Lo Zarathustra crocefisso

I seminari di C. G. Jung su “Lo Zarathustra” di Nietzsche

 

Nel biennio 1934-35 C. G. Jung tenne, nei pressi di Zurigo e dopo qualche sollecitazione da parte di alcuni suoi allievi ed estimatori, un seminario su “Lo Zarathustra di Nietzsche”. Tra tutte le opere di Jung – sia scritte che trascritte in seguito, sia pubblicate in vita che postume – questa ci pare senza dubbio una delle più dense e significative, e non solo perché vi si legge “Lo Zarathustra” da una prospettiva nuova, che offre un contributo critico assolutamente originale e comunque molto diverso da quelli usciti in epoche diverse dall’ambito accademico-universitario, ma soprattutto perché le numerose digressioni su tematiche religiose, filosofiche e psicologiche fanno di questo testo (recentemente tradotto in italiano per Bollati Boringhieri da Alessandro Croce, in un volume curato da James L. Jarrett) uno dei più preziosi per la stessa comprensione del pensiero di Jung.


 

Oltre alle diverse letture psicologiche e allegoriche delle stesse allegorie nietzschiane, si possono trovare infatti, nel testo tratto da questi seminari, riflessioni a ruota libera che spaziano dal tema della solitudine di Dio fino al tema, presente anche in molti altri scritti junghiani, del rapporto tra Dio e il Demonio, o tra Dio e il male; tra il Sé, tra le sue proiezioni e i suoi simboli, e l’ombra; tra lo Spirito, la mente e il corpo; tra la Fede e la Grazia. I concetti di Enantiodromia, di Anima e di Animus, di coscienza e inconscio vengono approfonditi, e sebbene non risultino sempre più chiari di quanto non lo fossero prima della lettura risultano alla fine meno esposti a schematizzazioni semplicistiche.

Volendo qui fornire solo un breve riassunto e qualche esempio della fecondità e originalità delle divagazioni junghiane su questi ed altri argomenti, ci limiteremo a esaminare alcuni temi che ci sono parsi particolarmente indicativi e illuminanti per comprendere lo spessore psicologico e filosofico di questi seminari: quello del rapporto tra Zarathustra e Cristo, quello dell’ “Enantiodromia” e poi il “Sé”, con le sue relative proiezioni.

Il pensiero dell’autore de “Lo Zarathustra” quale emerge da questo volume di 484 pagine risulta molto più vicino a certe possibili interpretazioni del cristianesimo, e in particolare a quella fornita dallo stesso Jung, rispetto a quanto un conoscitore generico dell’opera di Nietzsche si potrebbe aspettare. Se infatti l’Übermensch nietzschiano vuole andare oltre se stesso, e assecondando quest’intento giunge quasi a identificarsi, alternativamente, con le figure del vecchio saggio e del giullare, o del funambolo, il suo processo d’individuazione, l’esperimento che conduce con il proprio Sé, non trascura di cimentarsi con l’interpretazione di un versetto in cui Cristo sollecita chiunque abbia fede in lui a prendere la sua croce e a seguirlo. Esso è reperibile in Marco 8, 34-36 (“Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”) e in Luca 14, 25-33 (“chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo). Nonostante che il Vangelo e le sue interpretazioni più in sintonia con le dottrine ufficiali delle diverse chiese cristiane tendano a interpretare questo messaggio specialmente alla luce della premessa posta da Marco – “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso” – sottolineando come questa rinuncia a sé sia necessaria per seguire Cristo, il fatto che sia la propria croce quella che deve essere portata, e non quella di un altro, lascia trapelare l’idea che ciascuno ha un suo specifico e unico peso e sacrificio da portare avanti nella vita. Questo peso non è qualcosa di generico o impersonale, che possa essere scambiato con quello di un altro, ma è individuale e peculiare e può essere sopportato senza recriminazioni solo in una condizione di ritrovata solitudine, di piena accettazione e di piena assunzione di responsabilità rispetto al proprio destino.

Questa interpretazione di un aspetto importante del messaggio cristiano, in virtù della quale “ognuno deve seguire se stesso”, perché solo “così gli altri seguiranno lui”, secondo Jung “chiarisce di colpo l’intero significato dello Zarathustra” (C. G. Jung, I seminari di C. G. Jung su “Lo Zarathustra” di Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 213). Ciò che in effetti Cristo voleva dire era in perfetta sintonia, almeno su questo aspetto, con quanto dice Nietzsche-Zarathustra: “<<non voglio compagni umani che imitino quel che faccio io. Io seguo solo me stesso e spero che i miei amici e compagni facciano la stessa cosa. Così si comporteranno proprio come desidero che facciano>>. La direste un’idea totalmente nuova – scrive Jung -, ma non è così: l’insegnamento di Cristo, in realtà, era proprio questo, ma non venne compreso. Alcune persone lo intesero, ma erano considerate eretici senza speranza, e se a quei tempi avessero potuto bruciarle sul rogo, lo avrebbero fatto di sicuro” (ivi, pp. 213-214).

