Della stessa stoffa dei sogni

  Riprendendo una tradizione millenaria, Rabelais sostiene che la nostra anima, quando sogna, s’innalza alla sua vera patria, che è il cielo. Ne L’interpretazione dei sogni, che oggi è forse il libro più famoso e letto su quest’argomento, Freud avanza invece l’ipotesi che i sogni siano realizzazioni di desideri, e quasi sempre di desideri sessuali. Borges pare decisamente più incline a dare più credito alla prospettiva teorica suggerita dal primo che non a quella proposta dal secondo, tant’è che, nell’antologia di brani letterari e filosofici raccolti in questo Libro di sogni, Freud non viene nemmeno nominato.

   Per Borges i sogni sono “spiegazioni” di stati d’animo che si sono provati durante la veglia e che ci hanno colpito in modo particolare o ricorrente. Nel sostenere questa teoria fa riferimento a quanto già sostenuto da Coleridge,  secondo il quale “le immagini della veglia ispirano i sentimenti, mentre durante il sonno sono i sentimenti a ispirare le immagini[…]. Se una tigre entrasse in questa stanza – scrive Borges a titolo esemplificativo – avremmo paura; se abbiamo paura nel sonno, generiamo una tigre. Sarebbe questa la ragione visionaria della nostra inquietudine. Dico una tigre, ma dal momento che la paura prelude all’apparizione improvvisa della tigre, per dare senso a quell’orrore possiamo proiettarlo su una figura qualsiasi, che durante la veglia non è necessariamente orrenda. Un busto di marmo, una cantina, l’altra faccia di una moneta, uno specchio. Non c’è forma nell’universo che non possa contaminarsi di orrore. Di qui, forse, il particolare sapore dell’incubo, che è molto diverso dallo spavento e dagli spaventi che è capace d’infliggerci la realtà”(pp. 20-21).

 

   Riprendendo ancora Coleridge, Borges precisa che nei sogni “le immagini rappresentano le sensazioni che crediamo esse provochino; non sentiamo orrore perché ci opprime una sfinge, sogniamo una sfinge per spiegare l’orrore che sentiamo” (p. 243). In effetti, non è inverosimile supporre che per riprodurre una qualche impressione orribile provata durante la veglia, per ritrovarne la genesi e l’origine, così da poter magari adottare le adeguate contromisure, nel sogno si costruiscano storie e sequenze d’immagini e circostanze che siano in grado di ricreare quello stato d’animo e sondarne i possibili sviluppi. In questo senso, l’anima si risveglierebbe dal troppo compresso stato d’attenzione che caratterizza la vita diurna per risalire più liberamente verso l’origine dei suoi stati d’animo dominanti, per ricostruirne la dinamica e perlustrarne le possibili variazioni e conseguenze.

   Joseph Addison fa notare che nei sogni si assiste ad una sorta di risveglio dell’anima. Sulla scia di Platone e di Plotino, sostiene che l’unione di questa col corpo pare allentarsi ed essa sembra acquisire una maggiore libertà. Se ne potrebbe desumere che, grazie all’esercizio di questa libertà e come in una sorta di reminiscenza platonica, sia possibile tornare a percepire la consistenza della nostra stoffa originaria, che come Shakespeare aveva suggerito ne La tempesta è la stessa dei sogni.

   Se la vita fosse una specie di sonno, secondo un personaggio di Musset l’amore ne costituirebbe il sogno, e se la vita fosse direttamente un sogno, come felicemente ipotizzò Calderón de la Barca, allora si potrebbe comprendere perché nei sogni che animano il sonno si cerchi con tanta inerziale naturalezza di decifrare il senso degli stati d’animo che attraversano la più cospicua parte di quel grande sogno che è la vita, ovvero della parte vigile e diurna. Durante il sonno avrebbe luogo, in pratica, una sorta di commentario alla vita diurna e cosciente, in cui si cercherebbe d’integrarne il senso ricostruendone gli stati d’animo più significativi e ricorsivi nel tentativo di tracciare i moventi e gli scenari che potrebbero averli originati e che potrebbero determinarne ancora l’avvento in futuro.

   Del resto, il fatto che sogno e veglia possano scambiarsi sino a rendere plausibile l’interrogativo che si pose Chuang Tzu pare attestare la consistenza di quest’ipotesi, in modi diversi suggerita tanto da Shakespeare che da Calderón de la Barca e poi ripresa e sviluppata da Coleridge e da Borges.

   Com’è noto, il grande maestro taoista Chuang Tzu sognò “di essere una farfalla e al risveglio non sapeva se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che aveva sognato di essere un uomo” (p. 214). Jung, nella sua autobiografia, narra un sogno impressionante che attesta la possibilità della medesima confusione, derivandone però una conseguenza più inquietante: “si trovava di fronte a una casa di preghiera, quando notò, seduto per terra nella posizione del loto, uno yogin immerso in profonda meditazione. Gli si avvicinò e vide che aveva il suo volto. In preda al terrore scappò via. Una volta sveglio pensò: <<È lui quello che medita; ha sognato e io sono il suo sogno. Quando si sveglierà, non esisterò più” (p. 235).

 

 

J. L. Borges, Libro di sogni, trad. it. Adelphi, Milano, 2015.