Con Jung alla ricerca della terra senza il male

 

 

   Nel 1912 l’etnologo Curt Nimuendaju incontrò sulle spiagge brasiliane i Guaranì, un’antica popolazione ameroinde. I Guaranì si consideravano “gli ultimi uomini” ed erano soliti vagabondare nelle foreste alla ricerca della “terra senza il male”.

   Come ricorda Mircea Eliade, “la terra senza il male non appartiene all’al di là, di essa non si può dire che sia invisibile, ma solo che è ben nascosta; non la si raggiunge solo in ispirito, ma in carne ed ossa (...). E’ il contrario di questo mondo perché è purezza, libertà, beatitudine, immortalità, ma appartiene a questo mondo perché ha una realtà e una identità geografica”.

   La terra senza il male è il titolo di un saggio, uscito qualche anno fa presso l’editore Feltrinelli, di Umberto Galimberti, docente di filosofia della storia e di antropologia culturale all’Università di Venezia. La prospettiva antropologica e quella filosofica s’intrecciano in questo saggio di Galimberti con quella della teoria psicoanalitica junghiana e tutte confluiscono nell’analisi di questo mito dei Guaranì, che è però preso a pretesto per più ampie considerazioni sulla civiltà e sul pensiero occidentali.

   Il “Paradiso terrestre” potrebbe corrispondere nella nostra cultura a quella terra tanto assiduamente cercata dai Guaranì; ma, tranne questa eccezione, all’idea della terra noi siamo soliti associare la presenza del male, e riserviamo invece la perfezione e la beati­tudine a regni ultraterreni. Nella cultura europea è tuttavia presente l’esigenza di riparare ad un male originario, ad un peccato o ad una divisione.

   Nel saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità “Jung considera la sofferenza di Dioniso come 1’equivalente greco del doloroso destino del figlio di Dio. Il rito dell’orgia dionisiaca nella cultura greca e della messa in quella in quella cristiana - precisa Galimberti - non sono memoria di un evento, ma effettiva ripetizione dell’evento, perché la composizione sim­bolica è compito infinito. Essa deve riparare il male della terra”. Tale riparazione simbolica è infatti ripetizione di una ricomposi­zione mitica. Nella cultura greca Dioniso, dopo essere stato dila­niato, è miracolosamente ricomposto grazie all’intervento di Apollo. Nella tradizione biblica, il figlio di Dio salva l’umanità dalla colpa con il sacrificio della croce e poi ascende al cielo, riunendosi al Padre. Il dramma divino si compie quindi attraverso una scissione ed una ricomposizione. Alla separazione del Dio biblico e allo smembramento di quello greco, alla loro vicenda terrena, succede la loro ricomposizione celeste.

   La compresenza nel mito di una separazione e di una ricomposizione può essere meglio compresa, secondo Galimberti, alla luce del concetto di simbolo, anzi, tale concetto, nella sua accezione junghiana, può consentire alla coscienza dell’uomo occidentale di reintegrare il suo inconscio mitico. La cultura occidentale, in quanto linguistica e non simbolica, riproduce eternamente le scissioni che sono funzio­nali ad un uso descrittivo del linguaggio, a fondamento del quale sta il “principio di non contraddizione”. Al contrario, nel simbolo gli opposti non sono contraddittori, ma convivono integrandosi. Secondo Jung il simbolo è infatti un “dissidio violentissimo tra due aspetti opposti di una unità inscindibile. L’ambivalenza simbolica, ovvero la proprietà di rendere visibile il legame tra elementi archetipici opposti e di lasciar percepire la loro complementarietà, è ciò che può agevolare il lavoro introspettivo della coscienza. La forma simbolica è infatti capace di evocare 1’integrità psichica perduta, consentendo alla coscienza di riordi­nare e contestualizzare i conflitti inconsci e di penetrare nella radicale ambivalenza dell’esperienza psicologica individuale. Proprio in quanto l’incon­scio è permeato da un dissidio simbolico, i simboli costituiscono infatti lo strumento privilegiato della sua espressione. Nel “processo d’individuazione” e nell’esperienza del “Sé”, quali sono teorizzati e descritti da Jung, la reintegrazione simbolica degli opposti svolge infatti una funzione primaria, permettendo la presa di coscienza di ciò che è rimasto fino a quel momento privo d’ espressione nel linguaggio deterministico dell’ Io.

  Sottolineando dunque la funzione che i simboli occupano nella teoria e nella terapia junghiane, Galimberti individua un’analogia tra la separazione mitica del Dio od il suo smembramento e la separazione, psicologicamente conflittuale, dell’Io e dell’inconscio. In questo senso, il Dio e l’Uomo potranno ricomporsi e tornare metaforicamente a nuova vita solo quando l’Io, invece di contrapporre alla tirannia dell’inconscio la tirannia delle parole, imparerà a considerare tanto 1’uno quanto le altre come due manifestazioni della stessa identità psicologica, consapevolmente ricomposta mediante la trasparenza mitologica dei simboli.   

 

Umberto Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, Feltrinelli, Universale economica; pp. 272.