L’imitatio Christi, così come buona parte della teologia ufficiale, anteriore o successiva, che a tale idea s’ispira,  propongono dunque una lettura del Vangelo che omette di evidenziare adeguatamente un aspetto della Lieta Novella che Jung tende invece a sottolineare. Tutto il Vangelo è del resto, a suo avviso, pieno di espressioni fraintese dalle varie chiese cristiane: “così, quando Cristo parlava di quello che dovresti fare al tuo fratello, nel Discorso della Montagna, intendeva in realtà dire che dovresti fare questo a te stesso. E quando disse che il regno dei cieli è dentro di voi, intendeva veramente dire questo” (ivi, p. 214). 

Il fatto che il regno dei cieli sia dentro l’uomo, piuttosto che in un luogo immaginario e remoto, è coerente con l’esortazione a portare la propria croce, ciascuno la sua, con “la propria difficoltà e sofferenza individuale” (ivi, p. 215). Questo è ciò che Cristo intendeva realmente dire: “vivere la propria vita fino in fondo. È questa l’iniziazione. È questa la via, non verso la perfezione – non possiamo essere così ambiziosi – ma verso la completezza, perlomeno. E Zarathustra intende dire proprio questo: è il cuore della sua dottrina” (ibidem).

Also spracht Zarathustra è per Jung un “libro scritto col sangue” (ivi, p. 472) in cui Nietzsche, cercando di costruire il superuomo, “prosegue semplicemente sulla via tracciata dal cristianesimo” (ivi, p. 477), via che implica il saper affrontare i tormenti più grandi sobbarcandosene deliberatamente il peso, perché solo in questo modo si può giungere a fare davvero esperienza di se stessi. Ciò che Nietzsche cerca di far nascere con il suo superuomo è in realtà il Sé: solo dopo che si è passati “attraverso questa straordinaria esperienza del Sé, le illusioni scompaiono. Sai esattamente chi sei. È questo ciò che Nietzsche vuol dire” (ivi, p. 478).

L’autore dell’Anticristo esorta quindi a farsi carico del proprio fardello per alleviare la sofferenza di Dio e quindi a sanguinare in prima persona, perché “chiunque sia vicino a Cristo è vicino alla passio di Cristo” ed è incline ad avere “il suo medesimo fato” (ivi, p. 363). Anche Cristo infatti è una rappresentazione del Sé (ivi, p. 286) e, specialmente in occidente, il processo d’individuazione risulterebbe gravemente incompleto se non fosse caratterizzato anche dal tentativo incessante d’imparare a riconoscere tale rappresentazione come un aspetto fondamentale della sua storia e della sua azione.

Nonostante che Cristo ne costituisca una proiezione, il Sé non è tuttavia un’entità completamente positiva: “è certamente il più grande concetto limite che possa mai riuscirci di escogitare. È un simbolo grandioso, e comprende anche l’oscurità”. Esso racchiude anche “la propria negazione, proietta un’ombra, poiché è anche materiale, e non soltanto ciò che noi definiamo spirituale” (ivi, p. 461). Il rapporto che intrattiene con l’ombra che proietta al di fuori è comunque caratterizzato da una consapevolezza peculiare: che non c’è individuazione senza l’esperienza dell’enantiodromia, dell’emergere dell’opposto (cfr. ivi, p. 480), della trasfigurazione sempre possibile di ciò che è buono in ciò che è cattivo e viceversa (cfr. ivi, p. 281). Lo stesso Zarathustra è, secondo Jung, nel suo complesso “una specie di movimento enantiodromico, è il fiume dell’inconscio, e i suoi capitoli sono come immagini dei flutti di quella corrente sotterranea” (ivi, p. 297).

Come osserva Giorgio Concato, “il Sé appare caratterizzato nei Nietzsche’s Zarathustra da una radicale paradossalità. Il Sé è al tempo stesso un ‘concetto’, una meta virtuale, un esistente non-esistente’, un cerchio esterno che comprende la totalità dell’individuo ma ne è anche il centro” (G. Concato, Lo spirito della maschera. I Nietzsche’s Zarathustra  e la metafora dell’ “energetica psichica”, in Lo spirito e l’ombra. I seminari di Jung su Nietzsche, Bergamo, 1996, pp. 69-96, p. 94) […], esso è “il principio creativo da cui, come nel sogno del dio, hanno origine simultaneamente il mondo e la psiche” (ibidem).  

