Lentamente di scatto

Breve storia di uno psicoanalista che voleva essere papa

 

L’incontro tra Antonio di Ciaccia e Jacques Lacan fu davvero di tipo iniziatico. Una frase intelligente di un giovane studente dell’Università di Lovanio durante una conferenza… e poi il sentirsi chiamare per nome una sera, durante un ricevimento dell’Ecole freudienne, dallo psicoanalista di cui si parlava allora di più in Francia, in Belgio e in mezza Europa. Questi, "lentamente di scatto”, si voltò verso quel giovane per chiedergli: “mi dica, mio caro, da dove viene, che cosa fa?”.

 

Nel libro conversazione che ha come titolo una famosa sentenza di Lacan, “Io, la verità, parlo”, quest’incontro lo si racconta con una certa accattivante propensione letteraria, evidenziando gli aspetti e le circostanze più sorprendenti del libero gioco che il caso ama sovente ordire con la necessità. Nello stesso libro si riporta però anche la trascrizione di un’altra conversazione, avvenuta in treno da Parigi a Bruxelles, forse ancor più capace di testimoniare il percorso umano e teorico-clinico di Antonio di Ciaccia: “L’uomo che voleva essere papa”. 

Che uno psicoanalista possa aver nutrito da bambino questo desiderio, o che qualcuno possa averglielo attribuito, non deve sorprendere: ci sono molte cose che alcuni santi o teologi sanno sulla vita dell’anima cui nessun psicoanalista potrebbe mai accedere se non ne condividesse almeno in parte la vocazione. Forse è per questa segreta affinità che in molti gli pronosticarono un futuro da papa e che lui stesso poté forse vagheggiare per qualche istante questa possibilità.

Membro dell’Ecole freudienne de Paris e fondatore di Antenne 110 a Bruxelles, l’istituto dove si prendeva cura di bambini autistici e psicotici, Antonio di Ciaccia riesce una volta di più, durante queste conversazioni con Doriano Fasoli, a fornire un quadro chiaro ed esauriente di alcuni concetti chiave della teoria e della clinica lacaniane. “Una volta di più” perché una sua utilissima monografia sullo psicoanalista francese, scritta a quattro mani con Massimo Recalcati, era già uscita in Italia nel 2000, e anche in quel testo alcuni passaggi cruciali del pensiero lacaniano erano stati fatti emergere con esemplare chiarezza.

In questo libro c’è tuttavia qualcosa di più raro e prezioso: c’è il sapore di una vicenda umana prima ancora che professionale, c’è il piacere di condividere la genesi di tale vicenda con un lettore e di renderlo partecipe di motivazioni ed esitazioni che ne hanno segnato il percorso. In esso si traccia non solo un riepilogo significativo di un momento storicamente rilevante della storia della psicoanalisi, ma se ne ridefiniscono in maniera semplice e persuasiva le relazioni con altri ambiti dell’esperienza spirituale, ovvero quella che chiama ad un incontro l’inconscio e la vita cosciente, là dove un vuoto fondamentale, o “una certa mancanza ad essere” (come scriveva Ortega y Gasset) segna e scandisce ogni esistenza.

L’arte, la religione e la scienza hanno tutte a che fare con lo stesso buco, con lo stesso vuoto che l’ordine simbolico non riesce a coprire: “la religione lo evita o gli da un posto – dice Di Ciaccia – sia pure nei tempi dell’escatologia. La scienza non crede che ci sia un vuoto o un buco che non sia suscettibile di essere compiutamente capito e risolto. L’arte invece è una modalità di celebrare questo buco, pur girandovi attorno. In questo l’arte si apparenta alla psicoanalisi” (pp. 73-74).

