Cari maestri, cari professori

       Ricordi di scuola di un insegnante

 

   Arriva l'1 lungo e secco, poi il 2 con le ciabatte, sembra il 3 un bel gobbetto, e il 4 una seggiolina, pare il 5 un'orecchietta, e il 6 ha un gran pancione… così recitava il sussidiario, e cosi appresi a scuola i primi numeri. Probabilmente tutti abbiamo dei ricordi della scuola: ricordi radi e irregolari, nitidi o vaghi, gioiosi e dolorosi. E tra questi ricordi ci sono quelli degli insegnanti, dato che certe impressioni legate ai più significativi ci accompagnano poi per tutta la vita.

   Quel tipo di scuola che io ricordo non esiste più. In quella scuola erano davvero importanti poche cose, che solo in piccola parte si potevano insegnare: l'avere a cuore i propri studenti e amare le proprie discipline, non stancarsi di voler conoscere sempre meglio entrambi e il desiderio di riuscire a trasmettere ai primi il proprio amore per le seconde. Ma ancora oggi, nonostante i molti cambiamenti, tra le persone decisive che si possono incontrare nella vita ci sono i propri insegnanti. A volte maestri di vita, altre volte figure che turbano ancora i nostri sogni, educatori illuminanti o sadici diseducatori, talora ombre fluttuanti e sbiadite, non esiste probabilmente vita che non risenta più o meno marcatamente della loro influenza. Parlare di quelli che hanno inciso sulla nostra esistenza in maniera positiva è un modo di ricordarli, un modo per manifestare loro, anche a distanza di molti anni, una sincera gratitudine, e non parlare di altri una forma di pietà.

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Attraverso la durata di tutte le cose

 

Si suppone che questa lettera sia stata scritta in un’izba a Mytišci, mentre Mosca bruciava, al conte Pierre Bezuchov dal principe Andrej Bolkonskij dopo l’infausto ferimento di quest’ultimo; poco dopo il suo incontro con Anatole Kuràghin, anche lui gravemente ferito, nell’ospedale di campo a Borodinò e poco prima dell’ultimo incontro dello stesso principe con Nataša Rostov.

 

 

Carissimo amico mio,

   penso che la guerra abbia la capacità d’illudere i suoi attori, di convincerli di essere loro i protagonisti assoluti del loro destino e di quello dei popoli e delle nazioni. Ma certe sconfitte, come per esempio quella di Borodinò, possono essere tali solo in apparenza, e poi rivelarsi altrettanti inizi di clamorose vittorie. Come il successo può sollevare in aria gli eserciti e farli sentire assoluti padroni delle circostanze, con altrettanta facilità e molto più rapidamente il vento della storia può ricacciarli in basso fino a farli volare nel fango. Si può forse immaginare che un simile vento sia effetto di una giustizia divina? Questo può indurci a pensare che dietro alle immani tragedie della guerra ci sia la mano di Dio?

   Vi prego di scusarmi per la mia grafia: vi sto scrivendo con le poche forze residue e la poca lucidità che mi sono rimaste, appoggiando il foglio su una copia del Vangelo che Timochin è riuscito a procurarmi. Scrivo in pratica da sdraiato, per cui vi prego di scusarmi anche le numerose sbavature. È notte fonda, tutti stanno dormendo e soltanto un grillo e una mosca mi fanno compagnia nell’izba dove mi hanno portato.

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Il volo dell'acrobata

   Il momento in cui le mani lasciano la presa può farti rivivere l’intera vita in un solo attimo. Per quanto l’immagine possa sembrarmi scontata non ne trovo una migliore, né più precisa. Che sia la tua o quella di un altro non ha molta importanza: c’è una vita che passa e vola proprio da lì, dalle tue mani, che per quanto abbiano sempre dato buona prova di sé potrebbero essere colte da un subitaneo sgomento, da un’esitazione improvvisa e imperdonabile. Anche se non dipende solo da te. Ci sono molte cose che non dipendono solo da te e che puoi considerare comunque eventualità imperdonabili.

