La voce negli occhi e gli abbracci perduti del cuore

 

   Se Orfeo non si fosse voltato e se la vita potesse continuare oltre ogni apparente morte? O se alla fine ci fosse davvero, come si chiede Fernando Pessoa, “qualcosa così, come un perdono”? Forse allora questi racconti penetranti e dolenti di Laura Guidugli non sarebbero stati necessari per svelare, una volta di più, che proprio lì, in quanto non rimane, nell’ombra di una perdita definitiva o di qualcosa che finisce senza una ragione plausibile, viene conservato, come in uno scrigno, il senso di ogni esistenza.

    Laura Guidugli - docente di letteratura (al Liceo “Majorana” di Capannori) destinata a lasciare sempreverdi e care memorie tra i suoi studenti per la sua palese confidenza con tutto quanto è umano - in questa silloge di racconti, (Abbraccia dove sei, peQuod editore) narra con limpido sguardo dell’eterno litigio tra la terra e il cielo, di quanto s’insinua tra le attese che aprono squarci improvvisi di vita, tra baci fugaci, abbracci notturni e insonni rammendi di sposi. Queste storie straordinarie e comuni, scavate da dita lievi che trattengono il piacere quasi tattile di assaporare ogni dettaglio, sono percorse da una trina sottile di esitazioni e scoperte.

    Lunghe braccia di palme esotiche e bandiere al vento fanno corona a prolungati fidanzamenti andati in fumo, fino a quando, di notte, si avvertono i brividi dimenticati di vertigini che ci fanno sentire ancora vivi. Qualcuno conosce il nostro gioco segreto? Forse non lo abbiamo mai saputo. Magari si tratta soltanto di voler stare dentro una storia, di restituire a un personaggio immaginario il suo corpo perduto. A volte la solitudine di qualcuno ama accompagnarsi alla frivolezza di qualcun altro, fino a quando non si scopre che si vorrebbe restare abbracciati a una storia. E allora non si vorrebbe amare null’altro e restare imbambolati a guardare la gatta di casa, con gli occhi celesti e la coda mirabile, mentre disegna per noi con passi felpati i contorni remoti dei mobili consueti.

    A volte chi è stata perfetta fino a vent’anni, bella e buona e brava a scuola, può far brillare ancora il suo splendore esiliato sulle braccia di un amico all’ingresso di un ospedale, perché la vita ha disegni superbi e segreti e non fa caso alla grazia oltraggiata di qualsiasi sorte, alle linee lievi che ognuno traccia sommessamente a sua insaputa nell’aria.

    Esistono comunque vittime indirette e remote di Amore che vivono nascoste tra camuffate spoglie, accumunando spose una volta felici a chi non ebbe mai bellezza, ma una corazza di corpo avvezzo a giochi selvaggi, a chi ebbe una madre per Moira e solo una voce che si nutriva della vita degli altri, dei racconti rubati ad altre donne e alle ninfe dei boschi.

    La storia finale dell’amore infelice di Eco e Narciso si salda infatti idealmente a quella di Euridice e di Orfeo con cui questa silloge di racconti aveva avuto inizio, specchiandosi a ritroso in un destino segnato da diverse declinazioni della voce, della sua avvolgente e allusiva scia di metafora. Solo nella voce si esprime infatti la fiamma di Eco, che le sue membra custodiscono sepolta eppur viva; solo in essa si conserva “il sussurro dell’aria e il respiro dell’erba, il soffio delle fronde e lo scalpiccio dell’acqua corrente”.

    Quel giorno che vide quel giovane, nella quiete di un bosco che vibrava di vita, dapprima udì solo dei passi che sembravano d’animale leggero, come in fuga, forse ferito. Poi, riconosciuto che si trattava di un umano avvolto in un incanto di giovinezza, fu presa d’amore per Narciso, e lo seguì, facendo attenzione a non essere scorta. Era solo come lei, che appena fu sfiorata dal sentimento del possibile dentro mutò, lasciando che si rompesse ogni barriera. Lui allora le chiese il suo nome, e nel momento in cui lei, per rispondergli, aprì la bocca la sua lingua impastò gli ultimi suoni delle sue parole trattenendoli soavemente nell’aria.

    Così Eco scoprì d’essere la voce del mistero, di quanto permane oltre ogni detrito, e che ovunque, in ogni antro e grotta, sarebbe rimasta quel che era, un resto di parole sospese, “vestigio invisibile d’invulnerabile sogno”. Il suo destino era rimasto nella sola sua voce divenuta ormai quella remota di altri, perché “la voce è la sola cosa che abbiamo, l’unico atto concesso a noi umani”.

    Come il canto di Orfeo aveva condotto Euridice al suo unico amore, inducendola poi di ritorno a modulare il suo tono in una preghiera che si faceva supplica, a chiamarlo e chiamarlo più volte perché si voltasse, anche la voce di Eco non voleva morire, rompere la pena che l’aveva resa viva. Entrambe furono consegnate, con i loro amori, al destino che gli dei avevano loro assegnato, affidando al tempo una debole traccia, come un ricordo sognato, di quel che amore era stato: la scia di un canto sublime, il riscatto di un corpo privo di grazia, un riflesso ingannatore sulla superficie dell’acqua e l’ombra amara sorpresa dalla vita negli occhi.

    Che poi la voce in questione sia anche quella propria di ogni narrazione alta e viva, com’è quella che ci parla da questi racconti, è solo un’evenienza di cui in questo caso non si può dubitare.

 

 

Laura Guidugli, Abbraccia dove sei, peQuod editore, Ancona, 2023.