Come la psicoanalisi in certi casi, l’arte, e la letteratura in particolare (vedi Joyce, ma anche Beckett, Kafka e molti altri), può rivelarsi allora la coltivazione e lo sviluppo di un sinthomo (sinthome). Si usava questo termine in Francia prima di Rabelais al posto dell’oggi corretto termine sintomo (symptôme). La differenza tra i due, quale la si evince dal Seminario XXIII, concerne il fatto che mentre il secondo è una sorta di metafora del soggetto, “un’etichetta che lo psicoanalista non prenderà come tale ma cercherà di mobilizzare nella cura” affinché al dolore che gli è associato facciano seguito associazioni e interpretazioni capaci di trasformarlo, il primo “indica invece quel qualcosa che funziona in un soggetto in modo tale da sostenerlo, da farlo vivere, da dargli quella soddisfazione necessaria per potersi sentire sufficientemente realizzato e, direi, unificato” (pp. 75-76). Il sintomo, in quanto metafora del soggetto, è interpretabile; mentre il sinthomo “è ininterpretabile poiché è al di là della metafora: è quel godimento che è al cuore del soggetto e che la metafora riveste” (ivi, p. 76).

In un’opera come Finnegans Wake, ad esempio, Joyce “si serve di una scrittura che in realtà rivela qualcosa dell’ordine di un disturbo del linguaggio e, senza lasciarvisi sommergere, arriva a costruire una stranissima opera d’arte che gli serve per farsi un nome”, per costruire attraverso il sinthomo qualcosa che leghi insieme l’immaginario, il simbolico e il reale (cfr. ibidem).

La parte forse più interessante del libro di Fasoli - Di Ciaccia ci pare tuttavia quella in cui quest’ultimo si sofferma quasi di sfuggita, durante un viaggio in treno, sull’intreccio tra vocazione teologica e vocazione psicoanalitica con alcune osservazioni degne di meditato approfondimento. Per esempio, quando osserva che i santi sono atei, perché non possono che assumere su di sé in prima persona la responsabilità di ogni loro atto e della forma peculiare della loro stessa fede, e che tra il Dio collerico del Vecchio Testamento e il Dio d’amore del Nuovo c’è la morte del figlio dell’uomo: è la morte del Messia che trasfigura il padre elevando il suo desiderio a puro significante, come prima San Paolo e poi Hegel hanno ben visto (ivi, cfr. p. 90).

Se l’etica della psicoanalisi può presupporre una posizione analoga al cospetto dell’Altro, è perché in entrambi i casi, e cioè di fronte a Dio o a un soggetto supposto sapere, non può avere senso mentire. Tuttavia, se non ha senso mentire, ciò risulta d’altra parte comunque inevitabile, tanto di fronte all’uno che all’altro, perché ogni dire è in realtà un semidire e anche la verità enuncia sempre la metà di quel che dice. Il paradosso che finisce con l’attraversare entrambe le posizioni è dunque lo stesso, così come il debito simbolico che un tale paradosso scatena.

Certo, la psicoanalisi sa forse evitare con maggior accortezza e rigore gli infingimenti spesso ipocriti di una fede compromissoria; ma anch’essa non può che oscillare tra l’anelito a tutto dire e il rinvio ellittico a un sapere che nella sua pienezza è dislocato sempre altrove, in un luogo in cui talora sembra poter giacere ipoteticamente ben riposto e integro, mentre altre volte pare in condizioni assolutamente lacerate.  

L’ultima occasione in cui Di Ciaccia vide Lacan fu nell’80, dopo il ritorno di quest’ultimo da Caracas. Lo trovò affaticato e ne ricevette un’impressione dolorosa. Nonostante sembrasse spossato nel corpo, era tuttavia ancora presente e lucido. Nell’81, avrebbe dovuto rivederlo il 3 settembre, dopo le vacanze estive, ma ricevette una telefonata in cui gli veniva comunicato che avrebbe potuto incontrarlo solo il 15. Il 9 Settembre Lacan morì, lasciando la sua controversa eredità ad allievi sparsi in Europa e in America, specialmente in quella latina.

“Di solito - dice Di Ciaccia – si vede nell’analisi il versante che viene chiamato transferale, il versante positivo, il versante dell’Altro pieno, dell’Altro a cui non si può fare a meno di fare riferimento. Ebbene, paradossalmente, questo versante è soltanto preliminare all’altro aspetto: il punto fondamentale é quando l’Altro sparisce, quando non c’è più, quando ci rende conto che l’Altro non esiste” (ivi, p. 19).