   Come la presa di Clara quella sera. Non sapevo cosa avesse, o le fosse successo. Ci sono molte cose che non possiamo sapere, ma questa considerazione non ci rassicura. Lei era come più debole. Me ne ero accorto già dalla presa precedente, nonostante fosse stata puntuale e adesiva. Solo una pressione appena più debole. Un’anticipazione di un’incertezza più profonda, ineffabile e un po’ sinistra. Forse soltanto il mignolo che non aveva chiuso prontamente la stretta, per qualcosa che si era addormentato dentro, per una dimenticanza di esserci. Come il vento abituale del mio girovagare in su e giù sulla stessa altalena. Quel vento caldo e monotono che mi accompagnava ogni sera, ma che in quella circostanza mi pareva - strano a ricordarsi, quanto può essere strano che i ricordi ti tradiscano tanto silenziosamente - mi pareva, mi parve, l’alone un rifiuto. Di cosa non saprei dire. Certo, se non mi avesse più cercato, ci sarei rimasto male. Al fatto che non avesse fino ad allora manifestato cenni di amore nei miei confronti ormai mi ci ero quasi abituato. Ma se avesse smesso di cercarmi, almeno ogni tanto, ci sarei stato male. Di un male tremendo e difficile da decifrare. Perché si può star male per cose da nulla, per un sospiro gettato al vento nella direzione sbagliata, dove non sembra che ci sia qualcuno ma c’è sempre qualcuno, un altro, semplicemente un altro che calza meglio la figura lasciata vuota da chissà chi o che cosa, il paragone ellittico che la stessa nostra presenza nel mondo è destinata a proporre e subire.

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Accanto, dentro un dado d'argento

(Su l’impossibile amore di un "uomo senza qualità").

 Quando Ulrich scrisse ad Agathe questa lettera, erano trascorsi pochi mesi dalla fine del romanzo e della loro convivenza. Nulla le lasciava presagire una sua simile iniziativa, sebbene l’avesse fantasticata. Forse fu proprio per aver avvertito a distanza il sommesso desiderio che tale fantasticheria rivelava che lui decise, una notte all’improvviso, di scriverla di getto, senza tuttavia mai giungere in seguito al convincimento che fosse necessario, o in qualche modo opportuno, l’inviargliela.

 

Spero che questa mia lettera non ti sembri fuori luogo come a me in questo momento lo scriverla, che non ti appaia come il maldestro tentativo di gettare un qualche raggio ordinatore sulle nostre vite. Qualsiasi tipo di ordine interiore è conseguibile solo al prezzo del massimo disordine e della quiete irreversibile che porta con sé, per cui sarebbe un’impresa del tutto vana cercare di realizzarne uno di tipo superiore utilizzando quel che ne rimane nel ricordo, dopo che quella quiete è svanita e la vita ha ripreso il suo corso artificioso. Inoltre, il buon esito di un simile proposito potrebbe scaturire solo da un certo esercizio dell’intelligenza, ma poiché l’intelligenza stessa non è intelligente se non serve anche ad amare se stessi, sarebbe inutile produrre un tentativo estremo e tardivo per realizzare ciò di cui ho intravisto la possibilità solo dopo averti ritrovata senza averne colta l’occasione a tempo debito.

Il sentirsi a casa propria era esattamente ciò che in maniera ricorrente veniva a mancare prima di allora, l’effetto che non avevo mai saputo assimilare in maniera soddisfacente. Partivo dal presentimento che vi fosse da qualche parte nascosta la chiave che rende persuaso ed efficace ogni sapere e che il possesso di questa chiave potesse sottrarci al compito gravoso di una scelta che può trovare qualche fondamento solo in una specie di atto mistico, in un puro conferimento di senso. Questa sorta di atto mistico fu per me possibile, in una forma implicita e indiretta, solo ritrovandoti, ritrovandomi in te, nel vuoto intorno a cui oscillavano in parallelo le nostre vite.

