Una casa nuova e antica, per la poesia

  

   Difficile dire perché dei versi siano poesia. Difficile oggi forse più che mai prima, per il proliferare di gusti e scritture, di gesti artistici d’ogni tipo supportati da letture critiche lusinghiere verso un diffuso concettualismo o uno sperimentalismo enfatico. Difficile, se non impossibile, spiegare oggi perché una raccolta poetica possa stagliarsi sullo sfondo delle opinioni facili di questi tempi, in questo scorcio malato d’inizio millennio. L’unica possibilità residua è forse aggiungerne una alla lunga lista, una non meno approssimativa e incerta di ogni altra, che in null’altro ricerchi un fondamento se non nel lasciar risuonare i versi, nell’affabularli per un minuto o due sperando che tocchino l’anima di qualche impenitente lettore di poesia. Nonostante tutto, c’è infatti chi ha ancora il gusto di cercare, in questa forma d’arte letteraria, tracce di vita in grado di far senso, di produrre la luce e l’orizzonte più propri in cui poter riconoscere il proprio sguardo.

   L’autore della silloge di poesia di cui ci apprestiamo a parlare è Bonifazio Mattei: un insegnante di lettere in un liceo classico romano, dantista per vocazione ed elezione. In qualità di dantista era solito tenere nelle sere d’estate, almeno fino a qualche tempo fa, delle letture/conferenze a Leonessa, nel reatino, aperte a tutta la cittadinanza interessata.

   Nelle sue poesie si sentono gli echi degli autori a lui più cari: da Giacomo Leopardi a Giovanni Pascoli, da Camillo Sbarbaro a Giorgio Caproni, fino a Jorge Luis Borges o a Eugenio Montale, a Sandro Penna e a Umberto Saba. Dopo alcune poesie apparse in Erba d’Arno e in Poeti e poesia, con L’ultima casa, fa il suo esordio con una silloge nel panorama poetico italiano.

 

   Quando si scrive di poesia nel senso più legittimo e pieno di questa parola si può avere l’impressione di scoprirsi un po’ come un elefante in un negozio di porcellane: basta un goffo movimento della zampa o del naso, e il danno è assicurato. Anche per questo, verrebbe voglia d’annegare subito i propri pensieri nei versi che si vorrebbero presentare in modo dignitoso, facendo attenzione a non incrinare il loro delicato equilibrio, a non deformare i paesaggi dell’anima che sanno con pochi tocchi, come in una antica pittura zen, disegnare con semplicità e maestria.  

Quella di Mattei è una poesia fatta d’immagini, specchi dell’attitudine della vita a condensarsi in pochi istanti e a riverberarsi nella propria scia, nel proprio specifico vento, per trasfigurarlo poi in una brezza leggera di parole:

“Intorno sul tardi/si svuotano le strade/e i giovani amanti/ritornano in moto//hanno ancora/nei panni un odore/di paglia e di prato,/sul viso sfebbrato/un lieve madore/di luna” (da Sere di festa).

Ma è anche una poesia di ravvicinati contrasti, di ossimori piani, in un’alternanza che si fa melodia involontariamente per il ripetersi di silenziose note:

“Sei una festa che finisce,/mia anima,/che intera riappari/nel tuo non stare./Per sempre prossima/alla fine,/dove tacciono le strade/della festa/e tutto è vuoto e silenzio,/tutto resta a guardarci,/come se fossimo noi/quelli rimasti,/ come se fossimo noi/l’ultima scena” (da I finestroni).

Così, in questi versi festa si contrappone a finisce, per il desiderio implicito di durare che la prima coltiva; riappari a non stare, dato che quanto riappare tende a superare l’essere scomparsi ch’è implicito nel non stare; prossima a fine, perché quel che finisce in apparenza si allontana; tacciono di nuovo a festa, ch’è in genere sonora o rumorosa; mentre vuoto e silenzio si saldano infine a resta, per la loro riconciliazione nella quiete finale, che si prolunga all’unisono con rimasti nell’ultima scena.

   Ma si tratta di poesie attraversate più in generale anche da alti orizzonti, da panorami ampi che s’intrecciano con scorci più angusti, in cui la vita appare, come Ortega y Gasset amava sostenere, fracaso, fallimento, o meglio assenza di successo o di vittoria, come se avesse in sé, quale suo fine d’elezione, un disarmo del cuore, una resa felice.