Ma all’interno di un tale processo creativo gli opposti, l’animus e l’anima, il mondo e la psiche, mentre cercano di ricomporsi in una sintesi, sono destinati spesso a rimanere contrapposti per lunghi tratti, perché da quando l’uomo ha imparato a dare dei nomi alle cose queste "hanno iniziato a competere le une con le altre"  (C. G. Jung, I seminari di C. G. Jung su “Lo Zarathustra” di Nietzsche, op. cit., cfr. p. 477) e se diveniamo vittime del loro conflitto - o, per esprimerci assecondando per qualche istante una terminologia lacaniana, se diveniamo una mera espressione del discorso che ha luogo nell’Altro, della sua articolazione significante, senza essere in grado di interloquire con esso, così come la psicoanalisi cerca di mettere in condizione di fare - allora si rischia d’inoltrarci “nella condizione del mistero cristiano dell’autodistruzione, del sacrificio di Sé” (ibidem), si rischia, cioè, d’incorrere nella propria auto-crocefissione, di essere crocefissi dalla propria virtù, dalla stessa capacità – tipica del vecchio saggio, con cui secondo Jung “Lo Zarathustra” di Nietzsche sembra identificarsi – di dare dei nomi alle cose.

Quando si intraprende con decisione questa strada del dare dei nomi alle cose le virtù si separano dai vizi, e dopo questa separazione l’uomo tende a identificarsi con le proprie virtù, a viverle “fino alle loro estreme conseguenze, tanto da risultarne ucciso. Vive le proprie virtù fino a essere virtuoso dalla testa ai piedi, e finisce per ritrovarsi in guai tremendi, perché è virtuoso in ogni suo aspetto. Gli stessi suoi vizi sono stati tramutati in virtù, oppure sono stati sottovalutati o trascurati; a partire dalle sue molte virtù l’uomo ha costruito un dio, e dal suo veleno ha tratto una medicina o qualcosa di dolce. In questo modo l’ombra viene trasformata in luce, e l’uomo muore davvero per pura e semplice bontà” (ivi, p. 481), così come si può morire cercando di rispettare l’esortazione di Cristo “<<non opponetevi al male>>, perché essere unicamente buoni è troppo unilaterale”, dato che in questo caso si trascurano i diritti dell’Ombra, che cercherà così di rivendicarli nei modi meno opportuni e più spietati (cfr. ibidem). 

Sia Nietzsche sia Jung  sembrano dunque prendere le distanze dal Cristianesimo proprio mentre ne traggono le più radicali conseguenze, come testimonia la visione del Cristo crocefisso di un paziente dello stesso Jung, una visione abitata da voci che spiegavano come Gesù non fosse in grado di salvarci se non avessimo imparato a salvarci da soli. Solo in questo modo potremmo conseguire l’obiettivo cristiano di far sanguinare Cristo di meno. Nonostante si tratti di una visione, ad un tempo, abbastanza cristiana e nietzschiana, rimane tuttavia - come osserva Fulvio Salza – una pietas che secondo Jung la differenzia dallo spirito di Zarathustra e dello stesso Nietzsche: perché questi “<< è definitamente anti-cristiano – scrisse un libro intitolato L’Anticristo – ed è intenzionalmente distruttivo, mentre questa visione è davvero molto più umana perché mostra pietà>>” (Cfr. F. Salza, Un percorso sdoppiato. Jung, Nietzsche e lo spirito del cristianesimo, in Lo spirito e l’ombra. I seminari di Jung su Nietzsche, Bergamo, 1996, pp. 33-55, p. 47). E forse è proprio la dimensione della pietas quella che differenzia, più di ogni altra, la concezione junghiana del Cristianesimo da quella di Nietzsche: per il primo essa rappresenta comunque un valore e costituisce un aspetto fondamentale del Sé, perché favorisce e rende più aperto e fluido il rapporto tra la coscienza e l’inconscio, l’Animus e l’Anima, l’Io e l’Ombra.  La pietas latina e cristiana – e prima ancora l’agape greca – si rivela infatti un fattore dinamico essenziale per favorire la comunicazione e l’integrazione tra gli opposti. Viceversa, l’assenza di pietas verso di sé è proprio uno degli elementi che ha spinto Nietzsche alla ricerca del superuomo, che lo ha proteso verso la sua incessante, circolare e insonne scoperta, in cui ogni momento di lucidità ha poi finito col trasfigurarsi nell’esperienza di una solitudine sempre più esausta e pura.

