La camera blu

  

   I ciottoli della spiaggia sono ancora tiepidi per il calore del giorno. Ne sfioro uno più ovale, ch'emana un calore lento, ovattato e amichevole come un sussurro. Il cane grigio cerca la mano di Teresa, sollevandola col muso, perché vuole attrarre la sua attenzione; ma lei parla con gli altri nella luce del fuoco. Un suo amico le ha appena suggerito qualcosa e insieme raggiungono una barca vicina. Lui si muove in maniera elegante, con gesti agili che delimitano uno spazio preciso. Ogni sua azione sembra avere chiaro un obiettivo, la certezza di quel che bisogna fare. In pochi minuti spogliano la barca del suo involucro di plastica ed alzano la vela. Poi spingono il piccolo scafo in mare. La chiglia rimbalza sulle onde che si rompono piano sul bagnasciuga. 
     Mentre si spostano a largo si può vedere sotto la luna il bianco mutare forma ed anche sentirli ridere ogni tanto. Gli altri parlano ancora intorno al fuoco, con le facce illuminate a metà. Il cane guaisce sulla battigia, perché non si è rassegnato e pensa che lei debba tornare. All'improvviso corre da me; forse per avere spiegazioni. Lungo il percorso incontra una farfalla notturna che lo distrae e cerca di prenderla al volo, ma la farfalla non gli fa caso e si allontana. Il cane la lascia perdere e viene da me, saltandomi addosso mi da una leccata sul viso e per un attimo pensa a giocare. Poi riparte di corsa ed entra con le zampe nell'acqua: magari la vorrebbe raggiungere, e invece si ricrede e desiste, fermandosi in silenzio a scrutare verso il bianco della vela.


   Oggi con Teresa abbiamo passato il pomeriggio a dipingere la sua stanza di blu, come aveva fatto la zia con la sua vecchia camera d'angolo. La sua voce allora risuonava acuta, esile e disperatamente decisa in ogni accento per una sicurezza irragionevole, la stessa di chi non ha mai niente da perdere, in nessuna circostanza e per nessun motivo.
   Teresa abita in un piccolo appartamento di tre stanze. C'è anche un balconcino, con dei vasi di fiori, gerani e ranuncoli, che sono appena sbocciati. Ieri sera abbiamo cenato con un'insalata e del formaggio, ascoltando delle vecchie canzoni e bevendo del vino bianco istriano, fresco e appena abboccato. Dalla finestra della cucina si potevano vedere le luci della costa che si riflettevano sull'acqua scura.
   Come mi capita spesso ogni volta che la rivedo anche ieri ho avuto con lei l'impressione di stare bene, quasi di essere felice. Ma è una sensazione sgradevole, come se mancasse qualcosa di essenziale e la felicità fosse sul punto di nascere sempre, senza formarsi del tutto, senza poter rimanere. La sento arrivare in anticipo e bruciarsi anzitempo, come una specie di tranello gratuito, una finta o uno scherzo di cattivo gusto.

   Abbiamo incominciato a parlare della zia senza accorgercene, a ripensare insieme a quel giorno che la sentimmo urlare. Stavamo giocando sul tappeto del soggiorno, a casa dei nonni. Il tappeto era d'un giallo chiaro e cremoso, invitante, con dei fiori azzurri e d'un rosa antico. Era fatto di tanti fili morbidi che tornavano al loro posto dopo averli spostati, steli felpati sui quali era bello far scorrere il palmo della mano. In camera trovammo la zia che piangeva. Urlava che voleva morire stringendo i pugni contro la testa. La nonna cercava di calmarla, senza grande successo. Poi chiuse la finestra, ma lei continuava a piangere, soffocando il viso contro il cuscino. Non sapemmo mai perché quel giorno piangesse così, e non lo scoprimmo nemmeno in seguito, ma allora parve a tutti e due proprio disperata e mi sembrò di capire com'erano i grandi quando soffrivano per qualcosa.

