Il riccio e la volpe davanti ai busti del Pantheon

 


  Gli intrecci e la struttura polifonica dei romanzi del secolo XIX sono sempre più rari e chi adotta ancora oggi tali approcci narrativi riesce a farlo solo al prezzo di riferirsi a contesti familiari o sociali decisamente più angusti rispetto a quelli di allora, e soprattutto difficilmente si azzarda a sfiorare le problematiche di largo respiro che permeavano le vite di quei personaggi.
  

 

   Oltre alla difficoltà da parte dell'"Io" novecentesco - già preannunciata da Nietzsche - di lasciarsi alle spalle la propria dimensione frammentaria e di misurarsi con ricostruzioni chiare e oggettive, la letteratura contemporanea pare infatti anche restia a cimentarsi con temi e problemi di carattere filosofico o morale. Dopo gli Ivan Karamazov, i Kirillov, i Bazarov o, avvicinandoci a noi, il Settembrini della "Montagna incantata" oppure l'Ulrich di Musil, i protagonisti di pur buoni romanzi del nostro secolo sembrano muoversi in orizzonti più limitati, concedono poco spazio alla riflessione, sembra che ne abbiano perso il gusto, e si trovano per lo più alle prese con problemi quotidiani, siano essi di origine psicologica o sociale.
   Allo stesso modo il narratore, anche quando non si lasci prendere nel vortice delle azioni e dei pensieri dei suoi personaggi e cerchi di raccontare come un discreto testimone immaginario le loro vicende, a volte sembra che non osi affrontare certi temi, quasi li avesse preliminarmente espunti dai risvolti della loro vita interiore. Forse ha paura di dare corpo a quei "busti del Pantheon" di cui parlava Claudio Magris qualche anno fa ("Corriere della Sera" del 12-01-98), e tale paura non risulta infondata, in quanto oggi rischia di suonare falso il tono di qualsiasi narratore che supponga di sapere cosa passi davvero per la testa dei suoi personaggi e si arroghi il diritto di commentare, o addirittura valutare, le loro scelte morali e culturali.
   Ma se certe soluzioni, come quella di un narratore assoluto omnisciente, si rivelano sempre più incerte e insidiose, bisogna forse dedurne che quelle problematiche morali - che costituivano parte integrante della vita di molti grandi personaggi del secolo scorso - siano ormai intrattabili e ingestibili?
   Ne Il riccio e la volpe, Isaiah Berlin ricorda come a tutti gli scrittori Tolstoj chiedesse sostanzialmente tre cose: una dose sufficiente di talento; che il tema fosse moralmente importante; e infine che amassero ciò che era degno di amore e odiassero ciò che era degno di odio mentre erano intenti al loro lavoro, ovvero che "s'impegnassero" a conservare la nitida visione diretta dell'infanzia e non distorcessero la loro natura proponendosi di praticare un'imparzialità che era necessariamente illusoria.
   Se riguardo al primo punto nulla pare cambiato, essendo il "talento" un termine con il quale siamo soliti designare quanto in campo artistico non è desumibile da altre qualità (e ciò, nonostante l'uso molto parziale e soggettivo che possiamo farne, se è vero che sempre Tolstoj, per esempio, trovava Dostoevskij privo di talento, in quanto prolisso e ripetitivo) il secondo ed il terzo aspetto oggi sono considerati trascurabili e poco pertinenti. Dopo gli ultimi grandi romanzi di Musil, di Proust e Thomas Mann - dove, sebbene in modi diversi, certe tematiche svolgono comunque ruoli essenziali - mi pare che gli elementi cui fa riferimento Tolstoj costituiscano canoni piuttosto improbabili, che solo dando prova di un certo coraggio si possono riproporre quali riferimenti credibili per i romanzi futuri.

                               Isaiah Berlin
                              "Il riccio e la volpe";
                              Adelphi editore.