Uomini a perdere

  

Il titolo della raccolta suggerisce l’idea che la vita abbia riservato ai personaggi un freddo protocollo di sconfitta, una indifferenza esequiale ai loro sogni e alla sorte.      

   Ma la comitas filosofica di questi racconti stempera presto l’asprezza di quel titolo epigrafico e comprendiamo come il perdere sia invece legato a una dolce e ricorrente parabola del vivere, a una lieta rifrazione dei suoi cimenti.

   Il titolo della raccolta suggerisce l’idea che la vita abbia riservato ai personaggi un freddo protocollo di sconfitta, una indifferenza esequiale ai loro sogni e alla sorte.     Ma la comitas filosofica di questi racconti stempera presto l’asprezza di quel titolo epigrafico e comprendiamo come il perdere sia invece legato a una dolce e ricorrente parabola del vivere, a una lieta rifrazione dei suoi cimenti.
   I protagonisti di questi racconti, scrive Abel Martìnez nell’introduzione, sono infatti “caratterizzati da una sorta di marginalità di fronte all’esistenza, dall’aver vissuto, almeno per un periodo della vita, in una dimensione di apparente sussidiarietà”.
C’è un’immagine sulla copertina del libro, un particolare di un quadro di Giuseppe Ardinghi: una finestra aperta, dai contorni opachi e decisi. Le imposte, aperte dal basso, si affacciano sul verde di una fioriera. Si scorge un’altra finestra dai colori più accesi, mentre ai vetri si infittiscono le rifrazioni dei colori.
   C’è qualcosa in quell’immagine che ci fa esitare: siamo attratti dal tenero affaccio, l’attenzione è tutta rivolta all’esterno ma, nel frattempo, ci accorgiamo di non poter distogliere lo sguardo dai battenti, dai vetri corrugati da lievi riflessi. Sporgendoci in quella luce cedevole, siamo richiamati verso dentro, dove i sensi dell’anima stanno già vagando. E’ verso l’interno allora che guardiamo?
   La luce ferma e pacifica di quell’immagine fa pensare ai personaggi del libro. Docili spettatori della vita, sembrano bagnati nella luce dei giorni e proiettati verso il mondo. Ma, oltre le vertebre di luce delle imposte, mentre guardano all’esterno, li coglie la coscienza di guardare e di guardarsi.
   Questa specie di visione attiva e riflessiva è un’invariante che non si può comprendere se non sovrapponendo i diversi racconti, leggendoli come in trasparenza gli uni sugli altri.  E’ così che scopriamo che i personaggi di questo libro vivono la stessa “alienata riflessività”.
Come i due innamorati di Zola della Fortune des Rougons, che si parlano a ridosso del muro che li divide, e che scoprono nel riflesso dell’acqua di un pozzo le ombre statiche e protese dei loro corpi, gli Uomini a perdere si aggirano un po’ fiabescamente tra i segnacoli della loro stessa vita. E in essi riflettendosi, si sentono estraniati.
Giuseppe, protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, passa in effetti il suo tempo affacciato alla finestra, tutto esposto alla vita passeggera, rapito da un dolce richiamo di inappartenenza.

   Egli, a pensarci, può riconoscersi nel proprio mondo solo nei modi, appunto, attraverso i quali ne diviene esule, muto profeta e spettatore lontano.
Quel suo modo di vivere in disparte, del resto, di attendere come un ciclista doppiato il passaggio del suo ammirevole fratello, non è il segno di un esilio interiore che rende più amabile il pensiero del sé, vulnerato da un disagiato amor proprio?
   Anche gli altri Uomini a perdere somigliano a Giuseppe. Si tratta invero di personaggi appartati, rimasti un po’ indietro nel loro apprendistato esistenziale, ma che hanno coltivato della vita un concetto così alto, da tenere a vile, in ogni impresa, non ripagarla in dignità.
   Le loro storie sembrano annunciare solo lievi diversioni dai consueti recinti del vivere. Tuttavia non si fa fatica a riconoscere nei fatti le parti di un’ultima actio, la forma in crisalide di una vita che si schiude e che va incontro a un destino.
   Ogni personaggio ci confessa, a ben guardare, un’impressione radicale della vita, un sentimento filosofico del tempo.  Ne vengono ritratte le abitudini, i gesti comuni, non già per tipizzarne i modi, adeguarli a un generico agonismo d’azione; ma perché il personaggio condiscenda per intero a una fase di commozione e di disvelamento interiore.
   Si noterà allora che quelle abitudini, le cose consuete che popolano il tempo mondano del personaggio non sono un riparo, un argine che si oppone alla vita e al suo corso. Sono invece esse stessi prodromi di un destino, perni e confini di una dimensione coscienziale nella quale si dipanano le storie.
   Le cose, quelle cose che gremiscono il dulcis victus dei giorni, significando con troppa aderenza il presente; tutte queste cose, in realtà, sono ben aldilà degli angoli nei quali si credono riposte. Pietre, quadri, rumori, un romito mobilio o un infuso di tè acquisiscono, nei vari racconti, un’identità figurale che esprime un’intima correlazione tra la realtà sensibile in cui sono calati e una più ampia dimensione trascendente.