Più in particolare, né Jung né Nietzsche condividono tutte le implicazioni dell’Agape cristiana, sebbene entrambi, in modi diversi e in maniera più o meno implicita, riconoscano l'importanza di non offendere, di non sminuire o aggirare la solitudine in cui il prossimo – e in primo luogo se stessi come prossimo - necessariamente deve trovarsi per percepirne l'azione. A differenza di Jung, che comunque riconosce a tale principio una funzione positiva, se non decisiva, Nietzsche è ben lontano dall'abbracciare quest'idea e rifiuta di ricondurre all’Agape, che in una prospettiva cristiana tutto muove e che – come scrive Massimo Cacciari – ha la prerogativa di “accrescersi donando” (Enzo Bianchi – Massimo Cacciari, Ama il prossimo tuo, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 129) l’origine della stessa capacità del superuomo di amare senza cercare di farsi simile alla persona amata, né volersi a lei imporre in alcun modo. Quella “comunità di solitudini” (cfr. ivi, p. 125) che mira così indirettamente a realizzare, non intende vincolarsi a simili ipotesi etico-metafisiche e non fa affidamento sulla sovrabbondanza divina, sul fatto che Dio è Agathós e proximus, “vinto d’amore”, e perciò in grado di “salvare in interiore la stessa ferita del prossimo, nella sua irriducibile singolarità” (ivi p. 134).

Senza questa dimensione terza, non viene però nemmeno pienamente realizzata quella della Philia, che Nietzsche invece coltiva. La reciprocità e l’eguaglianza da cui questa non può prescindere (cfr. ivi. p. 98) non la affrancano infatti dal rischio di rivelarsi una relazione duale e speculare quando non è ricondotta all’unità di Agape, in virtù della quale è possibile amare l'altro anche quando si annuncia come un "nemico", come uno straniero ospite interno. Sebbene si tratti proprio di ciò che Nietzsche ha sempre fatto, o cercato di fare, in questo caso Philia rinvia ad un altro e a sé come prossimo senza riconoscere l’immanenza del principio che è in grado d’innescarla, e cioè quella sovrabbondanza d’amore che culmina nel paradosso evangelico del discorso della montagna e che costituisce una premessa indispensabile per poter nutrire e risanare - sotto ogni profilo, e quindi anche sotto quello spirituale o psicologico - ogni singolo individuo, perché è ad un tempo specifica, dedicata, universalmente riconoscibile e pervasiva.

Senza la capacità - che sia Nietzsche sia Jung ci esortano a sviluppare - di amare il nemico che si annida in noi, non può esserci nemmeno amore per il prossimo, né possibilità di riconciliarsi con la propria ombra. L’unico modo per conseguire questa riconciliazione è accettare le implicazioni di ciò che Jung definisce “enantiodromia”, la corsa verso l’opposto, ciò che spontaneamente – come Eraclito aveva per primo ben compreso – tende a integrarsi e completarsi attraverso l’assimilazione di quell’elemento negativo e virtualmente “nemico” che può rovesciare qualsiasi prospettiva sospendendone l'efficacia sotto il profilo psicologico e morale. Senza bere fino in fondo l’amaro calice dell’enantiodromia non si può scoprire che tutto il dolore si fonda su un rovesciamento prospettico ed è perciò assimilabile all’effetto di un’ignoranza particolare. Senza imparare a relazionarsi a sé come al prossimo si rinuncia infatti a comprendere un aspetto decisivo del lascito socratico, prima ancora che cristiano: che è possibile giungere a sé, incontrare se stessi, solo mediante il prossimo, e viceversa, per la stessa ragione per cui non si può imparare a pensare se non dialogando con il prossimo che è in noi, con il proprio demone, con l’ospite interno che sa spesso configurarsi come un vero e proprio “inimicus”. Senza questo passaggio dall’altro non può esserci compassione, né verso sé né verso gli altri, non può esserci esercizio di comprensione né riconoscimento da parte dell’Altro. Ci si può riconciliare con l’Altro solo proiettando il proprio Sé nel luogo da cui incessantemente ci parla, che in una prospettiva cristiana è lo stesso luogo da cui s’irradia l’agape, quella sovrabbondanza d’amore che tutto sa comprendere proprio mentre ci sottrae al timore di Dio e della legge. Quando il Sé si proietta nel luogo dell’Altro questo timore infatti si dissolve, perché viene meno la forma stessa dell’ignoranza, dato che la prospettiva adottata dall'Altro diviene in questo caso quella idonea a riconoscerci; e insieme a tale timore si dissolve il senso del peccato, là dove per peccato s'intenda qualcosa di originario e irriducibile. Nel così rinnovato ascolto dell’Altro, nel suo riflesso infinito, tutto il dolore si rivela allora un effetto di Maya, la propaggine di un incantamento, il riverbero dell’incontro mancato con il proprio Sé.