   Dopo cena siamo andati a sederci sul divano. Teresa ha appoggiato la testa alla mia spalla. Da quando Andrea se n'é andato lei dice di sentire solo l'inizio di ogni cosa, e tutto il resto che precipita verso la fine, consumarsi da solo con una fretta sconsiderata. Andrea se n'è andato da quasi un anno, ma le scrive ancora da tutte le parti del mondo. Ogni tanto le invia dei piccoli schizzi a penna su delle cartoline del posto. Teresa più che altro si sente triste per il fatto di non averne bisogno, di poterne fare a meno, anche se in certi momenti le manca. Per lei l'unica cosa certa è l'averlo incontrato. Poi c'è l'inerzia della vita, ognuno a diritto per la sua strada. Non che ci siano strade già segnate, ma è quello che sente. Se non c'è più nulla d'amare è perché niente è più da temere. Ogni cosa deve essere lasciata andare verso la sua sorte che non si conosce, senza attaccarsi a nulla. Altrimenti la vita assume sempre la forma d'un indugio, incapace di trattenere quel che non si vorrebbe perdere.

   Teresa ha sempre avuto molti fidanzati, fin da quando era ragazzina, tante storie che poi non sono continuate. Quella con Andrea mi è sempre parsa più importante delle altre. Forse era lei a scappare sempre, oppure induceva gli altri ad allontanarsi prima di capire. Quello che sentiamo non basta mai a legare del tutto, non serve a promettere qualcosa di preciso. Anche a tavola, da bambina, scappava via prima della fine del pranzo. Usciva dalla sala di corsa e sollevando in alto i talloni faceva volare la gonna. Dopo una breve fuga si raggomitolava in un angolo imbronciata, tenendosi le ginocchia, e non voleva più parlare, anche se non le avevo fatto niente. Era arrabbiata solo perché scappare le dava fastidio, perché tanto prima o poi bisognava essere presi. Non sopportava semplicemente di essere inseguita, anche se voleva sempre provarci.

   Quando invece ero io a dover scappare in genere aspettavo un momento in cui mi sembrava distratta. Ma lei faceva solo finta di distrarsi, in realtà mi teneva sempre d'occhio, anche quando tagliava una pera o sorseggiava il succo d'arancia. Sapeva esattamente il momento che avrei scelto ed era perfettamente tranquilla quando non era quello giusto.

  A volte, tornando da scuola, ci fermavamo a fare la spesa e a lei piaceva guardare il macellaio mentre tagliava la carne. Invece io l'avevo antipatico, perché mi sembrava che ci trovasse gusto. Il macellaio era grasso e aveva delle venuzze rosse sulla faccia, come quelle della carne che tagliava con precisione, in un verso solo e con grande compostezza, sempre con lo stesso movimento. Se spaccava le ossa delle bistecche ci metteva più forza e sembrava trovarci anche più soddisfazione. Teresa l'osservava con uno sguardo indifferente e gli diceva cosa volevamo con tono deciso. Quando parlava con i grandi li guardava fisso negli occhi e non rispondeva mai subito: aspettava sempre un po' di più, come se dovesse finire un pensiero.

  Certe mattine, prima di uscire, si guardava a lungo allo specchio e poi si vestiva elegante. Per strada camminava a testa alta, quasi sempre davanti a me. Se allungava il passo per distanziarmi i calzettoni le scivolavano a metà dei polpacci e lei non li rialzava.
   L’ortolano però era simpatico, perché ci regalava spesso qualcosa, del prezzemolo o della frutta, e sorrideva sotto i baffi mentre ce la prendeva. Il suo negozio aveva un buon profumo e sua moglie era gentile, mentre quella del macellaio era magra, con la faccia grigia e la bocca storta da un lato. Il panettiere invece era scapolo. Aveva due garzoni, uno alto ed uno piccolo, che parlava bene e svelto, mentre quello alto balbettava. I due garzoni facevano a gara a chi serviva più veloce e quello piccolo vinceva quasi sempre, anche se secondo me imbrogliava, perché si sceglieva i clienti che compravano meno cose.
   Di Domenica la bandiera della caserma di fronte a casa nostra sventolava e noi scendevamo in piazza per correre in bicicletta. Teresa diceva che dovevamo superare la bandiera e per questo le passavamo davanti sempre più veloci. Facevamo le corse anche al mare, sui vialetti rossi della passeggiata che invitavano a correre, a scappare o ad inseguire. Nei giorni di vento la sabbia arrivava direttamente negli occhi, ma era bello lo stesso.