   La Eucliana Celsiana, per esempio, la pietra preziosa di Giovanni, rimanda alla bellezza di Claudia. Come un “adamàs” occitanico che splende per l’influsso della donna-astro, ne ricorda il chiarore sfuggente e distaccato. Ma la sua rifrazione muta è anche pronuba di un amore impossibile e di una morte da varcare in sogno.
   Anche il ritratto di Piero annuncia il ghigno di un exitium vitae che attende paziente il proprio compimento.
   Altre volte, invece, somigliano le cose a un contrappeso di pensieri voluminosi, di sogni penetranti: sono a volte i brusii confusi delle visioni di Lucia, protagonista di Rumori; altre volte il gusto di un infuso di tè, che ricompone l’accordo tra l’esprit de géometrie di Giacomo e l’esprit de finesse di Carlo, i protagonisti de La congettura di Goldbach, vulnerati da un torpore piretico di ricordi e congetture.
   Alla prima impressione gli uomini a perdere hanno l’aria di incarnare vite fuori corso, monete rare e correnti tenute in tasche di abiti dimessi.
   Ci sembrano abituati a trattenere le immagini di una vita diversa e lontana, ad accarezzarle soltanto, al prezzo di un dolce e malinconico esilio da sé.
   Per questo forse scorgono la realtà e la vita altrui come una distanza di cui la propria vita è misura. E in questa estensione, la vita si addolcisce in somiglianze, si affeziona a ricorrenti estraneità.
   Da un balcone all’altro, ad esempio, si guardano il ragionier Finesu e la signora Gina, inscenando il più cortese e il più esitante dei corteggiamenti, mentre i loro animali domestici, un gatto e un uccellino, prendono le parti negli atti di una giocosa venagione. 
Si tratta di personaggi aperti, coscienti del gioco fantastico del vivere che interpretano a volte con impaccio, ma di cui non ignorano l’impregiudicata purezza.
   Forse è in nome di questo sentimento più profondo che essi non disdegnano di mantenersi ingenui, di vivere senza schermi difensivi, di rivendicare come necessaria l’esigenza di un benevolo conflitto con il mondo.
   Si direbbe anzi che tutti, in qualche misura, siano alle prese con la vita nel modo più autentico, quasi racchiusi in una naturale ragione venatoria.

   Piero, il personaggio de Il ritratto, non può reprimere il suo selvatico rispetto di Dio, misconoscere  la creaturale tensione alla vita e alla morte. E con fierezza si ciba delle coturnici che uccide, nutrendo a sua volta la sua sbigottita vocazione al morire.
Ma anche Giacomo Fantini, in un modo meno diretto, mette in scena una calma partita con la vita. Pensiamo al lento e sereno incendio de La congettura di Goldbach. Il fuoco sembra avanzare generoso e Giacomo Fantini ne osserva la buona minaccia, inaridendone le fonti con giudiziosa accortezza.
   Ma ciò che pare necessario evidenziare è che i termini di questa vita attiva, le pratiche impellenze delle operazioni si pongono in diretta comunicazione con il mondo psichico.
Il crepitio del fuoco tra le piante d’alloro richiama, ad esempio, uno scenario interiore, esulcerato da un bruciore d’amor proprio e di lontane possibilità svanite.
   All’agire, viene da dire, il personaggio partecipa contemplando, manifestandosi così in una sua profonda unità.
   Ma è qui che si profila una situazione ricorrente che caratterizza il personaggio e gli altri uomini a perdere: l’angolazione della loro vita, quel loro punto di vista sul mondo, così appartato e intatto, ci viene presentato come una visione tutta singolare e penetrante. E a ben guardare, ci accorgiamo che quei motivi profondi, passionalmente personali, i motivi che legano l’individuo alla propria storia in modo radicale e indubitabile, non hanno nulla di frusto e di cieco, ma sono effetto di un’armoniosa contiguità con il mondo esterno, con la natura in special modo.
   Si direbbe anzi che l’immagine della natura, che emerge dalle varie parti dei racconti, sia sostenuta da un fondamento etico e poetico assai profondo.
   L’ampia descrizione del sogno di Carlo Camaldini, proprio ne La congettura di Goldbach, ad esempio, ci rivela una condizione di pienezza coscienziale che tende a chiarire in modo topico un rapporto del tutto disambiguato tra personaggio e mondo.
   Il sogno sembra animato da un forte rigore infantile, da un’indefettibile geometria e mitezza delle sue trame.

