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Digressione sulle gabbie
Dai labirinti alle discoteche, dal Grande fratello al Web
Caverne o labirinti, nuclei familiari o case di reclusione, le gabbie sono comunque, in qualsiasi loro interpretazione estensiva, luoghi in cui si producono quasi sempre angoscia e sofferenza. Kierkegaard ci propone l’immagine inquietante di una caverna in cui tutti buchi sono soltanto entrate, senza essere allo stesso tempo delle uscite, e Borges descrive uno dei suoi labirinti come il luogo da cui “non ci sarà sortita. Tu sei dentro / e la fortezza è pari all’universo / dove non è diritto né rovescio / né muro esterno né segreto centro”. Nelle famiglie si consuma un’elevata percentuale di delitti e violenze e le carceri danno l’impressione di alimentare ulteriormente il disagio e l’illegalità che vorrebbero ridurre.
In alcuni casi, tuttavia, le gabbie possono anche fornire un’opportunità di raccoglimento particolarmente ambigua, ma almeno in parte propizia e feconda. Van Gogh scrisse in una lettera che voleva starsene nella sua gabbia, in cui non gli mancava nulla di quanto avesse bisogno, e Bartleby, lo scrivano di Melville, preferiva non uscire nel vivo del mondo, perché il suo personale in qualche modo gli pareva integro e compiuto. Si può ritenere che Kafka in fondo non abbia parlato che di gabbie e quanto vi ha saputo scorgere non è parso ai suoi lettori privo di rilievo, mentre Leopardi, da ragazzino, avrebbe voluto uscire dalla sua, da quella che definì – in una favola in settenari scritta all’età di dodici anni – una “gabbia dipinta”, senza tuttavia riuscire a non riprodurne le sbarre dovunque ebbe in seguito occasione di soggiornare.
In ogni caso, la gabbia sembra costituire una dimensione della modernità, forse per questa sua capacità di simulare un microcosmo e di costringerci a contemplare la siepe che esclude l’ultimo sguardo. Sebbene infatti si possano ingabbiare le rose e i leoni, varie specie di uccelli e roditori, e sebbene si possano ingabbiare e diffusamente s’ingabbino gli esseri umani, ciò che differenzia questi ultimi da cose e animali non è la loro virtuale sorte di reclusi, quanto piuttosto il fatto che gli uomini possono volersi ingabbiare da soli, per una libera e autonoma scelta, quasi per l’agnizione di un fato.
In tempi recenti, le disposizioni di spirito che possono indurre a tale scelta sono generalmente accompagnate dalla passione d’essere visti dentro una gabbia. Questa pare infatti godere anche della peculiare caratteristica di attrarre l’attenzione di un pubblico, e il pubblico, come osservò una volta Valerio Magrelli, sembra essere, nell’epoca dello spettacolo globalizzato, quel “fantasma omnicomprensivo” e quella “mostruosa astrazione” che meglio di qualsiasi altra è in grado di ridurre ogni cosa a uno stesso livello, di omologare i gusti degli individui e di sigillarli entro riferimenti esigui e facilmente riproducibili.
Quelle opere di super-esposizione televisiva che sono “Il grande fratello” o “L’isola dei famosi” testimoniano dell’interesse crescente per le situazioni d’ingabbiamento, quasi che soltanto in consimili circostanze potesse emergere la dimensione più autentica dei personaggi in gioco. Forse proprio a causa dell’effetto agorafobico che l’era della globalizzazione riesce a produrre, l’attenzione del pubblico sembra attratta dai microcosmi artificiali entro cui ogni soggetto può scoprirsi recluso.
Anche il web, questo spazio virtuale all’apparenza così libero, in cui ogni comunicazione è rapidamente possibile, comporterà forse, tra non molto, l’impellenza di un suo controllo severo, per le escrescenze abnormi che lo popolano in modo incontrollato. Ma forse, quest’inquietante scenario repressivo non si rivelerà necessario. Non è infatti improbabile che si stia mettendo a punto la gabbia più sofisticata mai concepita, perché completamente invisibile: quella in cui regnerà la smania d’una libertà dirompente, parossistica e sorda a ogni impulso del pensiero e alla vita stessa dello spirito, e dunque capace di produrre uno stordimento vago, prolungato e indefinito. Allora, quel poco che resterà proibito costituirà il luogo ultimo dove i desideri degli esseri umani vorranno dirigersi. Nella libertà più totale si vorrà fare solo ciò che sarà vietato desiderare, fino a quando gli stessi desideri non risulteranno perfettamente incanalati verso oggetti utopici o regressivi, e poi, così ben ingabbiati, non si accingeranno ad esser felici di esserlo stati.
D’altra parte, però, la gabbia costituisce una metafora troppo potente e divergente per essere ingabbiata: così come può assumere le sembianze di una libertà indefinita e sinistra, può essere una vela - e per la precisione la seconda dal basso, posta al di sopra della vela maggiore di ogni albero, nei velieri a vele quadre – e dunque raccogliere il vento, arginare e usare forze altrimenti destinate a disperdersi invano.
Raccogliere il vento che siamo, fino a trasformarne la forza e la direzione, di provenienza ignota, in qualcosa che assomigli a una scelta. Che non sia proprio quest’ultimo l’effetto propizio che può avere ogni gabbia anche ben più consueta, come quelle che sappiamo così bene costruirci intorno da soli, con tutta la pazienza di cui sono dotati i ragni con le loro tele, o i costruttori di natanti in miniatura? Non è per esercitarci a trovare un’uscita che siamo inclini a imprigionarci con le nostre mani e i nostri stessi pensieri? Non è per l’illusione, da un tale esercizio nutrita, di una possibile e definitiva liberazione dall’invisibile gabbia in cui fummo allocati da un destino arcano?