  Quand'eravamo più piccoli il babbo ci portava sulla sua bicicletta, io davanti, sulla canna, e lei sul portapacchi di dietro. Ogni tanto il babbo faceva finta che stavamo per cadere, ma io sapevo che non era vero. Teresa invece gridava, tirando fuori qualcuna delle sue voci, e si aggrappava più forte come se ci credesse davvero. Sapeva cambiare voce come una strega e a volte si faceva paura da sola, strabuzzava gli occhi, faceva facce mostruose e iniziava a lacrimare. Incominciai a credere che la sua vera voce fosse solo una delle tante, non più sua delle altre orribili che estraeva all'improvviso dalla pancia o dalla gola. Nella mia fantasia ognuna aveva la sua sede in una parte del corpo, dove se ne stava acquattata, e da lì poteva riemergere in qualsiasi momento di sorpresa.

  Quel pomeriggio che seppellì Coso, il suo cane di pezza preferito, ricordo che riuscì ad imitare alla perfezione la voce del prete, bassa e arcuata, emettendo frasi con un'inflessione solenne. Aveva deciso che Coso era morto perché si era stufata di ricucirgli la pancia, dalla quale la paglia era ormai quasi tutta uscita. Decise che all'ultima operazione non poteva essere sopravvissuto, e che quindi era morto. Chiese la mia assistenza per la cerimonia funebre e lo seppellimmo in un angolo del giardino. Gli scavai la fossa, e lei costruì una piccola croce, che poi conficcammo nella terra, tra quattro pietre che avevamo scelto con cura. L'epigrafe che scrisse con dei piccoli sassi me la ricordo ancora: "Coso è volato in cielo, e ora non gli dà più noia neanche una mosca"
   Al mare, nei pomeriggi d'estate, la nonna giocava a poker con le sorelle, la zia Emma e la zia Margherita, e con delle altre loro amiche. Scoprivano le carte a poco a poco, con le mani che sembrava tremassero, facendo spuntare solo un segno per volta, e parlavano a voce bassa. Qualcuna, aspettando il proprio turno per giocare, accarezzava le fiches con una mano facendo un bel rumore felpato che sul panno verde si mescolava ai loro profumi.
   La zia Paola invece era la sorella maggiore di mamma. Abitava ancora con i genitori, perché allora non era sposata, anche se era già fidanzata con lo zio Roberto, che era ufficiale di Marina. Quando tornava dai suoi viaggi spesso lo zio veniva a trovarla in uniforme. Aveva una bella divisa blu con tanti bottoni luccicanti e qualche volta anche la sciabola. La sciabola stava nel suo fodero argentato, legato alla cintola da una corda che culminava in un pennacchio blu.
   Appena ci vedeva lo zio ci sollevava in alto e poi ci stringeva tra le braccia. Aveva una faccia larga e grandi mani bianche, ricoperte da lentiggini rosa. Quando rimanevano da soli in camera qualche volta riuscivo ad entrare ed andavo a sedermi in mezzo a loro. Una volta dissi che lo zio era anche mio, ma la zia Paola indicò l'unghia che sporgeva dal medio e rispose che mi avrebbe lasciato solo un pezzettino molto piccolo di quell'unghia, che in effetti era abbastanza grande per tutti.

  Il giorno che la trovammo a pitturare la camera blu era di Domenica. Non appena arrivammo a casa dei nonni l'andammo a cercare e la trovammo arrampicata in cima alla scala. Dipingeva le pareti con un grosso pennello rettangolare, mentre le scaglie della vecchia vernice erano tutte cadute per terra su dei fogli di giornale. Anche lei era sporca di colore sulle mani e sul grembiule da cucina e mentre pitturava sembrava allegra e cantava, come se stesse per incominciare una vita nuova.

  Una sera, dopo cena, l'accompagnai a telefonare in teleselezione dalle cabine. Chiese la comunicazione alla signorina e rimanemmo ad aspettare. Io mi sedetti su una sedia mentre lei camminava in su e in giù, senza dire nulla e guardando per terra. Quando le passarono la linea si precipitò dentro e si mise a parlare a voce alta, rispondendo ad ogni domanda con un'espressione di gioia che sembrava troppa, quasi che ci fosse nascosta dentro la paura di soffrire. 