   Ci addentriamo in quel giardino vasto e cangiante, come indotti ad una forma di conoscenza per imagines, che si dispiegano in compassata rappresentazione. E sembra di procedere attraverso effigi di una natura muniens, di una natura che, nel duplice senso del termine, si conserva in forza di un principio etico di incessante rinnovamento del suo ciclo vitale, e rende altresì accessibili i suoi simulacri, aprendosi a notomie di pensieri fantastici, di figurazioni poetiche.
Questo senso di permeabilità fa degli uomini a perdere dei personaggi chiari, dei quali ci è negata ogni ambiguità, ogni recondito orpello d’inconscio.
   L’andamento della loro esistenza si direbbe anzi governato da un ampio chiarore coscienziale, che illumina anche i sogni e ne nega la distanza dal vero.
   Quanta tensione poietica mette Lucia nella propria vita, revocando ai sogni il rifugio del loro mondo sommerso? La giovane donna del racconto Rumori vive in una costante trasparenza dell’anima, “soffrendo” le continue apparizioni di rumori che ne abitano il fondo. Questi rumori sono brevi bisbigli nell’arcata dell’anima, ma sono anche le voci in cui l’anima tutta risuona.
   La “trasparenza” degli uomini a perdere sembra fondarsi su di una congeniale e necessaria complementarietà con il mondo; al punto che anche il mondo esterno sembra quasi corrispondere ad un essere altro dei personaggi, alla materializzazione di una possibilità, vicina o lontana, del loro essere.
   Quando la loro realtà si dispone su questa linea di perspicua percezione, allora il personaggio, potremmo dire, acquisisce un anceps vultus, una duplice polarità della coscienza, per cui egli è anche tutte le cose, le parole e i gesti della vita che non appartengono storicamente alla sua individualità. E’ questo motivo che dà al personaggio una dimensione quasi sovrapersonale e simbolica.
   Matura in molte pagine l’impressione che il personaggio sia legato ad un’esigua realtà, e che sia tuttavia consapevole delle leggi segrete che guidano il destino; che la propria vita sembri sfuggirgli, ma che egli senta sempre viva e necessaria una relazione dialettica col mondo; che il mondo sia, a prova della sua oggettività radicale, un simbolo centrale e profondo della coscienza.
   Le raffinate aporie di questi racconti invitano a indagare l’unità del pensiero che tutte le sottende. Scopriamo allora come in ogni personaggio si racchiuda una dimensione peculiare e paradigmatica.
   E quanto c’è di personale, in essi, trasuda fortemente di impersonalità e inappartenenza. E’ un principium individuationis che marca i confini di carattere proprio accogliendo in sé i tratti di un’alterità, dissolvendosi nel deuteragonista del sé.

   Le coppie di personaggi che caratterizzano le storie sembrano infatti congegnate ad incastro, come simmetriche o a volte opposte possibilità dell’essere. Guardando il riflesso dell’altro, scoprono il tremolio della propria vita, la centralità e la pienezza di questo vincolo di insufficienza.
   Così, se il loro modo di essere appartati è un abitare al centro della vita, il “perdersi”, il percepire la vita come una “mancanza ad essere”, non è altro invece che un ritrovarsi, perché non c’è ragione di perdersi, se non si può amare la propria deriva, se non si può dare alla propria sofferenza un significato morale.

Bonifazio Mattei