Una vita sola non è una vita

  Una silloge di diciassette racconti dello scrittore argentino Abelardo Castillo tradotti da Elisa Montanelli per l'editore Del Vecchio

Ne I mondi reali di Abelardo Castillo un frammento dell’io del narratore può saltare via all’improvviso, come un elettrone distratto dalla sua orbita, per dislocarsi in un punto esterno, dal quale può iniziare a parlare in terza persona dell’Io che fino a poco prima presumeva di essere in prima persona. Sono diverse le storie in cui simili salti narrativi si succedono con disinvoltura, quasi ogni volta ad annunciare la precarietà della tensione che tiene avvinta ogni personalità ad un centro insondabile. Del resto, ciò non deve sorprendere, perché costituisce solo un aspetto del moto centrifugo che caratterizza la vita di molti dei personaggi dello scrittore argentino:

“La vita, mio caro Castillo – gli dice uno dei suoi personaggi, uno che lo conosceva bene - la vita è molto più di qualche catena di acido deossiribonucleico, enzimi e combinazioni di molecole. La vita è un mistero”. Lo attestano gli innumerevoli paradossi che ne scandiscono il tempo, la crudeltà che sa evocare e la spietatezza di quella forma di pietas estrema che consiste nel guardare in faccia la logica inane che nutre molte sue tragedie. Per fortuna, si tratta di paradossi e tragedie che a volte tendono a elidersi, perché può capitare che i primi riescano ad avvolgere le seconde entro una risata liberatoria e repentina.

 

“Come fa un figlio a sapere dove gli duole a suo padre, se il padre, mentre muore, tocca il culo alle infermiere e se la ride?” – si chiede Il fratello maggiore nell’omonimo racconto.

Certo, non può saperlo, e sarebbe piuttosto vano il volersi cimentare con una simile impresa. La vita è misteriosa perché è doppia, e noi non possiamo sottrarci al gioco di specchi cui ci sottopone, ai loro riflessi più remoti e persino a quelli solo uditivi. Kafka lo aveva ben compreso, e non a caso è citato in una delle epigrafi: “Ogni uomo ha una camera dentro di sé. Il nostro stesso udito ce ne dà conferma. Quando uno cammina in fretta e tende l’orecchio nella quiete della notte, si ode, per esempio, il tentennio della vibrazione di uno specchio non ben fissato alla parete”.

La vita è doppia – dicevamo – e in quella di ciascuno ce n’è nascosta almeno un’altra, come ben comprende Moraes ne Il decurione. In effetti, questa sembra costituire un’agnizione dominante in molti dei personaggi di Castillo: che la loro vita sia stata in qualche modo sottratta a quella di un’altro, che cioè sia stata derivata dalla proclamazione frettolosa di un destino improprio, e che nello stesso tempo abbia, in virtù di una non casuale vocazione,  assunto le sembianze della propria ombra. Questa se ne stava appostata in agguato dentro qualche altra vita, in quelle, per esempio, dei personaggi che la letteratura permette d’incontrare finalmente di nuovo non appena uno scrittore riesca a riportarli nel cono di luce della coscienza.

In questa vita doppia può anche capitare di compiere gesti che ci condannano a sottrarci a varie forme di felicità. Si può ad esempio ritirare una mano dopo che lei l’ha sfiorata e poi guardarla andarsene come in un sogno, e cogliere nel suo ultimo sguardo quello stesso sguardo di quando aveva quindici anni, e insieme una “stanchezza indulgente e dolorosa, quasi ironica”, o meglio ancora “una saggezza più antica, qualcosa che non ha niente a che vedere con le parole e che si può capire soltanto se si è stati guardati così, un’antica saggezza piena di angoscia, o di qualcosa di simile alla carità e all’angoscia, grazie alla quale l’uomo che sorrideva dal letto non avrà mai più un posto nel mondo”.