Ma la gioia che brucia è destinata a consumarsi tutta, non lasciando che un indistruttibile granello di malinconia. E questo è stato anche il destino della nostra gioia lunare, della nostra prossimità incandescente e del suo alone ovattato ed esausto.

Tu eri la luna, eri volata sulla luna e la luna ti aveva restituito a me. Tutto ciò che accade nelle notti di luna ha la natura dell’irripetibile, per intensità e munificenza ha l’afflato della spoliazione altruista. Così ogni nostra comunicazione era una spartizione senza insidia e ogni frase era intrecciata in mille modi con la commozione della notte, mentre l’Io non poteva trattenere nulla, nessuna condensazione del possesso di sé, quasi neppure un ricordo, e s’irradiava specchiato, sublimato, in un’immensa abnegazione.

Per questo definii una sera quello che ci aveva avvicinati fin dal primo momento “una vita di notti lunari”. Dopo un profondo sospiro, tu mi chiedesti se non conoscevo un incantesimo che impedisse a questo scenario lunare di dividerci all’ultimo momento, perché avvertivi chiaramente che l’impulso che c’induceva a orbitare intorno alla medesima invisibile stella era lo stesso che ci teneva divisi. Eravamo pervasi entrambi dall’agnizione che quanto provavamo non poteva che lasciare in noi la nuda intimità dell’esaurimento, le ossa svuotate, sospese a metà di un abbraccio. Infatti, in quel momento, percependo il tuo sospiro quasi disincarnato, ebbi voglia di abbracciarti, ma mi limitai a sfiorarti una spalla, e tu sussultasti sorridendo, percorsa da un brivido dissuausivo.

Clarisse – di cui ti ho qualche volta parlato - ripeteva spesso che dobbiamo sforzarci a uscire da noi stessi, che dobbiamo costringerci reciprocamente a uscirne. Come fai a capire una persona? Devi rifarla! – diceva - Questo è il grande segreto…essere come quell’altro. E tu mi dicesti un giorno qualcosa di simile, sebbene in modo ancora più circostanziato e preciso, meno estremo e irrealistico, e cioè che l’amare qualcuno presuppone una sorta di trasognamento. Tutti i precetti della morale, del resto, indicano uno stato di trasognamento che è si è già sottratto alle regole che potrebbero formularlo. Forse è per questo che ho sempre creduto nella morale senza credere in una morale definita.

In un’altra occasione dicesti che una persona buona rende buono tutto ciò che tocca, anche se altri la disprezzano o la combattono: appena entrano nel suo campo, essa li trasforma interamente. Ti risposi che questo mi sembrava uno dei malintesi più antichi: una persona buona non ha alcuna possibilità di migliorare il mondo né d’influire in misura rilevante su di esso, anche perché la quantità d’odio che in genere produce intorno a sé non è inferiore all’amore che sa generare. Pensavo quindi che dal mondo potesse soltanto allontanarsi con discrezione, lasciando qua e là qualche lieve traccia della sua anima.

 Oggi non sono più un’escrescenza di tanta lucida disillusione e penso che in un certo senso tu avessi ragione, se per persona buona s’intende colui che è privo di ancore, che non ha alcun argine da difendere e quindi nulla da temere realmente. E perché dovremmo avere qualcosa da difendere? Noi siamo soliti sdoppiarci in polarità opposte che faticano poi ad integrarsi, mentre c’è sempre un terzo Sé che sta fuori dalla finestra a guardare cosa combinano gli altri due e questo non ha bisogno di difendersi da nulla, perché non ne ha il tempo né la vocazione.

