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Non c'è nulla d'estraneo e tutto è uguale nella società della stanchezza
La nostra è una civiltà della stanchezza. È quanto risulta dalla lettura di un saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han, docente alla Unibesität der Künste di Berlino e già autore, oltre che de La società della stanchezza (Nottetempo editore), di diversi altri saggi capaci di far riflettere su temi attuali in maniera poco convenzionale.
Secondo Byung-Chul Han il millennio da poco iniziato “non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) 2, il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività. Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere la negatività dell’Estraneo”.
L’Estraneo e l’Eguale sono due categorie fondamentali per comprendere l’evoluzione della società in cui viviamo, così come la nozione di reazione immunitaria, che consente di declinare la relazione tra queste due nozioni estreme e contrapposte. Secondo l’autore “ogni reazione immunitaria è una reazione all’alterità. Oggi, invece, al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria. La differenza post - immunologica, anzi post - moderna, non è più causa di malattia. Dal punto di vista immunologico essa è l’Eguale (das Gleiche). Alla differenza manca, per così dire, il pungolo dell’estraneità che provocherebbe una violenta reazione immunitaria. Anche l’estraneità si stempera in una forma di consumo. L’estraneo cede il passo all’esotico, visitato dal turista”.
Fin dal titolo di questo saggio si comprende come quella che l’autore chiama “l’autoaffermazione immunologica del Proprio” sia una sorta di “negazione della negazione” in quanto il Proprio si afferma nell’Altro negandone la negatività. In questo senso, anche “la profilassi immunologica, ossia la vaccinazione, segue la dialettica della negatività. Nel Proprio vengono introdotti solo dei frammenti dell’Altro, così da provocare la reazione immunitaria”.
Ora, secondo Byung-Chul Han la nostra civiltà è caratterizzata dalla scomparsa di una relazione proficua con l’alterità e dal vivere in un tempo povero di negatività. Anche le malattie neuronali del XXI secolo non sembrano assecondare una dialettica della negatività, bensì quella della positività: “si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. La violenza non nasce solo dalla negatività, ma anche dalla positività, non solo dall’Altro o dall’Estraneo ma anche dall’Eguale”.
Jean Baudrillard aveva già spiegato che “chi vive dell’eguale, muore dell’eguale” e questa sua tesi è confermata dal fatto che questo modo di morire è il contrario esatto di quanto caratterizza una vitale ostilità. Infatti, “l’ostilità segue, anche nella forma virale, lo schema immunologico. Il virus nemico s’introduce nel sistema, che funziona come un sistema immunitario e respinge l’intruso”. Attenzione però: questo non significa che la genealogia dell’ostilità coincida con quella della violenza: “la violenza della positività non presuppone alcuna ostilità. Si sviluppa proprio in una società permissiva e pacificata. Per questo è meno riconoscibile della violenza virale. Occupa infatti lo spazio privo di negatività dell’Eguale, in cui non si ha alcuna polarizzazione tra nemico e amico, interno ed esterno o tra proprio ed estraneo”.
Questa società priva di negatività, in cui valori di riferimento sono tutti piuttosto liquidi e leciti, può fare a meno di qualsiasi disciplina e di ogni censura, non ha bisogno di alcuna repressione, o almeno non nei termini di quella che caratterizzava le nostre società fino alla prima metà del Novecento e descritta da Sigmund Freud ne Il disagio della civiltà o da Michel Foucault in molte sue opere. Questa società disciplinare, “fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche, non è più la società di oggi. Al suo posto è subentrata da molto tempo una società completamente diversa, fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori di genetica. La società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una società della prestazione (Leistungsgesellschaft). I suoi stessi cittadini non si dicono più “soggetti d’obbedienza”, ma “soggetti di prestazione”. In questo scenario, le mura di quegli istituti disciplinari che segnavano i confini tra quanto una volta era ritenuto normale e ciò che non lo era sembrano divenute obsolete e le vecchie analisi di Foucault non risultano più in grado di descrivere le trasformazioni psichiche dovute al mutamento della società disciplinare in società della prestazione.
Per la verità, quanto sostiene Byung-Chul Han potrebbe essere integrato ricordando che non solo Bodrillard e Foucault, ma anche Herbert Marcuse (sorprendentemente non menzionato nel saggio) aveva spiegato bene, attraverso ciò che definiva “desublimazione repressiva”, che la società a lui contemporanea non era già più una società “disciplinare”, ovvero non aveva più bisogno di alcuna particolare attività repressiva per fornire l’illusione di una completa liberazione e nel frattempo creare una dipendenza cronica da pratiche consumistiche e da rituali distruttivi e autodistruttivi.
