La Cina, dal comunismo al fascismo

 

La repubblica popolare cinese è oggi il paese che ha la migliore crescita economica del mondo. Viene ancora per lo più considerato un paese comunista o ex-comunista e non ha in effetti mai rinnegato, almeno formalmente, il suo recente passato, i cui simboli sono ancora presenti nelle sue strade o piazze, così come sulla sua bandiera. Alcune considerazioni circa la reale situazione politica della Cina si rendono però necessarie per spiegare il suo nuovo ruolo di assoluta protagonista sulla scena economica mondiale.

I requisiti fondamentali e “strutturali” affinché un paese possa definirsi “comunista” sono l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e delle libertà politiche scaturite a suo tempo dalle tre grandi rivoluzioni borghesi in Europa e negli Stati Uniti. In ogni paese comunista, in qualsiasi epoca lo sia diventato, queste caratteristiche hanno implicato il venir meno sia della libertà politica che della libertà economica. Questa doppia limitazione lo differenzia strutturalmente dalle dittature fascista e nazista, dove la libertà d’impresa economica era stata garantita nonostante la soppressione della libertà politica. In esse le aziende private continuarono a prosperare e in molti casi incrementarono i loro profitti, anche grazie a commesse di Stato e a una politica protezionista o addirittura autarchica. La libertà economica d’impresa non fu però mai messa in discussione nel suo complesso, ma solo limitata in alcuni campi.

Durante il periodo in cui Hitler fu al potere – almeno fino all’inizio del secondo conflitto mondiale - la Germania vide migliorare sensibilmente la sua situazione economica rispetto al decennio precedente, e anche in Italia la situazione economica fu complessivamente migliore rispetto al cosiddetto “biennio rosso”, a cavallo dell’inizio degli anni venti. Tali risultati non furono casuali: essi furono possibili anche grazie alla struttura dello Stato e dell’economia, che consentendo la libertà d’impresa e assecondando la logica capitalistica del profitto esercitavano nel contempo un controllo totalitario sui lavoratori gestendo con parsimonia dall’alto il loro accesso alla tutela dei loro diritti e delle loro rivendicazioni.

Ora, nonostante tutte le differenze che sussistono sotto il profilo culturale e storico-sociale tra il regime fascista, quello nazista e quello che vige oggi nella Repubblica popolare cinese, la struttura politico-economica di quest’ultima è di gran lunga più simile a quella di quei regini che non a quella che ha sempre caratterizzato i paesi comunisti, compresa la Cina durante l’età maoista e comunque fino a poco più di una ventina di anni fa. Certo, quelle dittature erano caratterizzate anche dal “potere carismatico” dei suoi “leader” politici, da quello stesso “potere carismatico” che dopo la morte di Mao non sembra più rivestire in Cina un ruolo altrettanto decisivo, tendendo questo paese piuttosto ad assumere una forma di governo più simile a quella di una oligarchia che pare ispirata al potere burocratico dei mandarini durante la lunga età imperiale. Ma l’analogia “strutturale”, ovvero quella concernente il rapporto tra politica ed economia, con il regime fascista e quello nazista risulta comunque abbastanza evidente, almeno rispetto alle differenze che intercorrono oggi con il vecchio regime comunista.

Il fatto che quella che si avvia a diventare la prima potenza economica mondiale abbia una struttura economico-politica analoga a quella dei regimi fascista e nazista non sembra però creare un eccessivo imbarazzo in tutti quei paesi occidentali risorti sulla scia della lotta contro quei regimi, né in quelle nazioni che li hanno combattuti fin dall’inizio del secondo conflitto mondiale. Di fronte alla possibilità di migliorare l’interscambio commerciale e industriale con un mercato di oltre un miliardo e mezzo di persone, tutti gli altri aspetti di ordine politico e sociale sembrano destinati a passare in secondo piano, e comunque non sembrano in grado d’incidere sui rapporti che s’intendono instaurare con la Repubblica popolare cinese. La volontà di non ostacolare i vantaggi economici che si ritiene potrebbero scaturire da un incremento degli scambi con quel paese impedisce infatti di dare spazio a qualsiasi altro tipo di considerazione.

In Italia, in particolare, illustri esponenti di partiti che hanno fatto per decenni dell’antifascismo una delle loro bandiere e che ancora oggi richiamano spesso l’attenzione sull’antifascismo quale momento fondante della nostra costituzione repubblicana durante cerimonie pubbliche e attraverso dichiarazioni ufficiali non esitano a mostrarsi tolleranti o benevoli nei riguardi di un paese illiberale e “strutturalmente di tipo “fascista”, nel quale cioè le libertà politiche e civili non sono certamente più tutelate di quanto non lo fossero in Italia durante il ventennio e in cui tuttavia via è libertà d’impresa. Rispetto a quella che viene dai più considerata una eccezionale opportunità per le nostre aziende, ogni altro tipo di considerazione non viene seriamente presa in esame, né tanto meno ci si interroga sulla reale natura del regime politico con il quale si desidera, in primo luogo, fare buoni affari. Esso viene per lo più considerato un paese ex-comunista che si sta – almeno nelle interpretazioni più ottimistiche - lentamente avviando a diventare un paese democratico piuttosto che un paese che ripropone, in forma nuova e “asiatica”, il modello socio-politico che fu proprio del fascismo, e questa interpretazione sembra idonea a lenire le eventuali controindicazioni politiche e culturali che il nostro crescente interesse verso la Cina potrebbe avere presso l’opinione pubblica.

Anche il fatto che l’organizzazione politico-economica della Cina le consenta di praticare, nell’interscambio commerciale, una concorrenza decisamente sleale passa in secondo piano rispetto alla mole di vantaggi economici che da tale interscambio i grandi gruppi finanziari e industriali dell’Occidente possono ricavare, e suggerisce quindi l’opportunità di rinunciare a definire tale regime con il nome più appropriato. Naturalmente, tali motivazioni sono del tutto rispettabili, e forse anche, sotto un certo profilo, persino giustificate, ma lascia piuttosto perplessi che nemmeno da parte di molti giornalisti e storici, i cui interventi non potrebbero certo danneggiare in misura rilevante i rapporti commerciali con la Cina, vengano avanzate riserve degne di nota. 

Questa circostanza induce anche, tra l’altro, a interrogarsi sul reale significato dell’antifascismo che molti nostri politici o intellettuali più “affiliati” agitano ancora  come un vessillo: finché si tratta di combattere un fascismo che non c’è più, tutti si mostrano molto disponibili e solerti; quando invece si tratta di rapportarsi ad uno che è vivo e vegeto, pare più opportuno chiudere un occhio e tirare a far cassa, o assecondare una classe politica che mira in primo luogo a quest’obiettivo.

Questa strategia politica del “chiudere un occhio e tirare a far cassa” è stata negli ultimi decenni quella di tutto l’Occidente ed è stata solo da poco rivista e messa in discussione da Trump, che però sembra aver messo anche l’Europa sullo stesso piano del “concorrente sleale” cinese, vanificando in questo modo quegli aspetti della sua svolta che avrebbero potuto avere delle ripercussioni positive sullo scenario geopolitico mondiale. In ogni caso, l’atteggiamento prono della stessa Europa verso gli interessi paralleli dei suoi maggiori gruppi industriali e finanziari così come verso gli interessi “capitalismo di Stato” cinese non è privo di conseguenze, com’è normale che sia quando si coltiva il libero scambio con un paese illiberale, che pratica una concorrenza particolarmente efficace proprio in quanto fondata sulla mancanza degli elementari diritti democratici e sindacali dei suoi cittadini.