Ma per pensare di poter amare bisogna supporre in qualche modo di esistere, che esista un qualche sostrato oltre l’insieme più o meno coerente delle nostre qualità: bisogna, in altri termini, credere che gli altri siano, come io sono, conservare un qualche residuo di questa ostinata illusione egotica in virtù della quale si può credere che il seppur debole confine frapposto tra le nostre esistenze possa essere oltrepassato dall’amore.

È solo grazie a questa spontanea credenza che è possibile realizzare quella bontà di cui ipotizzavi gli effetti salienti. Ma anche in questo caso non potremmo comunque evitare il rischio di ritrovaci in frammenti nell’istante successivo perché lo spettacolo del mondo, di ciò che in esso è meramente possibile, lavora per disgregare qualsiasi identità come in uno specchio frantumato, rendendola così eternamente ondivaga e precaria. Per questo, forse, una volta osservasti che quando parlavi con me ti sembrava di guardarti nelle schegge di uno specchio: con me non riuscivi mai a vederti da capo a piedi, dato che anch’io ambivo discretamente a farmi riflesso obiettivo di un mondo che continuava a esistere per conto suo, implacabile e remoto sullo sfondo, con tutte le sue possibilità ancora intatte.

Quando ti ritrovai ti sentivi stanca, eri incline a svalutare ogni tuo atto e questo ti faceva sentire stanca in ogni fibra del corpo, bramosa di qualcos’altro che assomigliava a ciò che si potrebbe ben definire il nulla. Fu forse questa tua condizione ad avvicinarmi a te come in preda a un riconoscimento fatale.

Se è vero che la nostra anima abita in noi come un enigma insoluto – lo dice  Novalis… ricordi? – con te avevo l’ardire di sfiorare quest’enigma con una leggerezza per me prima inusitata. Tu eri racchiusa in un alone immoto entro cui ti sentivi in pari tempo innalzata e nascosta. Dicevi di essere innamorata senza sapere di chi. Forse vedevi in me delle qualità che giravano intorno ad un centro vuoto, immobile e quieto come l’occhio veggente di un ciclone capace di spazzare via ogni titubanza e di ridestarti ad una nuova chiarezza. Ti animava una chiara volontà, di cui prima avevi - al contrario di me, che invece ne ero soffocato - sempre sentito la mancanza, ma non sapevi, come me, cosa fare di quella chiarezza.

Ci sono stati giorni in cui abbiamo assaporato pienamente la vita, ma alla vita manca, alla fine, sempre qualcosa. Ricordo che la paragonasti a un cumulo di oggetti che non sono stati ordinati da una più alta esigenza: così misera nella sua sovrabbondanza da apparire come il contrario della semplicità, null’altro che una confusione accettata per gratificazione dell’abitudine. È come un mucchio di bambini estranei – dicesti - che uno osserva con educata benevolenza, pieno di paura crescente perché non gli riesce di scorgere fra essi il proprio.

Forse per sottrarti a questa paura, immaginasti persino di aver avvertito la presenza di Dio come quella di un uomo che stava dritto dietro di te ponendoti un mantello intorno alle spalle. Che mi sia in qualche modo trovato qualche volta nella stessa posizione non costituisce di certo una concomitanza casuale: forse si è trattato di un’esperienza culminante, come quando, ripensando a quell’immagine, ti venne voglia di piangere senz’altro motivo.

Ogni esperienza culminante, quando raggiunge la sua suprema irradiante purezza, assomiglia a un riposo, a una cessazione dell’attività. Il centro risulta immobile, nonostante il turbinio di sentimenti che sa provocare. Allora ci si vede vedere e sentire da un luogo quieto e tutto quello che si tocca sembra assiderato, soffuso in una nebbia di atti esteriori e irrilevanti entro cui si perde ogni forma d’amore per questa specie di Io che ci bracca e per il mondo che si porta dietro come un vortice inconcludente.