Il fatto che la vita sia doppia ha come conseguenza saliente che sia regolata da un contrappasso interno che scatta quasi in automatico. Nei racconti crudeli, ad esempio, s’intravede a tratti il paesaggio argentino, divenuto per l’occasione un terreno fertile per l’esercizio di nemesi e contrappassi infernali. In questi racconti – spesso contraddistinti da esiti che cadono sul finale della storia come colpi d’accetta metafisicamente inesorabili - Castillo evoca l’immagine letteraria di un Dostoevskij senza redenzione, come se Dostoevskij, in Delitto e castigo, si fosse bloccato subito dopo l’omicidio della vecchia usuraia, e poi avesse sempre ricercato situazioni analoghe, ruotando perennemente intorno al primo punto di svolta, al momento di fuga, di ubris, di nemesi o di terrore che scandisce ogni destino.

Castillo sembra perciò uno scrittore incantato in un duplice senso: della vita, in primo luogo, perché abbagliato da ogni lucore che possa farla implodere o esplodere in qualsiasi momento, e tuttavia al tempo stesso inceppato, ossessionato dalla moltitudine dei suoi possibili inciampi, dalla sorprendente varietà dei suoi arresti e dei suoi repentini reflussi temporali.

Potrebbe essere definito anche un cacciatore di abissi e forse è anche lui, come uno dei suoi personaggi, “un sostenitore della santa inutilità della bellezza”. Forse, come il protagonista-narratore di La creazione di un piccolo fiore è lavoro di Ere, ha un versante cinico, pratico e ironico che gli consente di sopravvivere: quando ha bisogno di un bel vestito, scrive un brutto racconto, e se un giorno gli servissero più soldi, potrebbe scrivere un libro su Peròn o sullo Strutturalismo.

Se alcuni suoi personaggi sembrano insofferenti alla felicità, forse è perché presagiscono che contenga un trabocchetto o un inganno, quasi fosse appoggiata su un terreno friabile e troppo insidioso per essere presa sul serio, ma anche perché dalla vita si può risultare momentaneamente assenti e degli improvvisi vuoti d'esistenza possono portare via con sé qualsiasi forma di felicità.

Nell'esistenza di una persona ci può infatti essere un periodo in cui il suo nome non è stato registrato, la sua presenza non certificata, come se in quel tempo avesse vissuto in una terra di nessuno.

È il caso di Milena, che “aveva un tempo suo, viveva in pochi giorni degli anni Sessanta come su un’isola personale, e solo lì uno poteva incontrarla”; oppure della vecchia di Calle Victoria, che era la stessa persona di una ragazza perfetta incontrata una sera su un balcone dello stesso appartamento, e che quindi era stata due volte presente nella stessa serata, sebbene in due momenti diversi della propria vita.

Infine - tanto per tenere conto dei limiti abituali di una recensione e chiudere rapidamente quanto meriterebbe ben altre digressioni - un breve accenno al profilo formale: lo stile è nel complesso diretto ed essenziale; le situazioni narrate sono lineari e cadono a piombo verso il loro esito. Come scrive Elisa Montanelli nella sua postfazione, Castillo “usa una lingua semplice, incisiva, ma allo stesso tempo elegantissima. Si destreggia con estrema abilità fra il registro colloquiale, il linguaggio infantile e il monologo allucinato, fra la prima e la terza persona, riesce a connotare e rendere vividi i personaggi più disparati – vecchi, barboni, bambini, adolescenti, criminali – con linguaggi sempre diversi, ma senza mai rinunciare alla coloritura portegna, al voseo e ai tempi verbali tipici dell’argentino”.

Queste compensazioni di attitudini e di pregi apparentemente opposti sono forse spiegabili con la seguente circostanza: come Moraes aveva scoperto, nemmeno Castillo andava molto d’accordo con la sua persona, e anche lui sa bene “che in certe vite c’è più d’una vita”. Dipende dal talento di uno scrittore il sapere questo fino in fondo, fino alle più dolorose conseguenze. Quando si è provvisti di questo talento e di questa consapevolezza, allora si può nutrire qualche speranza di rintracciare frammenti della propria vita in quelle degli altri, ovvero in quelle proprie e non vissute, e di riportarle integre alla luce.

 

Abelardo Castillo, I mondi reali, traduzione e cura di Elisa Montanelli, Del Vecchio editore, 2015.