E poi c’è il gusto sadico e folle d’imprigionare altri che, come noi, non hanno scelto questo destino, forse per avere sempre davanti agli occhi lo specchio che ci rivela dove ci troviamo. Non potrebbe essere questo l’effetto simbolico evocato anche da tante gabbie presenti e reali, ma in grado di contenere per davvero e in eterno frenetici roditori e volatili cinguettanti?
A proposito di volatili, Rabindranat Tagore racconta in una poesia di un uccellino che non può rinunciare al cielo e di un altro, chiuso in gabbia, che non ha ormai ali abbastanza forti per volare. Il primo chiede al secondo di uscire con lui all’aperto, il secondo implora il primo di venire a vivere con lui nella gabbia; ma il primo la teme, così come il secondo teme di non trovare altrove un luogo dove potersi appollaiare. Che vi sia sempre, o almeno spesso, in ogni coppia questa tendenza divergente? Ed essa può essere imputata al primo, che non sa rinunciare a librarsi nell’aria, o al secondo, che rimanendo chiuso all’interno può servirsi del suo disagio per coltivare al meglio il piacere della meditazione?
Entrambi riescono comunque a sottrarsi agli effetti nefasti di un altro tipo di gabbia, e per la precisione di quella in cui l’amore e l’odio possono consumarsi insieme fino a coincidere, di quello spazio angusto dove ogni rapporto può divenire propenso a sigillarsi per indursi ad esplodere, per raggiungere quella liberazione definitiva da ogni legame che può realizzarsi – come nelle migliori tradizioni letterarie e in alcune storie cinematografiche – solo con la morte reciproca degli amanti.
Che le gabbie abbiano a che fare con l’eterna diatriba che cementa l’amore con la morte può trovare un’ulteriore conferma nel fatto che di una “gabbia d’oro” si è parlato anche per illustrare la sindrome anoressica: un nutrimento che è venuto a mancare sotto il profilo psicologico e spirituale - sostituito in genere, da parte dei genitori, con un’attenzione pronunciata e sistematica per tutto ciò che può garantire efficienza e prestanza, sia intellettuale sia fisica - viene punito dall’anoressico con una clausura nutrizionale che mira a spazzare via l’equivoco sorto intorno alla sua domanda d’amore e a espiarne la colpa polifonica che l’accompagna. Nella sua gabbia esclusiva l’uccellino dall’anima intirizzita si nutre appena di quanto basta per continuare a intravedere il riflesso di luce che filtra dalle sue sbarre, quella stessa luce affettiva e dorata che nella sua storia non è mai giunta a destinazione e che potrebbe alla lunga non bastare per permettergli di continuare a vivere.
Il desiderio di essere in gabbia sembra quindi voler sperimentare dei limiti ravvicinati e ineludibili per alleviare l’effetto-gabbia che il “reale” ha su di noi nel suo formato naturale, là dove tali limiti si fanno sentire solo come i riflessi insondabili delle sbarre conficcateci tutt’intorno da un padrone ignoto. In questo senso, tale desiderio pare soddisfare e voler così esorcizzare la vertigine in cui si può sempre precipitare: quella d’essere presi in una gabbia invisibile e senza nome.
Qualche anno fa David Blaine, un illusionista americano, a Londra, tra Tower Bridge e il municipio di Lord Forster, è rimasto sospeso a dieci metri da terra, senza cibo, per quarantaquattro giorni. Quando è stato liberato dalla sua gabbia di vetro ha detto di aver imparato, grazie a questa esperienza, “ad apprezzare le cose piccole della vita”. Durante la sua permanenza nella sua scatola trasparente non si è mai lavato e ha fatto i suoi bisogni in un tubo, limitandosi a bere l’acqua che gli veniva fornita mediante un altro tubo. Pare che un giorno una ragazzina con i capelli viola, dopo averlo osservato per un po’, rivolgendosi a un’amica abbia gridato: “guarda, fa la pipì!”. L’esclamazione deve aver prodotto un effetto dissacrante se è vero, come sembra, che subito dopo buona parte degli astanti ha iniziato a lanciargli insulti, e poi uova e limoni. Un tizio pare che si sia messo a scagliargli contro delle palle da golf con l’apposita mazza nel tentativo di rompere l’involucro in cui stava appeso, altre ragazze si sono messe a provocarlo mostrandoli il seno e qualche uomo si è calato i pantaloni per mostrargli il sedere. Una nuova edizione del “Grande fratello”, questa volta monotematica, era andata in diretta dal vivo: la gabbia trasparente aveva ancora una volta fatto spettacolo e alla fine era stata sacrificata con il suo prigioniero, come in un qualsiasi rituale scaramantico. Dopo averla imbrattata con tuorli e vernici, i passanti prima ammirati e poi inferociti hanno ripreso tranquilli il cammino, quasi che la loro propria gabbia non fosse più da temere.
Per fortuna, qualche tempo dopo un’altra moda ha fatto breccia dalle nostre parti, proveniente dalle discoteche di Los Angeles e Santa Monica: quella di ballare con le cubiste chiusi nelle loro stesse gabbie. Gli effetti erotizzanti di tali strutture sono del resto noti da tempo e probabilmente, fra tutte le situazioni ad esse associabili, queste sono quelle che dovrebbero essere più prontamente assecondate, così da evidenziare meglio, oltre che la condizione contemplativa e sognatrice di ogni suo prigioniero virtuale, anche una certa sua intraprendenza non del tutto assopita, nonché la disposizione al volo o alla danza che potrebbe animare ancora la sua attesa di una libertà indefinita.