  Si sposò con lo zio che avevo cinque anni, mentre Teresa ne aveva quasi sette. Durante il rinfresco per l'eccitazione continuai a rinviare il momento di andare a fare la pipì. Mia sorella si accorse che mi scappava e incominciò a farmi il verso, incrociando le gambe e incavando le gote dentro la faccia. Così mi scappò da ridere e me la feci addosso. Si mise a ridere anche lei, ma quando si accorse che c'ero rimasto male mi prese per un braccio con la faccia irritata e mi portò di là, dove chiese a nonna se poteva asciugarmi i pantaloni del vestito. La nonna prima li sciacquò e poi li asciugò con il ferro da stiro, ma dovetti anche cambiarmi le mutande, e così rimasi per un po' a saltellare per la cucina, impaziente di ritornare in sala, dove la festa continuava senza aspettarmi.

  Quel giorno la zia sembrava davvero contenta e si spostava in continuazione parlando con gli amici, sorridendo a tutti e scambiando con tutti qualche parola. Anche mamma e babbo erano contenti che si fosse sposata, ed anche dei suoi vecchi compagni di scuola che le avevano sempre voluto bene e che si erano sposati prima di lei.
   La sera stessa della festa partirono per il viaggio di nozze e poi, al ritorno, vennero ad abitare proprio a Trieste. La zia morì pochi mesi dopo il matrimonio, ma al funerale non ci portarono. In un primo tempo non ci dissero nemmeno che era morta. Io non l'avevo subito capito, e credo nemmeno Teresa, ma era chiaro che era successo qualcosa di cui non si poteva parlare. Lo zio Roberto partì per uno dei suoi lunghi viaggi e più tardi, dopo qualche anno, si risposò a Sidney con una simpatica signora americana, molto bionda, che aveva incontrato su una nave.

   Qui a Trieste c'erano stati anche durante il fidanzamento, quando lui era ancora tenente, e a casa dei miei c'è ancora una sua fotografia che ritrae la zia mentre sta appoggiata al davanzale e guarda il mare con sorriso un po' triste.

   D'allora la luce di questa città mi è sempre sembrata come quel sorriso, bianca come un annuncio, come il fuoco privo di calore delle cose che stanno per finire, del loro stare sospese sopra di noi, tra la terra e il mare, dove le trascina il cielo.

   La sua malattia non durò a lungo. Il morbillo si trasformò presto in meningite, ma a noi non dissero che era grave, e potevamo farle visita. Poi ci spiegarono che era meglio non disturbarla, perché si doveva riposare. Che la sua malattia fosse pericolosa all'inizio per me era solo una sensazione che trasformava la luce delle stanze e il loro profumo. Ma un giorno vidi il dottore che si era fermato a parlare con i nonni e con mamma, in salotto, e quella sera, in camera, prima che mamma richiudesse la porta, scorsi anche la nonna che si toglieva le lacrime dagli occhi lucidi perché mi aveva visto nel corridoio.
   La zia la rividi qualche giorno dopo, mentre passavo dal salone. Comparve sulla soglia della camera e indossava una vestaglia bianca con dei grandi fiori. Sembravano fatti di sangue, come le macchioline rosse che aveva sul viso. Teneva le braccia distese verso di me, che restavo fermo in mezzo alla stanza, incapace di muovermi. Il pavimento di marmo, a quadrati bianchi e marroni, pareva più grande del solito. Lei si avvicinò continuando a tenere le braccia distese. Pronunciò il mio nome in un modo del tutto nuovo. Mi chiese di abbracciarla e diceva che non era malata. Piangeva perché io scappavo e avevo paura della sua malattia. Ripeteva che non era malata e veniva verso di me a piccoli passi, esitando perché mi vedeva impaurito, spaventata dalla mia paura. Allungava le braccia mentre scappavo saltando da un quadrato all'altro, e piangeva sempre. Io non sapevo dove andare, e guardai verso il corridoio per vedere se potevo fuggire da quella parte. Allora mi accorsi che Teresa era lì sulla soglia e mi guardava. Stava in piedi e mi fissava, non si muoveva e non diceva nulla, ma mi osservava con grande attenzione, senza perdersi una mossa. All'improvviso corse verso la zia e l'abbracciò alla vita e per le gambe. Anche la zia la strinse tra le braccia, continuando a piangere. Anch'io stavo per piangere, ma non riuscivo a muovermi per il terrore e rimanevo da solo in mezzo alla stanza senza riuscire a fare nulla. Le osservavo e avrei voluto andare da loro, ma ormai mi pareva di non poterlo più fare.