Nemmeno l’amore, neanche nella sua forma più elevata, può sottrarci a quest’impressione e a questa prospettiva. Allora pensavo che, pur volendo amare qualcuno come se stesso, e per quanto grande sia l’amore che gli si porta, questo amore resta pur sempre un ingannare, un ingannare anche se stessi, perché non si può, semplicemente non è possibile, sentire come gli fa male la testa o il dito. È una cosa intollerabile che non si possa veramente esser parte di una persona amata: mi pareva una constatazione semplice, ineludibile. Pensavo che il mondo fosse fatto così e che noi portassimo la nostra pelliccia animale coi peli verso l’interno senza potercene spogliare. La brava gente, i buoni per definizione, non avevano mai sperimentato davvero quest’impossibilità stridere contro i loro buoni sentimenti e per questo potevano coltivarli con una disarmante e fiduciosa approssimazione.

Anche su questo punto devo oggi ammettere di aver cambiato opinione, pur considerando ancora i sentimenti che queste brave persone si attribuiscono prevalentemente dei lenitivi volti a impedirgli di avvertire una simile contraddizione. Ciò che non credo più è che sia necessario letteralmente sentire ciò che l’altro sente per poter essere parte di chi si ama, ovvero che tale contraddizione sussista. Non sono, in altri termini, più d’accordo con Clarisse, e allora non avevo compreso quanto in fondo la mia posizione fosse simile alla sua, sebbene ne traessi conseguenze opposte. Non è necessario sentire letteralmente ciò che l’altro sente perché tutto ciò che proviamo per mera analogia, anche attraverso un gioco involontario dell’immaginazione, è pienamente sufficiente a riconoscerci nella stessa disposizione dell’altro rispetto alla vita e al nostro destino. Noi siamo sempre un’allegoria di qualcun altro: lo siamo anche, per forza di cose, di quel che immaginiamo di essere, e quindi non abbiamo affatto bisogno di coincidere con lui, dato che questo non è meno impossibile che il coincidere con noi stessi. La nostra riproduzione della sua esperienza può rivelarsi persino più genuina, esatta e lungimirante del sentimento che prova, può scavare da ciò che sente conseguenze ancora più estreme e moltiplicarne a piacere l’intensità.

Anche per questo, il sogno di essere due creature e al tempo stesso una sola, che talora sembrava sgusciato via dai confini della notte ed è a lungo rimasto sospeso tra noi come un convitato di pietra, era del tutto legittimo, sebbene l’insindacabile struttura dei corpi provvedesse di continuo a risospingerlo indietro nella realtà. Questi corpi dischiudevano i loro sembianti davanti al nostro sguardo indagatore, si amavano assecondando il vento che rinnovava un desiderio fluttuante come un naviglio tra i marosi; ma appena lo sguardo si staccava dallo spettacolo che l’amore dà all’amore e cercava di inoltrarsi verso l’ipotetico individuo che, dietro l’apparenza, pensava e sentiva, quei corpi si trasformavano in carceri crudeli, smentendo così la suggestione che fosse plausibile ricondurre ad essi la causa di quel desiderio. Di nuovo capitava che uno si trovasse di fronte all’altro senza sapere cosa dire, perché tutto quello che avrebbe ancora avuto da dire o da ripetere non trovava alcun fondamento e poteva solo appoggiarsi alla frase precedente per dare un seguito alla conversazione, senza che fosse per lui possibile fornirle qualche ulteriore appiglio oltre quello del muto ed estatico riconoscimento che rimaneva sospeso tra le parole.

In certe serate il tuo corpo solitario scivolava accanto al mio come se defluisse dal cielo insieme con la pioggia; in altre la luce che filtrava obliqua dalla finestra scintillando tra le tende sulla teiera e le tazze fiorite di blu ci faceva sembrare la nostra stanza come un dado cavo d’argento.

