In ritardo con la vita. In ricordo di Pia Pera

      Pia Pera ci ha lasciati quattro anni fa, pochi mesi dopo aver ultimato un romanzo di congedo dalla vita. Il genere non è noto, al contrario del romanzo d’apprendistato, ma di quest’ultima tipologia, in un certo senso, Al giardino ancora non l’ho detto costituisce una variante, dato che di quell’apprendistato qui si narra il momento decisivo e finale, il gesto di saluto doloroso e rasserenato che riesce a tesserne in qualche modo le fila.

     Pia Pera è stata una scrittrice, un’appassionata narratrice di orti e giardini, e una slavista. Nel ricordarne oggi l’anniversario della morte, avvenuta il 26 Luglio 2016, all’età di sessant’anni, in seguito alla Sla, vorremmo soffermarci proprio su quest’aspetto della sua produzione letteraria, e in particolare su di una sua splendida traduzione e cura dell’Evgenij Onegin di Aleksandr Puškin. 

    Nella sua traduzione Pia Pera accetta la sfida, decisamente ardua, di conservare i quattordici versi della strofa puškiniana, rinunciando tuttavia a riprodurne la complessa struttura metrica. L’adozione di versi liberi tende a conciliare la maggiore autonomia nella ricerca di una resa letterale con un ascolto interiore più aperto, conciliazione da cui la traduttrice e curatrice dell’opera si augura trapeli “qualcosa di quel ritmo e di quell’intonazione che, per chi possa apprezzarlo in russo, costituiscono il fascino maggiore del romanzo in versi di Puškin”.

     Evgenij Onegin è un eroe che ha fretta; “è nel suo destino: perché tanta impazienza fa sì che Onegin arrivi tardi. Questo motivo - scrive Pia Pera nella sua introduzione – percorre l’intero romanzo”, toccando “il nucleo più profondo della riflessione storica di Puškin”, che nei capitoli finali riflette su “quanto sia triste non arrivare puntuali agli appuntamenti canonici della vita, scorgere nel proprio passato null’altro che una sfilza insensata di occasioni mondane: che è il destino di Onegin, ma anche, in senso lato, del suo paese, di una Russia che nelle convulsioni della modernizzazione ha finito con l’adottarne le cerimonie, ma non la sostanza”. 

    Naturalmente, Onegin ha fretta come molti giovani di tante epoche diverse, ha fretta come chi vuol bere la vita in un eterno presente e per questo non può attardarsi a progettare o costruire un futuro, a immaginare prospettive, rapporti d’amore nel tempo, a costruire pazientemente senso. Sotto questo profilo, l’eroe puškiniano vive in quella che Søren Kierkegaard avrebbe definito come dimensione “estetica”, e cioè una dimensione in cui non è mai stata scorta un’alternativa tra bene e male e in cui è assente ogni progettualità. Per questo, utilizzando di nuovo le parole di Pia Pera, “il destino di Onegin è non arrivare mai in tempo a provare i propri sentimenti; in altre parole: non arrivare mai ad averne”. Nel senso che ci riuscirà solo quando Tatiana avrà già dato la sua parola a un altro, a un uomo che rispetta, ma non ama. Vivendo in due tempi e in due dimensioni diverse, Onegin e Tatiana non potranno sentire e conoscere pienamente ciò che provano l’uno per l’altra.

    La “vita estetica”, come Kierkegaard la intende, ha proprio questo in comune con l’arte: rischia di diventare “uno strumento di morte qualora le venga attribuito un valore superiore a quello della stessa vita dell’artista e della sua libertà di uomo”. E tuttavia lo scivolare in una simile dimensione è tipico di una fase dell’esistenza, quando essa sembra poter consistere in una serie infinita di attimi assoluti, quando una certa noia di fondo, uno spleen diffuso e seducente, spinge affinché questi attimi possano essere rinnovati e riprodotti perpetuamente nella loro frammentaria purezza. Nell’illusione che, come avviene nella natura, ogni istante sia destinato a tornare, che esistano dei cicli come le stagioni anche nella vita, che da qualche parte debba spuntare sempre una nuova primavera dei sensi e del cuore, ci si lascia vivere con leggerezza e incoscienza, come per un eccesso di confidenza col proprio destino.

    Puškin iniziò a scrivere l’Onegin il 9 maggio 1823 a Kišinev per finirlo 7 anni, 4 mesi e 17 giorni dopo, il 5 ottobre del 1831, a Odessa. Sono le due città del suo esilio meridionale, dove sono ancora aperti due piccoli musei a lui dedicati. Da lì immaginò per il suo eroe una vita mondana e ricca di avventure galanti come quella che conduceva lui a Pietroburgo. L’effetto fu quello di consentire anche a lui una vita solo immaginaria, in cui fu impossibile acquisire una qualche stabile consistenza, e in cui gli stessi accadimenti sono in realtà accadimenti mancati.

    Come ebbe a osservare Jurij Michajlovič Lotman, “l’intreccio del romanzo è costituito da eventi che non si verificano”: Onegin vive immerso in reminiscenze letterarie e legge la sua vita prossima futura alla luce di queste. Ma “come spesso succede nella vita reale – chiosa Pia Pera - le aspettative suscitate dalle reminiscenze letterarie vanno deluse. Non diversamente dai loro lettori, i personaggi dell’Onegin si credono simili a personaggi letterari, e non prevedono di restare privi del privilegio che al tempo di Puškin si era soliti accordare ai personaggi dei romanzi: il soddisfacimento delle aspettative inscritte nel testo. Col risultato di <<non trasformare la vita in testo, bensì un testo in vita>>, una vita in cui può anche non succedere nulla di quanto si era desiderato”. L’apprendistato può così chiudersi, nella fase finale di ogni esistenza, con un disincanto che si scopre per altro verso a suo modo incantato e che può essere per alcuni fonte di una luce nuova e diversa, di una nuova e più tersa nostalgia della vita, che senza nulla chiederle ancora può rimanere a lungo celata tra l’erba, sospesa nel verde e tra molti altri colori nei pressi di un orto o un giardino.