La lettera di un viaggiatore solitario

               

L'ultimo Onegin       

Senza fine è il destino di Onegin. Lieve, assoluto come la morte è il suo pensiero ancora vivo. Così lo ha immaginato Puskin, congedandolo con reticenza, senza note finali, quando ormai era chiara l’elezione del suo spirito. Non fino ai termini di un ultimo atto ci spinge l’autore. Quei dati conclusivi che legano per sempre un personaggio ad una storia che non può mutare, nel poema di Puskin ci vengono sottratti. Il congedo è chiave per Eugenio di altre porte e scenari solitari. Con delicata dissolvenza, l’autore recide il filo che lo tiene unito al suo personaggio, si distanzia dal romanzo come il suo eroe si allontana dalla vita. Una vasta e oscura  libertà dell’anima rimane oltre l’impronta che la vita ha inciso, oltre il segno profondo dei suoi fatali eventi. L’essere di Eugenio, ci sembra allora di capire, prescinde dal tempo, rinuncia alla sua storia, si elegge a dimensione assoluta.

In un luogo di altre terre, in un’isola del Mediterraneo, l’autore della Lettera di un viaggiatore solitario disegna i margini di un’esperienza ulteriore e centrale della vita di Onegin: al tavolo di un ristorante che si affaccia sul mare, tra luci, riflessi e le sottili ombreggiature dei ricordi, Eugenio scrive un’altra lettera a Tatiana. Così la sua voce, senza violare l’incanto del suo passato, riannoda il filo della vita al suo fuso, si dispiega come flatus di una dimensione erratica della coscienza e come strumento della sua problematicità.
Nella Lettera, si avverte nitidamente, il passato di Onegin e Tatiana resta come un tacito fondale che le parole riescono a evocare in controluce, esplorandone la profondità. Forse è un gioco di omissioni e di isolati richiami a un passato così intenso che rende vivo e vibrante il pensiero. Forse è una sottesa domanda di senso che ispira il nuovo Onegin, ne agita pensieri penetranti e conferisce alla Lettera l’aspetto di un’operetta filosofica.
Talvolta i pensieri di un tempo ritornano e si fondono ai presenti, come gli orli di mare che si uniscono alle schiume già esauste. E ovidiane tristezze, in un esilio che è pena di lontani tormenti, inscenano un dialogo muto con le voci di allora, le fiere e dolenti parole di eroine deluse. Ma proprio in questi frangenti, in cui il vissuto riappare, comprendiamo un nuovo legame che stringe Eugenio alla realtà, la sua, potremmo dire, vocazione metafisica.
Eugenio è spinto a cercare la via del senso del mondo attraverso un lucido processo di interiorizzazione e di concentrazione nel sé. Eppure, al contempo, questo movimento sembra procedere per un percorso esterno, di immersione nelle cose, di prudente esclusione dell’io soggettivo dal novero di ogni certezza.
Pare Onegin riconoscersi in una sorta di “funzione mediale” dello sguardo, che mentre si distende sul mondo, affonda nel sé, in una specie di moto simultaneo, o, ci piacerebbe dire, coincidente. Per questo, la dimensione interiore del personaggio pare immersa in una luce che rende pervio ogni sentiero del tempo. E i luoghi della coscienza, come in un planisfero, appaiono tutti compresenti, posti in superficie. Si direbbe che ogni piccolo tassello dell’anima abbia in sé una portata figurale, e contenga idealmente, della vita, l’intero disegno musivo. E’ l’esperienza della solitudine a ispirare questa immagine di composito insieme. Se da un lato infatti essa non può far altro che porre in risalto la marginalità dello sguardo, dall’altro si rivela la condizione necessaria per trascendere questo stato di marginalità, per raccogliere gli sguardi di tutti e rendere udibile, nella sua veridicità, la voce del mondo. L’io e la realtà sembrano confondere le loro linee di demarcazione. L’isola, i riflessi del mare, gli avventori del locale, sono tutti elementi che sostengono lo sguardo; o è lo sguardo che tutti li sostiene, nel varco della sua prospettiva? Forse è un cristallo l’anima di Onegin, la cui sostanza non può farsi evidente se non in ciò che lascia trasparire. Non c’è pensiero nel racconto che non sembri infatti far propria la radicalità delle cose; né cose o piccoli fatti che non rivelino la luce estesa e profonda dei pensieri.
In questa dimensione metafisica della solitudine, che avvicina l’uomo al silenzio profondo di Dio, Onegin può sentire scorrere la vita come un fatto assoluto, un eterno interludio che è epigrafe al contempo di provvisoria ventura. Proprio questa condizione si rivela essenziale. Necessario al pensiero è questo stato di attesa, di sospensione. Illusoria è la trama della vita e vero lo sforzo di conquista della sua autenticità.
Come in raffinata ascesi, Onegin osserva i piccoli fatti del giorno, cogliendone quasi un senso profetico, in uno stato di lucida confusione che assomiglia a un momento finale, a un rendiconto che si compie sul punto di intendere una verità essenziale, che non si lascia mai afferrare del tutto.
Così, ancorato ad un centro di cui sfuggono i confini, quasi disperso nel tempo e nello spazio come un singolo punto nel centro del loro arco infinito, l’ultimo Onegin lascia intravedere la sua nuova dimensione esistenziale e letteraria, di un personaggio cristallizzato nel mondo, in una dimensione archetipica della spirito. Se la realtà si è fatta sostanza della sua anima, essa non ha mai smesso, al contempo, di rivelare il suo fine estetico. In fondo anche il mare e i luoghi di quest’ultimo esilio, ci piace così interpretare, sono parti di un’esistenza narrabile, cifre di una continua affabulazione, nell’orizzonte di senso della parola.

Bonifazio Mattei