  Quando arrivò la nonna mise una mano sulla spalla della zia e la riaccompagnò in camera. Teresa non voleva più staccarsi da lei e vidi nonna che la portava via. La zia piangendo diceva che non voleva morire, ma lo diceva piano, forse per non farsi sentire. Nonna le teneva la testa con una mano contro la sua spalla e la stringeva forte dicendole di stare tranquilla che sarebbe guarita. Teresa le si attaccava alla vestaglia e nonna per convincerla le disse che ora la zia doveva riposare, ma che più tardi le avrebbe permesso di tornare a trovarla. Quando entrarono in camera e la porta si richiuse scoppiai a piangere anch'io, per la paura e un dolore che non riuscivo a comprendere fino in fondo e per quelle parole che avevo sentito. Avevo capito che lei non voleva davvero morire e però mi ricordavo che una volta lo aveva detto, premendo il viso contro il cuscino, e quindi pensai che sarebbe morta per forza, perché lo aveva chiesto, ed era una cosa che non si doveva chiedere.

  Ieri sera però con Teresa non abbiamo parlato di questo. Non ne avevamo mai fatto parola prima e non abbiamo detto nulla nemmeno questa volta. Verso le due siamo andati a dormire. Lei si è spogliata con calma e non mi è parsa molto cambiata: le sue ginocchia erano le stesse, un po' rotonde, e il suo corpo sempre ben fatto. Si è messa la parte di sopra di un pigiama azzurro e si è infilata sotto le coperte con un movimento rapidissimo, come faceva sempre anche da bambina. Dalla finestra entrava la luce della strada e si poteva vedere l'alone giallo di un lampione sul muro della casa di fronte. Prima di addormentarci abbiamo parlato ancora un po', di cose senza importanza. Poi lei ha iniziato a respirare piano come quando si dorme, il viso rivolto dalla mia parte sopra il cuscino, e io mi sono sentito in pace, con la solita impressione di essere quasi felice che si faceva di nuovo sentire, come una minaccia, qualcosa che non si può trattenere perché passa troppo veloce. Fuori dalla finestra la strada era leggermente in salita e il palazzo illuminato aveva il colore del gelato alla crema.

   Stamani invece il mare era attraversato da una lunga scia bianca di barche a vela che partecipavano ad una regata, e aspettando il caffè sono rimasto affacciato a guardarle. La scia si allungava sull'acqua, le barche si distanziavano a poco a poco e non si capiva quale fosse esattamente la loro direzione. A Trieste la vela è una passione molto diffusa, e oggi era una bella giornata, con il sole ed un vento limpido di tramontana. Quando siamo usciti per fare una passeggiata sul lungomare le sagole delle barche ormeggiate nel porto sbattevano contro gli alberi. Teresa ha inarcato un braccio sopra la testa per tenere fermo il suo cappellino verde, poi si è aggiustata i capelli su un lato del viso. Abbiamo raggiunto la piazza principale e ci siamo seduti al tavolino del bar San Marco, con tanti specchi, dove mi ha offerto un cappuccino e una pasta. Ha riparlato di Andrea, che non aveva bisogno di essere sicuro di nulla per poter comunque decidere ogni volta, mentre forse ora lei aveva bisogno di essere sicura di qualcosa, anche se voleva vivere solo quanto bastava e domandava a tutti solo ciò che le potevano dare. Avrebbe voluto potergli offrire qualcosa di preciso, che incidesse sulla sua vita come una certezza nuova, ma poi Andrea era partito in un giorno di pioggia, prendendo pochi bagagli e lasciandole il resto delle sue cose.

