Giuseppe Ardinghi e l'arte di vedere

                                          
     Vidi per la prima volta i quadri di Giuseppe Ardinghi quando avevo dieci anni e i miei genitori mi portarono a vedere una mostra – a Lucca, alla galleria “La Piramide” - dove esponeva insieme a sua moglie, Mari Di Vecchio Ardinghi, a Soffici e a Rosai. Era la prima volta che vedevo così tanti quadri tutti insieme e ne rimasi molto colpito. Mi parve che quei pittori sapessero vedere cose che sfuggivano alla mia vista, ma che sembravano “le cose vere” – così pensai – colte di sorpresa quando stavano da sole e nessuno le guardava, quando non dovevano mostrarsi a nessuno.
    Quell’impressione rimase in me tanto viva che anni dopo, ogni volta che incontravo per strada Giuseppe e Mari Ardinghi, mi sembrava che fossero quasi due maghi, che sapevano cogliere quello che gli altri non riuscivano a scorgere, restituendo a ogni cosa la sua anima segreta. Anche al tavolino di un bar dove si recavano ogni tanto, in piazza XX Settembre, seduti in silenzio sotto una grande magnolia, sembrava che si esercitassero a vedere: un giorno che rimasi per un po’ a guardarli da lontano stavano zitti, uno accanto all’altra, e mi parve fossero presi da quell’esercizio muto.
   