Ti ricordi di quella sera, quando dopo un movimento improvvido del mio braccio un cucchiaino cadde a terra? Eravamo seduti e silenziosi davanti alle nostre tazze di tè e nella stanza risuonò quell’unica nota acuta che ci fece sussultare. In quell’istante percepimmo chiaramente, e in misura sproporzionata, il vuoto che ci legava e che rischiava di dividerci per sempre. Tutto quel che sapevamo di noi svanì come d’incanto e fu sostituito da una luminosa ignoranza. Ci colpì di più quel solitario grido o il silenzio di tomba che subito lo riavvolse? Impossibile dirlo, ma di certo si poteva scorgere la mostruosa tentazione che si celava nell’interstizio di questa alternativa, perché ad essa non si poteva e non si può opporre nulla, perché nulla la può dirimere e nessun criterio può fondare la scelta della nostra attenzione. Si trattava di lasciarsi pervadere da quel suono celeste e festoso, indizio di un risveglio eterno e comunicativo, o di sprofondare nel presagio della solitudine irreversibile che annunciava; si poteva confidare nella possibilità di un eterno e mutuo ritrovarsi, o lasciar svanire ogni suono insieme alla sua eco inaspettata.

E poi ci fu un’altra notte: quella in cui, dopo un morso eloquente, i miei denti si staccarono con cautela dal tuo fianco, mentre con una mano ghermivo il tuo ginocchio, e tu gridasti per lo spavento, segno che quell’atto era stato imprevedibile anche per te. Dopo aver superato quel subitaneo sgomento sembravi adagiata nell’aria, libera a un tratto da ogni peso. Con un movimento che mutò l’equilibrio del tuo corpo e che mai avresti saputo ripetere strappasti anche l’ultimo filo di seta che si frapponeva tra noi e ti volgesti verso colui che non poteva che essere in tutto e per tutto tuo fratello: poi continuasti ad ascendere pur nella caduta, precipitando come una nuvola nelle mie braccia e adagiandoti nella loro dolce costrizione. Così, per uno di quei casi che nessuno può dominare ci ritrovammo insieme, meravigliosamente pacati, affrancati da ogni inquietudine terrena.

In quel momento avrei dato in cambio tutta la memoria della mia vita. In questo nostro tempo s’intende per gioia del sentimento soltanto il vuoto sentimentalismo, e l’ebbrezza lunare è degradata a un’orgia di romanticherie. Non s’immagina che potrebbe invece trattarsi del frammento di un’altra vita. Non è facile capirlo subito, nel momento stesso in cui quella gioia ci pervade, forse perché anche le esperienze più assolute e incantate richiedono, per essere comprese, una certa dose di superficialità, che in quel momento non è possibile esercitare. Le esperienze che vengono comprese non sono capite una ad una, bensì l’una con l’aiuto dell’altra e perciò inevitabilmente sono collegate più in superficie che in profondità. Ma quando la comprensione cede il posto a uno stupore insondabile, allora il più piccolo fatto, quel filo d’erba o i suoni gentili emessi dalle tue labbra quando dici una parola, diventa incomparabile e assume una consistenza assoluta.

Eravamo innamorati senza sapere di chi, eravamo ignari del nostro amore. Come te, anch’io non ero né fedele né infedele e avevo il cuore pieno d’amore e vuoto d’amore a un tempo. Ci piaceva fare quel che molti facevano e partecipare a un modo di vivere che ci toglieva temporaneamente la responsabilità psicologica del nostro. Non sapevamo se eravamo in grado di amare la gente e le cose reali. Anche quest’effetto di sospensione generalizzata del sentimento era probabilmente dovuto a quel che una volta dicesti dissimulando un sorriso radioso: che una persona dall’amore è soltanto in visita… tanto che si potrebbe quasi eliminare la persona stessa e continuare ad amarla.

