori più o meno deliberatamente prescelto da alcuni degli autori in questione abbia forse determinato l’adozione di uno stile e di ambiti tematici che non risultano interessanti per tutti, credo che gli scrittori presi di mira da Russo non meritino un trattamento così gratuito e derisorio. Inoltre, alcuni dei malcapitati, come Moccia, hanno indotto molti ragazzi alla lettura, un merito non poco trascurabile di questi tempi.
Russo rimprovera ai sopra menzionati autori un uso approssimativo o scorretto della lingua italiana, sostenendo che la lettura delle loro opere potrebbe avere addirittura effetti diseducativi sui loro poco accorti estimatori. Tuttavia, alcune espressioni contenute nei romanzi presi in esame, pur essendo in effetti non corrette da un astratto punto di vista grammaticale e/o sintattico, risultano in fin dei conti giustificabili dal punto di vista letterario, mentre quelle suggerite dallo stesso Pippo Russo sarebbero risultate decisamente inefficaci e fuori luogo.
Ciò di cui l’autore del saggio non sembra tener conto è che, quando i narratori di alcuni romanzi, come ad esempio quelli di Moccia, si servono, utilizzando un discorso indiretto libero, di frasi formalmente non irreprensibili, essi tendono giustamente ad assecondare il gergo interiore con cui i personaggi pensano e sentono, rispetto al quale si rivelerebbero inappropriate espressioni più consone sotto il profilo lessicale e sintattico-grammaticale.
Per esempio, a pagina 183 Russo cita la seguente frase da Ho voglia di te: “Deve essere un Pampero. No, un Havana Club, vejo sette anos almeno”, e così commenta: “Spagnolo maccheronico. La formula esatta è viejo siete años. È stato capace di sbagliare tre parole su tre”. Tuttavia, non pare probabile che Moccia non sapesse che quell’espressione non era corretta, anche per il semplice fatto che, risultando da una mescolanza di due lingue diverse, non poteva esserlo in nessuna delle due; ciò che risulta molto più verosimile è invece che, nell’intento di mimare e assecondare il modo di pensare e di esprimersi abituale del personaggio, egli abbia tenuto conto che l’espressione appropriata in castigliano sarebbe risultata alquanto innaturale e artificiosa.
La maggior parte delle critiche di Russo sono di questo pretestuoso tenore. Poiché sembra piuttosto improbabile che un giornalista e scrittore non sia a conoscenza della liceità di tali procedure letterarie, e quindi anche della tonalità mimetica che il discorso indiretto può assumere in certe narrazioni, sorge il legittimo sospetto che le sue perentorie critiche siano state avanzate in virtù di una sostanziale malafede intellettuale.
Giorgio Faletti è, tra tutti i malcapitati, forse quello che si tira addosso le battute più caustiche. Sebbene vi siano talora nelle sue opere espressioni quanto meno “curiose”, anche in questo caso molte delle critiche che gli vengono mosse sembrano più l’effetto di un’antipatia istintiva e pregiudiziale che non il risultato di una ponderata riflessione. Russo se la prende ad esempio con la qualifica di “non belligeranti” riferita a delle “fantasie”, dicendo che non ha idea di come possano essere “non belligeranti” le fantasie”, ma forse, usando per l’appunto un po’ di fantasia, si può capire che, se esistono delle “fantasie belligeranti” – e credo siano, se si asseconda la metafora, un’esperienza piuttosto diffusa – forse ne esistono anche di “non belligeranti”, ovvero, come si specifica nel testo di Faletti, d’innocue e prive di secondi fini, come quelle di un “contaballe” che ha il talento di credere per primo alle storie che racconta.

Pippo Russo non si limita però a proporre critiche di ordine formale. Talora si spinge a etichettare anche aspetti contenutistici delle opere che prende in esame. È quanto accade ad esempio con Fabio Volo: da Un posto nel mondo, il  suo terzo romanzo, Russo riporta stralci di una lunga lettera che un figlio scrive a un padre. Si tratta di una lettera non banale, né lagnosa né stereotipata, che nella sua veste di sistematico derisore Russo bolla come un frammento “denso di buonismi all’ingrosso”.
L’aggettivo “buonista” è una spia eloquente dell’atteggiamento liquidatorio che percorre tutto il suo saggio, perché l’uso liquidatorio di tale termine è ricorrente tra tutti coloro che non sanno distinguere tra “buoni sentimenti” e “sentimenti buoni”. Chi è incline a scambiare uno stato d’animo positivo, comunicativo e costruttivo, talvolta ingenuo e comunque non troppo rielaborato con uno stato d’animo falso e preconfezionato, un sentimento “buono” a posteriori con l’effetto  stereotipato di un sentimento predefinibile come “buono” in base a cliché convenzionali e socialmente condivisi, ha la tendenza ad affibbiare diffusamente quest’etichetta.
Proprio quest’attitudine, ad etichettare e irridere con argomentazioni frettolose e pretestuose interi periodi o singole espressioni, scelte lessicali o metafore più o meno originali, contraddistingue e attraversa tutto il saggio, che ha tuttavia il merito di suscitare qualche riflessione non vana sull’uso della lingua italiana in letteratura, oltre a quello, decisamente non voluto, di far venire voglia di leggere – almeno a chi ancora non lo aveva fatto prima di questa lettura, o lo aveva fatto in modo parziale e discontinuo - le opere dei suddetti bistrattati scrittori.