  La mostra recentemente organizzata da Maria Teresa Filieri e ordinata da Silvestra Bietoletti e Massimo Bertolucci per la nuova Sovrintendenza di Lucca, presso il “Museo di Villa Guinigi”, ha rinnovato in me quell’impressione infantile: che Giuseppe Ardinghi – ma anche Mari, che era presente con suoi tre dipinti molto belli – sappia vedere come solo i grandi pittori riescono a fare, con uno sguardo che si lascia prendere e incantare dalle cose e che è in questo modo capace di rivelarne lo sguardo, quasi che i quadri potessero essere i nostri specchi più fedeli, o almeno quelli in cui ciascuno può riconoscersi una volta che si sia depurato di tutto ciò che d’improprio e d’inutile lo opprime.
   L’arte di Giuseppe Ardinghi è fatta d’indugi e anticipazioni: paesaggi, persone o nature morte sembrano indicare a chi le ritrae l’origine stessa del proprio sguardo, come se l’anima stessa vi si deponesse e afferrasse per potersi riconoscere. Come in altri pittori italiani del novecento - tra i quali mi piace sottolineare le affinità specialmente con alcuni periodi dell’opera di Carrà e Morandi – anche in questo caso l’autore sembra lasciarsi vedere dall’opera, farsi riconoscere da cose o persone in un fitto dialogo silenzioso con i maestri di ogni tempo, senza cadere vittima dell’ossessione di  non assomigliare agli altri, e quindi “di assomigliare solo a sé stessi”, che secondo Jean Baudrillard caratterizza la nostra epoca ed è all’origine della sua ricerca di un’originalità vistosa (1).
   Al contrario, come nelle opere dei migliori ritrattisti, in quelle di Giuseppe Ardinghi tale originalità emerge solo dallo stato d’animo evocato dalla figura umana e propone un’emozione particolare: che in quel momento la persona ritratta sia esattamente ciò che è, coincida con il proprio destino, sia raccolta e sospesa intorno a una sua prospettiva interiore, in grado di segnarne, e quasi di anticiparne, l’intero tragitto umano. Ma tale affinità sospesa è colta anche nelle nature morte e nei paesaggi: anche qui, frutta, bottiglie, alberi e case sembrano possedere un loro sguardo, in grado di rivelare e sorprendere quello del pittore in quel momento come fosse l’attimo in cui si concentra il senso di un’esistenza.
   Qualche anno fa, scrivendo della pittura di sua moglie per il catalogo di una mostra a lei dedicata, Giuseppe Ardinghi ricordava come insieme avessero vissuto, specialmente dopo gli anni sessanta, quasi con un senso di colpa la mancanza di sintonia con i paradigmi estetici e stilistici alla moda, con quelle tendenze, “sorrette da linguaggi  mutuati più dalla filosofia o dalla scienza che non dalla pratica del mestiere, atti a rivestire di significato anche il vuoto di una tela lasciata bianca” (2).  
   Eppure, non tutta la filosofia era al servizio di quelle “magnifiche sorti e progressive” dell’arte che certo storicismo, sponsor di varie avanguardie, annunciava come una sempre nuova frontiera, incoraggiando spesso la sperimentazione linguistica e stilistica fine a sé stessa. Si trattava soltanto della “vulgata” di filosofie a loro volta di moda, che applicavano all’arte principi ambigui e stereotipati, atti specialmente a suscitare le suggestioni intellettualistiche di una presunta poesia pura su cui già Croce si era espresso criticamente (3).
   Nel Novecento, tuttavia, vi sono state impostazioni teoriche tra loro diverse, e diverse anche da quella del Croce, che ponevano l’accento sull’importanza, in pittura, del farsi “trovare” dallo sguardo delle cose come di una prerogativa per riavvicinarsi all’essenza stessa del dipingere. Per conseguire tale scopo è però indispensabile che rimanga nell’opera d’arte un elemento, seppur minimale, di “riconoscibilità figurativa”. Tale elemento risulta infatti irrinunciabile anche per chi, come Ortega y Gasset, ha individuato nell’arte dell’ultimo secolo una spontanea e progressiva tendenza alla propria disumanizzazione. Sebbene domini in tale tendenza prevalente ciò che lo stesso Ortega ha definito “volontà di stile”, ovvero la volontà di stilizzare e deformare il reale per dare vita a uno stile proprio e inconfondibile (4), e sebbene essa meriti di essere analizzata e compresa, un quadro, o una poesia, in cui non resti alcuna delle forme esperite nel proprio vissuto risulterà inintelligibile: “non sarà niente, così come non sarà niente un discorso in cui  ogni parola sia stata privata del suo significato abituale” (5).
   A corollario di questo principio, che potremmo definire di riconoscibilità elementare,  è interessante notare come nella cultura francese - che per altri aspetti ha alimentato, talora in modo inconsapevole o involontario, le tendenze più superficialmente innovatrici - siano reperibili spunti idonei a rivalutare, nell’arte figurativa, la funzione essenziale dello sguardo.
   L’impossibilità per la coscienza di vedersi nell’atto di vedere, su cui si soffermano, anche se in modi talora opposti, Valéry e Merleau-Ponty (6), trova nella pittura una soluzione a prima vista paradossale. L’opera pittorica è questo altro che può restituirci il nostro stesso sguardo riflesso, altrimenti impossibilitato a vedersi: chi dipinge può infatti riconoscere il proprio sguardo in ciò che riesce a vedere e che nel contempo pone gli altri in condizione di vedere, può così vedersi vedere e vedersi e, come in uno specchio, “vedersi particolare, sentendosi universale” (7).
    Essere soli significa essere con sé, il che significa però “sempre essere due” – ricorda ancora Valéry (8) - e il pittore trova ogni volta il proprio altro nel riflesso stesso del proprio sguardo sulle cose, che riesce a vedere come se fosse sempre la prima volta. Sotto questo profilo, anche la pittura è un’arte dialogica, dove però, come spiega Merleau-Ponty, “colui che vede può possedere il visibile solo se ne è posseduto, se ne è” (9), che altrimenti rischia di scimmiottare il pensiero e la stessa visione. Vedere è infatti “quella specie di pensiero che non ha bisogno di pensare per possedere il Wesen” (10) e, come ci ricorda Baudelaire nel terzo dei suoi poemetti in prosa, quando so vedere, le cose che vedo “pensano per mezzo mio; o io per mezzo loro (giacché nella grandezza della fantasticheria [rêverie], l’io rapidamente si dissolve)”; esse pensano, “ma musicalmente e pittoricamente, senza arguzie, senza sillogismi, senza deduzioni“ (11).
    L’opera pittorica può quindi, secondo Merleau-Ponty, creare il tipo di sguardo in grado di vederla: perché “più che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro e con esso” (12), ed esso “c’insegna a vedere proprio perché s’installa e c’installa in un mondo di cui non abbiamo la chiave”, rivelandosi così “un organo dello spirito”, e non semplicemente “un mezzo di piacere” (13).
   Se concepita in questo modo, ovvero prescindendo sia da una sua eventuale funzione edonistica che dalla fede ideologica in un suo necessario progresso storico-estetico, l’arte può realizzarsi in una sorta di “progresso immobile”, attraverso l’esercizio di quello “spirito di perfezione”– come lo definisce Georges Roditi – che rinunciando a fare della pittura, com’è spesso accaduto negli ultimi decenni, una sorta di sincretismo concettuale per immagini volto a rivelare o denunciare lo spirito del tempo, “promette di migliorare, non di avanzare” (14), con il muto affinarsi dello sguardo.
   Così come il poeta, anche il pittore, per perfezionare la sua opera, deve perfezionare la sua anima, perché in fondo in ogni arte si tratta di saper “coltivare il proprio giardino, di farne qualcosa, e non di cambiarlo con uno più grande” (15). 
   L’impressione che Giuseppe Ardinghi non abbia mai desistito dal coltivare il giardino della propria anima attraverso la propria opera, e viceversa, è confermata, oltre che dalla sua attività di studioso, dalla sua produzione letteraria. Anche nei suoi racconti (16), i personaggi e le loro vicende non vogliono mai impressionare, creare artefatta sorpresa. Invitano piuttosto a osservare, ad accostarsi meglio alla vita e alla poesia che può celarsi tra le sue pieghe più discrete, nei gesti e nelle azioni di uomini anche in apparenza da poco, ma sempre a loro modo limpidi e pronti a cogliere il senso di un incontro, l’emozione di un’attesa o di una rivelazione silenziosa, che sarebbe una triste omissione, per il pittore come per lo scrittore, non cercare di cogliere e svelare.