È proprio nel momento della maggiore intensità che il sentimento è più incerto. Nell’estremo terrore si è paralizzati o si grida, invece di fuggire o di difendersi. Nell’estrema felicità v’è spesse volte una sofferenza singolare, simile a quella che emana da certe nature morte. Avevi anche qui colto nel segno: tutte le vere nature morte possono suscitare quella stessa felice, inesauribile malinconia che tiene due corpi ancora avvinti al mattino dopo una notte d’amore. Quanto più si contemplano gli oggetti che in tali dipinti si ritraggono, tanto più chiaro appare che questi oggetti, mentre si ergono sui confini incerti della vita colmando lo sguardo e paralizzando la lingua, sembrano sospesi in una condizione di solitaria e indecifrabile prossimità che allude alla nostra.

 In fondo non era vero quanto aggiunsi, e cioè che tutte le nature morte dipingono la vita al sesto giorno della creazione, quando Dio e il mondo erano ancora soli, senza gli uomini; nemmeno le nature morte potrebbero infatti avere un senso se non alludessero a loro modo alla condizione umana. Lo strano fascino della natura morta è anch’esso una finzione, non di meno di quella che si svolge negli sguardi degli amanti quando sono al culmine della felicità: in quei momenti sono anche loro attori su una scena; a differenza di altri, però, essi recitano per uno stesso e unico spettatore, quasi fossero riusciti a compattare il loro pubblico in un unico sguardo che percepiscono all’unisono. È riconoscendosi mutuamente in quello sguardo che essi riescono a  trascendere tanto il loro Io che i loro corpi.

In questo modo riescono, per qualche istante, a spogliarsi di qualsiasi accortezza,  a privare il proprio spirito di tutti gli strumenti e impedirgli di servire di strumento. Come dicesti una volta, riescono a togliersi di dosso il sapere e il volere, a liberarsi della realtà e dal desiderio di volgersi a essa, concentrandosi in sé finché mente, cuore e membra non sono tutto un silenzio. Solo così possono accedere a quella liquefazione di sé grazie alla quale il fuori e il dentro riescono finalmente a toccarsi, come se fosse saltato via un cuneo che poco prima divideva il mondo.

Il senso dei nostri sogni paralleli non è stato quello di fare di noi due una creatura sola, bensì di evadere dalla nostra prigione, dalla nostra unità, di diventare due in una congiunzione proprio liquefacendoci a ritmo alternato, tenendo l’altro fermo per un istante contro il cielo per poter bere insieme a lui la vita tutt’intera in un unico solitario istante, quando basta sfiorarsi una mano per far sì che tutto l’indefinibile che è in noi si addormenti trasformandosi nella consistenza più pura.

Sembrerebbe così scoperto il gran segreto dell’amore impossibile: proprio le persone che si amano di più, che riescono a farlo al di là dell’illusione che il loro Io produce nell’impatto col mondo, sono quelle che non possono vivere pienamente il loro amore. La convivenza quotidiana è infatti chiamata a sbattere con fragore contro il centro che condividono, contro lo stesso nulla che percepiscono all’unisono scorrere sotto le ali delle loro vite. I piccoli episodi di ogni giorno, la cose da fare, le tante irrilevanti preoccupazioni e i motivi di altrettante derisorie soddisfazioni, sono destinate a urtare con fracasso contro il loro stato d’animo dominante fino a mostrargli tutta l’inanità della loro prossimità fisica.

Ma anche questa costituirebbe una ricostruzione parziale e omissiva, perché è in fondo proprio tale prossimità che permette di accedere alla bellezza della differenza, alla sua minuta declinazione, alla prossimità che sa evocare, non dissimile da quella che si distende tra le bottiglie o i frutti di una natura morta. Ti ricordi di quella lucertola che in una giornata d’estate lingueggiava sul muro accanto a noi, vicino alla tua mano che sporgeva dalla sdraio? Anche quando vedesti quella lucertola all’improvviso sussultasti. Poi decidesti di cacciarla via lanciandogli dietro un sasso e battesti le mani fino a quando non riuscisti a farla fuggire. In quel momento pensai che l’essere anche tanto diversi era triste come l’essere nati insieme e il dover morire in tempi diversi. Eppure mi parve meraviglioso che tu fossi così diversa da me, che tu potessi fare cose che non ero in grado di prevedere, come lanciare quel sasso a una lucertola ignara, ma che mi appartenevano ugualmente in virtù della misteriosa risonanza che aleggiava tra noi e ci accompagnava fedele, lasciandosi dietro una scia di felicità destinata a proseguire ben oltre il tempo che ci è dato di vivere.

