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La terra di mezzo della filosofia e la visione dall'alto

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   Si discute spesso sui rapporti tra la scienza, la religione e la filosofia. All’inizio della sua Storia della filosofia occidentale, il libro che contribuì a fargli vincere il Nobel per la letteratura, Bertrand Russell inquadra il problema in un modo tanto sensato da risultare ancor oggi forse la miglior risposta al problema, almeno tra quelle succinte.  La filosofia sarebbe, secondo Russell, una sorta di terra di mezzo tra la religione e la scienza: come la prima affronta problemi concernenti il “senso” della vita e del mondo nel suo complesso; come la seconda non si accontenta però di nutrire una “fede” in questo senso, ma pretende di giustificare razionalmente ciò in cui crede, i propri valori e principi.

   A integrazione della tesi di Russell si potrebbe tuttavia aggiungere che il punto di separazione tra filosofo e uomo di scienza è che l'uomo di scienza non si interroga sul senso non perché neghi necessariamente la sua esistenza, ma perché in quanto scienziato gli è indifferente, il che poi non significa necessariamente che gli sia indifferente in assoluto. L'uomo di scienza si interroga sulle possibili simmetrie, per esempio, tra il sasso che cade e la Luna che ruota intorno alla Terra: la questione del senso parrebbe lasciata ai filosofi come una questione immaginaria, o a quegli scienziati che non hanno rinunciato, talora per mero diletto, a misurarsi con questioni filosofiche.

  • Bertrand Russell

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La sventura e la Grazia

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Leggi le prime pagine: 
LA SVENTURA E LA GRAZIA

 Autore: 

Gustavo Micheletti

 Come credere in un Dio assente. Saggio su Simone Weil

 Dio assente per un certo tempo.

 Nessun filosofo può sottrarsi al rischio di rimanere preda dei paradossi che arriva a vedere e pensare, al rischio di esplodere in volo un attimo dopo averli sfiorati con le proprie ali. Come Kierkegaard testimonia – e come Jean Luc Marion sottolinea – “un pensatore senza paradosso è come l’amante senza passione, pura mediocrità”.

    Il pensiero di Simone Weil non può che sottrarsi a qualsiasi sospetto in tal senso: la sua idea di Dio propone paradossi incalzanti cui la sua stessa vita rimase a lungo sospesa e il fatto stesso che per lei Dio possa manifestarsi solo tramite la sua assenza risulta fondamentale per poter comprendere il suo rapporto con la fede cristiana.

 L’esperienza della «sventura» ha proprio la prerogativa di rendere “Dio assente per un certo tempo”, un tempo in cui, tuttavia, “bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo, come accade a Giobbe”.

    La sventura è per la Weil un dispositivo semplice: raduna tutto il male e lo raccoglie in un unico punto per trasfigurare il dolore di cui un essere umano è capace in una dimensione «impersonale», quella stessa in cui in definitiva si manifesta la grazia. Solo attraverso la sventura Dio può rivelarsi come il riflesso infinito della propria assenza; e amare Dio attraverso l’esperienza della sua assenza costituisce l'unica garanzia che abbiamo per poter coltivare una fede non idolatrica, una fede che sia in grado di trasfigurarsi nella testimonianza diretta e piena della sua presenza.

 http://www.asterios.it/catalogo/la-sventura-e-la-grazia

  • Simone Weil

Perché non bisogna votare per il primo partito

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 (… e come fare per riconoscere i componenti del secondo).

 

   Il primo partito non è mai una realtà monolitica, ma è da sempre composto da diverse correnti. Queste possono dar vita a un partito unico perché, nonostante le loro divergenze superficiali o apparenti, condividono le seguenti caratteristiche: 1) Sono solite autopromuoversi attraverso slogan piuttosto che attraverso argomentazioni; 2) Non sono solite trarre le conseguenze che sarebbe ragionevole aspettarsi dalle loro analisi o proposte né assumere la responsabilità delle proprie affermazioni; 3) Sembrano condividere con Hobbes la convinzione che la democrazia sia essenzialmente un’aristocrazia di oratori e tendono a considerare i cittadini votanti come dei meri strumenti di potere. In altri termini, come degli sciocchi facilmente manipolabili.

    Alla luce di queste osservazioni, sarebbe dunque preferibile non votare per il primo partito e scegliere invece di votare per il secondo. Questo, purtroppo, è da sempre minoritario, in quanto composto dall’esiguo numero di persone che quando avanzano delle proposte per risolvere problemi o affrontare situazioni difficili non cercano di nascondere ai cittadini le relative difficoltà, ma anzi le illustrano a dovere mettendole bene in evidenza. Questo secondo partito è composto dunque da persone indipendenti, che amano tenersi alla larga dal primo partito e la cui influenza sul dibattito politico è pressoché irrilevante, in quanto le loro analisi sono scomode e loro proposte impopolari.

  • Primo Partito

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Un dragone per tutte le stagioni

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Qual è l’habitat politico migliore per il capitalismo?

 

La repubblica popolare cinese è oggi il paese che ha la migliore crescita economica del mondo, ma è anche il primo paese al mondo a far registrare un così rapido sviluppo economico senza che sia stato raggiunto un elevato reddito pro capite. La sua economia è cresciuta più grazie alle esportazioni che ad una crescita corrispettivamente proporzionata della domanda interna. Ha ormai un ruolo fondamentale nel commercio internazionale e possiede enormi riserve in valuta estera; si sta comprando l’Africa e può vantare il maggior numero di miliardari al mondo, e tuttavia viene ancora per lo più considerata, e si considera, uno Stato comunista. In effetti non ha mai rinnegato, almeno formalmente, il suo passato, i cui simboli sono ancora presenti nelle sue strade o piazze, così come sulla sua bandiera.