Note


1) Jean Baudrillard: L’altro visto da sé, trad. it.  Costa e Nolan, Genova, 1987, p. 30.

2) Giuseppe Ardinghi: Ricordo di Mari, in La pittura di Mari di Vecchio, Accademia lucchese delle scienze, lettere e arti, Lucca, 1995, p. 12

3) Benedetto Croce: cfr. il paragrafo su La poesia pura, in La poesia, Opere di Benedetto Croce, Laterza, Bari, 1980 (prima ed. 1936), pp. 52-56, e in particolare pp. 53-54.

4) Ortega y Gasset: La deshumanización del arte y otros ensayos de estética, Colleción Austral, Espasa Calpe, Madrid, 1987, p. 67.

5) Ivi, pp. 60-61.

6)   Valerio Magrelli: Vedersi vedersi, Einaudi, Torino, 2002. Per un confronto tra  le diverse concezioni di 
       Valéry e Merleau-Ponty vedi in particolare le pagine 92-97.

7) Paul Valéry: cfr. Cahiers, (riproduzione anastatica), Paris, 29 voll., 1957-61, vol. III, p. 780.

8) Ivi, vol. XIV, p. 896.

9) Merleau-Ponty: Il visibile e l’invisibile, trad. it. Bompiani, p. 151.

10) Ivi, p. 259.

11) Charles Baudelaire:  Poemetti in prosa, trad. it. Dall’oglio, Milano, 1965, p. 9.

12)  Maurice Merleau-Ponty: L’occhio e lo spirito, trad.  it. Se, Milano, 1989, p. 21.

13)  Maurice Merleau-Ponty: Segni, trad. it. Il saggiatore, Milano, 1967; p. 108. A integrazione e commento di  questa considerazione  Merleau-Ponty, si può ricordare quanto osserva in proposito Ortega y Gasset, per il quale la bellezza di un quadro non dipende dal causarci piacere: piuttosto, “un quadro ci sembra bello quando sentiamo che da esso discende soavemente su di noi l’esigenza di trarne piacere”; Ortega y Gasset, Il tema del nostro tempo, trad. it.  Sugarco, Milano, 1995, p. 99.

14)  Georges Roditi: Lo spirito di perfezione, Bompiani, Milano, 1985, p. 20.

15)  Ibidem.

16)  Giuseppe Ardinghi: Novecento al caffè, Quaderni di Erba d’Arno, Fucecchio, 2001.