   Verso sera si è preparata per andare a lavorare nella poca luce ch'entrava dalla finestra. La stanza profumava ancora di vernice fresca e il blu sembrava viola. Abbiamo mangiato un piatto di spaghetti e poi siamo andati a prendere la macchina, arrampicandoci per una stradina in salita. Vicino a un portone abbiamo incontrato il cagnolino grigio che poi ci ha seguito fin qui. Teresa si è fermata ad accarezzarlo e lui ci è venuto dietro, e non appena abbiamo raggiunto la macchina è saltato dentro, scodinzolando con decisione.

   Lungo la strada le luci dei lampioni gli illuminavano la faccia curiosa e lui ci guardava con l'espressione di chi non vuol essere abbandonato e non osa chiedere nulla. Quando siamo arrivati un gruppo jazz stava provando gli strumenti. Il cane ci ha seguiti all'interno e si è messo ad ispezionare il locale, annusando le gambe delle sedie e delle persone. Mi sono seduto a bere e ad ascoltare la musica. Teresa serviva ai tavoli e ogni tanto passava per fare una carezza al cane. Poi, quando sono arrivati, mi ha presentato dei suoi amici abbastanza simpatici, con i quali, dopo la chiusura del locale, siamo venuti qui. Abbiamo acceso il fuoco sui sassi bianchi e abbiamo continuato a bere le birre che ci eravamo portati. Ne ho fatta assaggiare un po' al cane grigio, che si è leccato i baffi e ha starnutito. Poi è tornato sul bagnasciuga e ha rincominciato a guaire, indietreggiando di fronte alle onde che gli bagnavano le zampe.

  La vela passa ancora davanti, a volte si allontana un po' troppo e scompare, ma poi torna più vicina. Ora non li sento più ridere. Sono quasi fermi. La vela mi pare che sbatta controvento. Il cane tiene gli occhi fissi verso la barca. Non credo che possa vederla, ma guarda nella direzione giusta. Ogni tanto si sposta sulla spiaggia e viene da me per controllare cosa faccio. Allora gli offro un altro sorso di birra, che lui accetta per gentilezza. Cerca di nuovo la mia mano con la testa e quindi ritorna sulla battigia più sicuro, scodinzolando di nuovo e abbaiando alle onde.

  Un amico di Teresa si è messo a suonare la chitarra, ma nessuno ha voglia di cantare. Abbiamo smesso anche di parlare, a parte due ragazze che continuano a farlo a voce più bassa. Incomincia a far freddo, perché in fondo è ancora primavera. La farfalla di prima passa vicino al fuoco insieme ad un'altra, gli girano intorno. Poi scompaiono dentro la fiamma facendo solo un piccolo rumore. Un ragazzo è andato a cercare dell'altra legna e delle farfalle non c'è più traccia. La brace mi scalda il viso e risento la voce di Teresa, una delle sue tante mostruose, ognuna diversa, e poi la sua risata che arriva dal mare. Il cane riprende ad abbaiare; poi si azzittisce perplesso, senza poter riconoscerne il suono, e quindi abbaia di nuovo più forte di prima, riprende a guaire, alternando lamenti diversi, messaggi e domande contrastanti. La risata di Teresa ritorna anch'essa più intensa, dopo ogni nuovo verso che le sale dal ventre e dal petto. Nel buio si può vedere la vela che sbatte, ma al posto della barca e dei loro corpi si scorge solo un'ombra più scura che si muove appena nello spazio lasciato vuoto dalla voce. Le piccole onde cadono sulla sabbia con un suono lieve, senza un ritmo preciso. Ora il cane grigio mi è venuto vicino e sta fermo accanto al fuoco, senza abbaiare più. Lo guarda scoppiettare e poi si volge di nuovo verso il buio dell'acqua lontana, con le orecchie dritte e la bocca serrata, ad aspettare che torni, reso inquieto da quelle voci diverse che non riconosce. Quando un'altra risata taglia l'aria sobbalza quasi dall'emozione. Poi, come se puntasse una preda sconosciuta, tende il corpo in avanti e smette di muovere la coda, fissando il mare con un'espressione seria di sfida.