Durante la lettura viene voglia a più riprese, come talora capita con i buoni libri, di proseguire la meditazione-conversazione che vi viene intrapresa. A questo riguardo, qualche nostra nota in margine dovrà essere intesa solo come il tentativo di rendere meglio ragione della varietà di tematiche che il libro in questione sa suggerire e intrecciare.

Forse si può anche arrivare a constatare, a un certo punto del percorso analitico, l’assenza dell’Altro, ma è possibile farlo solo al suo cospetto. Per una ragione analoga, si può anche accertare l’assenza di Dio, ma è possibile farlo solo in sua presenza, grazie alla sua testimonianza (non a caso, se il Dio di Spinoza esistesse, allora potrebbe anche non esserci). In mancanza di questa, qualsiasi prospettiva teorica dovesse essere di volta in volta adottata, potrebbe ritenersi ugualmente efficace e falsa. Per questo, anche la ricostruzione fenomenologicamente più verosimile potrebbe risultare incredibile e inefficace. Qualsiasi modulazione fenomenologica individuale richiede infatti la conferma d’un vaglio intersoggettivo e simbolico, né più né meno di quanto qualsiasi carta moneta richieda un’analoga procedura di validazione per poter circolare impunemente.

Eppure, senza quella sparizione dell’Altro, senza il dissolvimento della necessità della sua testimonianza, non v’è accesso a nessun Satori, a nessun disvelamento, a nessuna conclusione di un processo che conduca verso una qualche forma efficace di consapevolezza. Senza l’accettazione della solitudine piena che tale rinuncia comporta, senza correre il rischio di cadere nel più pieno solipsismo, nell’angoscia che questa dimensione determina per la sua contraddittorietà di fondo, non può che continuare ad agitarsi il sospetto che qualsiasi efficacia sia in realtà determinata da quel quid misterioso che a qualsivoglia prospettiva può apportare soltanto l’alone magico di un riconoscimento intersoggettivo, purché sappia risuonare come un quid transferale, come un paterno, silenzioso e iniziatico abbraccio di congedo.

La necessità d’una validazione del processo nella sua interezza, di una supervisione dall’alto o di lato,  di un altro sguardo abbastanza perspicuo e avvolgente, finisce così per costituire il polo di un ossimoro che non cessa di consumarsi alternativamente, lentamente e di scatto, tanto sul suo versante in luce quanto nell’ombra che produce, perché risulta indisgiungibile dall’altra necessità, non meno stringente, di fare a meno dell’alone di quella efficace validazione per vagliare “direttamente” l’efficacia della prospettiva che si vuol sondare sulla propria pelle.

La posizione del soggetto, che sembra destinato a rimanere interdetto proprio nel momento decisivo in cui si appresta a prendere la parola, assomiglia così a quella di un falsario che, per misurare la propria abilità, si sentisse ad un certo punto in dovere di recarsi alla banca centrale per farsi cambiare le banconote da lui accuratamente ricopiate e create. Una volta scoperta l’inesistenza d’una simile banca, se assecondasse la tentazione di far comunque circolare le proprie carta-monete, vedrebbe probabilmente ergersi davanti a sé qualche ossequioso giudice di kafkiana ascendenza, il quale, ostentando una certa sicumera, gli spiegherebbe con ferma e algida gentilezza che sì, la banca centrale non esiste, ma la procedura di validazione presso un qualsivoglia competente ufficio resta pur sempre un atto dovuto e imprescindibile, invitandolo quindi a prendere appuntamento con un impiegato addetto, un amministratore o un ministro immaginario della suddetta banca centrale assente.

 

Antonio Di Ciaccia – Doriano Fasoli, “Io, la verità, parlo”. Lacan clinico. Saggio conversazione,

Alpes edizioni, Roma, 2013, pp. 92.