Oggi la Cina è anche il paese che – come fa notare Jared Dianond nel suo libro apocalittico Collapse (2005) e come evidenzia Peter Hugh Nolan, direttore del Centro studi sullo sviluppo presso l’Università di Cambridge e membro del Jusus College, oltre che direttore del Chinese Executive Leadership Program (Celp) –  “contribuisce maggiormente all’emissione nell’atmosfera di clorofluorocarburi, di altre sostanze nocive per l’ozono e (tra poco tempo) di anidride carbonica; le sue polveri e gli agenti inquinanti dell’aria vengono trasportati nell’atmosfera verso est nei paesi vicini e anche nel Nord America; inoltre è uno dei due principali importatori di legname della foresta pluviale tropicale, cosa che la rende un fattore di primo piano nella deforestazione dei tropici”.

  • Capitalismo
  • Cina
  • Žižek

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La dimensione filosofica dei personaggi letterari

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    Gli intrecci e la struttura polifonica dei romanzi del diciannovesimo secolo o dell'inizio del ventesimo sono sempre più rari e chi adotta ancora oggi tali approcci narrativi riesce a farlo solo al prezzo di riferirsi a contesti familiari o sociali decisamente più angusti rispetto a quelli di allora. Soprattutto, difficilmente si azzarda a sfiorare le problematiche di largo respiro che permeavano invece le vite di quei personaggi ancora un secolo fa. Ma a cosa è dovuta questa scarsa attitudine dei personaggi letterari che abitano le opere narrative degli ultimi decenni a cimentarsi quelle problematiche filosofiche su cui invece amavano riflettere molti grandi personaggi dell’Ottocento e del primo Novecento?

   In effetti, oltre alla difficoltà da parte dell'"Io" novecentesco - già preannunciata da Nietzsche - di lasciarsi alle spalle la propria dimensione frammentaria e di misurarsi con ricostruzioni chiare e oggettive, la letteratura contemporanea pare infatti anche restia a cimentarsi con temi e problemi di carattere spirituale o filosofico. Dopo gli Ivan Karamazov, i Kirillov, i Bazarov o, avvicinandoci a noi, il Settembrini della Montagna incantata oppure l'Ulrich di Musil, i protagonisti di pur buoni romanzi del nostro secolo sembrano muoversi in orizzonti più limitati, concedono poco spazio alla riflessione, sembra che ne abbiano perso il gusto, e si trovano per lo più alle prese con problemi quotidiani, siano essi di origine psicologica o sociale.

   Allo stesso modo il narratore, anche quando non si lasci prendere nel vortice delle azioni e dei pensieri dei suoi personaggi e cerchi di raccontare come un discreto testimone immaginario le loro vicende, a volte sembra che non osi affrontare certi temi, quasi li avesse preliminarmente espunti dai risvolti della loro vita interiore. Forse ha paura di dare corpo a quei "busti del pantheon" di cui parlava Claudio Magris in suo articolo apparso sul Corriere della Sera di qualche anno fa, e tale paura non risulta infondata, in quanto oggi rischia di suonare falso il tono di qualsiasi narratore che supponga di sapere cosa passi davvero per la testa dei suoi personaggi e si arroghi il diritto di commentare, o addirittura valutare, le loro scelte morali e culturali.

   Ma se certe soluzioni - come quella di un narratore assoluto omnisciente - si rivelano sempre più incerte e insidiose, bisogna forse dedurne che quelle problematiche morali - che costituivano parte integrante della vita di molti grandi personaggi del secolo scorso - siano ormai intrattabili e ingestibili?

   Ne Il riccio e la volpe, Isaiah Berlin ricorda come a tutti gli scrittori Tolstoj chiedesse sostanzialmente tre cose: una dose sufficiente di talento; che il tema fosse moralmente importante;  e infine che amassero ciò che era degno di amore e odiassero ciò che era degno di odio mentre erano intenti al loro lavoro, ovvero che "s'impegnassero" a conservare la nitida visione diretta dell'infanzia e non distorcessero la loro natura proponendosi di praticare un'imparzialità che era necessariamente illusoria.

  • Dostoevskij
  • Mann
  • Musil
  • Tolstoy

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La luce tra l'erba

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I personaggi de La luce tra l'erba, che sono anche i suoi narratori,

sembrano animati dal desiderio di perdersi per poi ritrovarsi.

Le loro vite s’incrociano a Firenze, a Milano, a Roma, e

ancora a Praga e in Bretannia, a Parigi e New York, ma vi sono

echi della permanenza di qualcuno di loro anche a Madrid e in

Patagonia, a S.Pietroburgo e nelle isole Solovki, dove ancora

s’avverte l’alone della presenza di Pavel Florenskij.

Il narratore centrale, l’unico senza nome e in certo qual modo

“senza qualità”, può così tessere la sua tela tra luoghi evocativi

e simbolici, illuminando con lo sguardo della sua memoria

i resoconti di personaggi che, come altrettanti alberi lungo il

declivio di un rilievo erboso, sembrano allungare, verso la fine

della vicenda che li lega, le loro ombre una di fianco all’altra, sul

far della sera.

 

"Un racconto di sradicamento, malinconico e avviluppante",

Raffaele La Capria

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  • Erba
  • Luce

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