“E vado di vita in vita/seguendo nuvole//immense come navi/che tornano nel porto/ senza vittoria” (da Accarezzo i monti).

Si va via, di vita in vita, per riemergere sempre, perché ciò che in fondo esiste è solo questa perenne oscillazione tra gli opposti, essere e nulla, pienezza di vita e sottrazione di consistenza al proprio essere, fino a restare inermi a far compagnia al prossimo che siamo per noi stessi, suoi ravvicinati spettatori in attesa che una specie di perdono si depositi, dopo un lungo silenzioso volo, sul nostro sguardo.

“Riemergo all’alba/in questa solitudine/di primi gabbiani//e resto a guardare/il mare/ad attendere non so/quale perdono” (da Il pontile è voce).

Di un simile perdono si potrebbe avvertire il bisogno per l’inconscia colpa di non essere: forse è proprio l’agnizione di una simile colpa a suggerirne la domanda. Se potrà essere un dio ad elargirlo, questo perdono già evocato in una delle poesie più belle di Fernando Pessoa (Ho pena delle stelle), non possiamo saperlo; ma se mai fosse, non potrà che essere un dio senza morte, equanime e bianco come la neve, un dio capace di rischiarare una notte infinita come il nulla che avvolge la vita e di raccoglierci in un misterioso abbraccio.

“Vieni,/dio bianco e triste,/lume nero nel gange/della notte infinita,/splendi opaco,/posati senza morte/amaci nel nulla,/senza riguardo” (da Faro cieco). Un dio che come un fiume ci scivoli accanto, che ci accompagni per mano attraversando con noi come in sogno “prati lucenti” con “passi felici”. In esso sarà allora possibile scoprirsi finalmente come “un inservibile frutto/della vita”, con “accanto forse un fiore,/una mosca che si posa,/una matita.

Ci corre a questo punto l’obbligo di non trascurare però il fatto che Bonifazio Mattei è anche un poeta romano, e che porta, come ogni romano, la sua città a modo suo nel cuore:

“Questa città nel cuore/ti rimane/come un reato immenso,/le strade ancora accese/e i fanali incerti./Così lento è il cammino//e senza morte il cielo./ Tu sei l’uomo che adesso/sorride./La tua vita si cancella/a ogni passo” (da Questa città nel cuore).

Per le strade di questa città eterna così come di ogni altra, per le strade della vita, quanto è familiare gioca con l’estraneo, si nasconde e riappare come in un inseguimento infantile, in cui strazi e solitudini imprevedibili si sorprendono a vicenda nei loro nascondigli, raccontandosi poi storie quotidiane.

 “Lasciami la strada che ora svolta/e il gatto schiacciato sull’asfalto,/lasciami il sole che cade nei cortili/tra i sassi e le foglie che non sanno/se si rimane o muore.//Lasciami la morte e il silenziatore/gli avanzi degli sposi felici/lasciami gli alberi che sfilano lontani/come militi al sole che riscalda/già il calmo disarmo del cuore” (da La vita che non somiglia).

Alla fine di questo accorato tragitto in cui ci si è presi cura del nulla come di una segreta compagnia del cuore, nel culmine della fine simbolica di una vita qualsiasi, rimane una luce antica che ci abita e “in ogni istante attende/in pace e in guerra//che tutto accada invano,/un poco alla volta, in un preciso/ modo qualunque/ (da Pietrafiore).

Quanto in noi si rinnova è per ritrovarsi accanto a quel ch’è stato. Increduli e muti, trasfigurati nel proprio stupore antico, sorpresi in una sorta di nuova confidenza con se stessi, i poeti si consegnano all’alone di luce di ogni loro verso, che non è mai solo loro. Nel modo più semplice, senza che si possa intravedere qualche sforzo, come nei classici di ogni continente, greci, latini o cinesi, senza esacerbazioni romantiche o compiacimenti intellettualistici, ogni poesia di Bonifazio Mattei scorre placidamente verso la sua foce, verso l’esito tracciato dal suo orizzonte implicito, nel riverbero segreto dell’anima che in pochi distesi istanti s’è dischiusa.

 

 

Bonifazio Mattei, L’ultima casa, Edizioni Ensemble, 2019.