L'io che mi parla


           Il seminario di Jacques Lacan sulla psicosi

   Da alcuni anni le nozioni fondamentali della teoria psicoanalitica di Jacques Lacan sono divenute, anche in Italia, patrimonio comune di chiunque coltivi un qualche fondato interesse per la psicoanalisi. Tuttavia, l’opera svolta da alcuni seguaci e divulgatori del pensiero di Lacan in Italia (ma non solo)  ha dato via libera ad una serie di modulazioni retoriche che hanno contribuito non poco a confondere le linee salienti dell’insegnamento del maestro.
   Famoso più per la sua oscurità che per le sue essenziali delucidazioni, più per i suoi giochi linguistici o i suoi “nodi” che per il rigore della sua indagine, Jacques Lacan è probabilmente oggi lo psicoanalista che ha suscitato - anche grazie ad un “gergo” incessantemente allusivo, procrastinante, ostico e accattivante a un tempo - i fraintendimenti più radicali del proprio pensiero, i suoi usi più verbosi e affabulatori.
  

   In effetti, chi intraprende la lettura di un suo testo rimane di solito o infastidito o affascinato. Nel primo caso si tende  a scambiare la peculiarità del suo stile con una loquacità ridondante e criptica, tesa a stordire il lettore o l’ascoltatore col pretesto di mimare il linguaggio dell’inconscio. Nel secondo si tende invece ad accettare per buone o chiare molte asserzioni che non lo sono affatto, fidandosi di qualche suggestione semantica in genere piuttosto scivolosa ed epidermica.
   In realtà, lo stile di Lacan è semplicemente funzionale alla problematica polifonica dell’oggetto della sua ricerca e chi lo affronterà senza particolari prevenzioni e con motivata tenacia scoprirà che anche l’osservazione apparentemente più evasiva serve ad assestare il materiale della trattazione.
  Una buona opportunità per verificare – o smentire – questa circostanza può essere fornita al lettore italiano dalla traduzione  del seminario tenuto a Parigi nel 1955-56, il terzo della serie che, dal 1953 al 1963, caratterizzò il decennio successivo alla prima scissione provocata da Lacan nell’ambito del movimento psicoanalitico francese.
   Lacan torna in questa circostanza sul problema dell’interpretazione e della terapia delle psicosi, problema che aveva già affrontato nella sua tesi di laurea (Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità) e che sarà anche in seguito oggetto privilegiato della sua indagine. Lo spunto da cui prende le mosse in questa occasione è costituito da una distinzione, da considerare come preliminare e provvisoria, tra il soggetto normale e quello psicotico: mentre per il primo “il rapporto con l’io è fondamentalmente ambiguo” e ogni sua assunzione da parte del soggetto è “revocabile”, il soggetto psicotico  è “identificato all’io con cui parla”. In un certo senso, il soggetto psicotico “ignora la lingua che parla“ e tuttavia non può fare a meno di tentare di percorrerla e di decifrarla, dato che il suo io coincide sempre con l’ultimo residuo del discorso che lo identifica. In questo modo, “l’io è totalmente assunto in maniera strumentale. Il soggetto parla letteralmente col suo io ed è come se un terzo, suo doppio, parlasse e commentasse la sua attività”.
   Nelle pagine successive a quelle che contengono le considerazioni appena riportate, ripercorrendo il “caso” del Presidente Schreber, Lacan giunge a fornire non solo una nuova interpretazione della sindrome psicotica, ma anche, più in generale, dell’intervento analitico e del ruolo dello psicoanalista, fino a sciogliere molte delle incertezze teoriche ancora contenute nell’opera di Freud.


Jacques Lacan
Il Seminario libro III
La psicosi
Einaudi editore.