Il motore della critica? L'affetto.

Nel dopoguerra si sono avvicendate sulla scena culturale francese scuole filosofiche tra le più feconde ed originali del secolo, correnti e mode prolifiche e discordi. Parigi è stata la madre adottiva di sciami di teorie, alcune d'importazione, altre autoctone.

Esistenzialismo e strutturalismo hanno ricavato dal loro soggiorno parigino risonanza internazionale e respiro mondano, marxismo e neoliberismo hanno potuto scrutare reciprocamente le loro mosse a rispettosa distanza, la psicoanalisi vi ha conosciuto quasi una seconda giovinezza. Roland Barthes, semiologo, linguista, critico e, sebbene in senso più lato, romanziere e filosofo, ha saputo trarre dai suoi contemporanei un nutrimento molteplice, forse paragonabile a quello che gli è derivato dalla reiterata lettura di classici antichi e moderni. In quel panorama culturale tanto ricco e composito è stato un mediatore disincantato, un discente segretamente moderato, un maestro tanto sporadico quanto generoso.

Di Roland Barthes è stata tradotta in italiano, per le edizioni Einaudi, una raccolta d'interviste concesse dallo scrittore tra il 1962 e il 1980 (La grana della voce, pp. 363) che contribuiscono a rendere più accessibile ed evidente la sua personalità intellettuale ed umana. Legato nella sua adolescenza a Gide, Proust e Brecht, e successivamente a Nietzsche, Sartre e Benveniste; amico di Sollers e attento lettore di Lacan, Barthes ha saputo evitare nei suoi scritti certa voracità intellettualistica e certi vezzi stilistici assai frequenti in alcuni suoi connazionali, pur sapendone assecondare le migliori suggestioni teoriche. Anche quando si è addentrato in modo apparentemente compiacente nei rivoli della moda culturale, lo ha fatto sempre senza compromettere la qualità e la sobrietà del suo stile, spinto da una passione sincera per il dialogo culturale e attratto da "quelle piccole scosse caleidoscopiche" che esso sapeva provocare nell'ordine delle proprie competenze linguistiche.

Il dialogo culturale è d'altra parte secondo Barthes una componente essenziale della stessa attività di scrittore. Tale attività, grazie alla quale ogni soggetto "può dissolvere il proprio immaginario", che è fatalmente anche un immaginario culturale, si fondava nel suo caso su una duplice aspirazione: da un lato realizzare nel testo tutti "quegli straripamenti semantici e simbolici" altrimenti destinati ad una perpetua giacenza inconscia; dall'altro conseguire mediante tale esercizio la capacità non solo di "esprimersi semplicemente", ma anche di "pensare e sentire semplicemente". Tali fini, adottati all'unisono, definiscono in maniera abbastanza esauriente il suo modo d'intendere il lavoro del critico. Questi non dovrebbe proporsi di valutare delle opere alla luce di stereotipati paradigmi ermeneutici, quanto piuttosto tentare di riscriverle "affettuosamente", articolandone e depurandone i sensi che proiettano diffusamente sul lettore. "In fondo" – dichiara in un'intervista del 1979 – "ho sempre voglia di difendere degli uomini piuttosto che delle idee (…). Ma bisognerebbe andare ancora più in là, e teorizzare quasi l'affetto come motore della critica".

Roland Barthes
La grana della voce
Einaudi editore.