Del fatto che nella società contemporanea non ci sia bisogno nemmeno di alcuna repressione culturale era poi convinto anche il grande critico letterario americano Harold Bloom, dato che non è nemmeno più necessario bruciare i libri per impedire che lettori virtuali possano accedere alle opere che varrebbe la pena leggere: è sufficiente che il mercato sia inondato da prodotti commerciali di basso livello in grado di occultare negli scaffali delle librerie persino dei grandi classici per ottenere un risultato apparente molto democratico, ma indirettamente e morbidamente censorio.
Al contrario di quanto accade oggi nella società della stanchezza, caratterizzata dal poter fare grosso modo quel che si vuole, la società disciplinare era una società della negatività, essendo determinata dalla negatività del divieto ed essendo caratterizzata dal “non - potere” (Nicht-Dürfen). Mentre in questa società del divieto anche il “dovere” (Sollen) “era intaccato da una negatività, quella dell’obbligo”, la società apparentemente permissiva di oggi, basata su ciò che Marcuse definiva come <<principio di prestazione>>, “si sottrae sempre più alla negatività. Essa è abolita proprio dalla crescente de-regolamentazione” o, per dirla ancora con Marcuse, dalla <<desublimazione repressiva>>.
La società attuale ha nell’affermazione <<Yes we can>> un suo motto esemplare, dato che esso esprime il carattere di positività di tale società, dove “in luogo del divieto, dell’obbligo o della legge, subentrano il progetto, l’iniziativa e la motivazione”. La sostanziale differenza tra questi due tipi di società potrebbe quindi essere contrassegnata dai rispettivi effetti: “la società disciplinare è ancora dominata dal no. La sua negatività produce pazzi e criminali. La società della prestazione, invece, genera soggetti depressi e frustrati”.
Inoltre, dato che “la positività del poter-fare è molto più efficace della negatività del dovere”, l’inconscio sociale finisce col passare “dal dovere al poter-fare. Il soggetto di prestazione è più veloce e più produttivo del soggetto d’obbedienza”. Egli è di fatto un individuo massificato e inerme, “in balia dell’eccesso di positività”: non ha nessuna reale autonomia di giudizio, è tendenzialmente depresso e “sfrutta se stesso del tutto volontariamente, senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e carnefice. Il sé in senso enfatico - spiega Byung-Chul Han - è ancora una categoria immunologica. La depressione invece si sottrae a ogni schema immunologico. Essa esplode nel momento in cui il soggetto di prestazione non è più in grado di poter - fare, ed è in primo luogo una stanchezza del fare e del poter - fare. Il lamento dell’individuo depresso, “niente è possibile”, è concepibile soltanto in una società che ritenga che “niente è impossibile”. Il “non-esser-piú-in- grado- di-poter-fare” conduce a un’auto-accusa distruttiva.”
Non è quindi un caso che la depressione sia la malattia che caratterizza la nostra società: essa deriva da un eccesso di positività e rispecchia un’umanità che fa guerra a se stessa, in cui ognuno, cercando di essere sempre all’altezza della situazione su più fronti, si trasforma in un individuo ad un tempo isolato e multitasking, possibile soggetto e oggetto di mobbing e di bullismo. Un paragone col mondo animale può risultare illuminante per mettere meglio a fuoco le caratteristiche di questa società che, pur nutrendo un’immensa fiducia nel progresso, è sostanzialmente regressiva: “l’animale deve costantemente far attenzione, mentre mangia, a non essere anche lui divorato. Nello stesso tempo deve sorvegliare la prole e tenere d’occhio i partner sessuali. In natura, dunque, l’animale è abituato a suddividere la propria attenzione tra diverse attività. Così, è incapace – che stia mangiando o che si stia accoppiando – di qualsiasi immersione contemplativa. L’animale non può immergersi contemplativamente in ciò che ha di fronte perché, insieme, deve rielaborare lo sfondo. Non solo il multitasking ma anche attività come i videogiochi generano un’attenzione diffusa ma superficiale, simile al modo in cui è vigile un animale selvatico. Gli sviluppi sociali più recenti e il modificarsi strutturale dell’attenzione avvicinano sempre più la società umana allo stato di natura. Intanto, fenomeni come, per esempio, il mobbing hanno raggiunto una diffusione pandemica. La preoccupazione di vivere bene, nella quale rientra anche una riuscita convivenza, cede sempre più il passo alla preoccupazione di sopravvivere”.
Byung-Chul Han, La società della stanchezza, traduzione di Federica Buongiorno. Nottetempo editore.