   Ma anche la felicità è un’esperienza totalizzante, come la bellezza; come quella, per esempio, di una rosa. È qualcosa di più della somma delle sue parti. Non può essere sezionata: quando la smembri, la bellezza semplicemente scompare. Può rimanere intatta se viene solo contemplata. La sua quieta forma non vuole essere toccata, perché il solo sfiorarla minaccerebbe di lacerarla, e se anche il ricordo può dare l’impressione di riuscire a renderla più pura è solo al prezzo di rinunciare a comprenderla e renderne ragione. Come ogni amore che includa la sua silenziosa consapevolezza anche la rosa non si lascia ghermire dalle spirali delle nostre parole e se ne vuole andare intatta, vuole sfiorire a poco a poco da sola, svanire lentamente nel ricordo lasciandosi dietro solo una breve scia colorata, forse il frammento di un’altra vita parallela e immortale.

   Ormai albeggia. Cumulonembi di esteso spessore si profilano all’orizzonte. Elettrometeore al momento sporadiche e onde d’urto udibili a grande distanza non annunciano una bella giornata. Dalla finestra socchiusa entrano  in camera i richiami di uccelli di cui non ricordo il nome. Quello che siamo, ciò che alla fine resta di noi, sembra destinato a permanere nel loro canto, nel dormiveglia di un’alba incerta, dietro i nostri occhi. Anche la luce del sole che fa capolino tra le nubi sembra alludere alla possibilità di poterci un giorno trovare di fronte al nostro vero essere, ma sappiamo che non ci sarà mai consentito vederlo. Soltanto di scorcio è possibile talvolta scorgerne in chiaroscuro il profilo, come può capitare con quello del proprio naso, e solo in alcuni momenti d’una chiarezza inconfutabile, quando si è sfiorati insieme a chi si ama dallo stesso sguardo sulle cose, quando ormai persi nello stesso vedere i confini dell’anima si dissolvono, è possibile coincidere per qualche istante col suo centro, che tuttavia si perde ben presto in nuovi pensieri e trasmigra.

   Persi in mille e mille sogni, ne cerchiamo uno che ci avvolga e ci conduca per mano. Vorremmo scivolare nel fiume delle sue sequenze, essere accolti nella sua corrente, afferrarne la luce lunare, ma un’altra luce, quella del nuovo giorno, ci ricorda invece il circolo fasullo dal quale non è possibile uscire, e insieme il rituale e irrilevante confine che avremmo voluto trasvolare, la nuova e tardiva rinascita appena sfumata, l’inerzia di tutte le cose, la loro contraddittoria e segreta aspirazione al silenzio, alla quiete e alla vita.

 

 

 

 

Borges e Macedonio sotto le stelle

Era una notte chiara e l’aria di una canzone triste risuonava in una piazza affollata di Buenos Aires. Il pensiero era leggero e il cuore stava sospeso nel tepore dell’aria estiva. Come capita ai pensatori lievi, lasciava i suoi pensieri nella loro forma nascente, che rendeva più triste e sola ogni canzone. Anche il rumore delle stoviglie che risuonò durante un intervallo musicale gli parve più triste, nonostante il profumo di carne arrostita e di pietanze speziate che faceva venire un certo appetito.

Anche Jorge Luis Borges e Macedonio Fernández erano seduti lì fuori, al tavolino dello stesso bar, lo sguardo ogni tanto rivolto verso le stelle e i lampioni che ne nascondevano la luce. Ascoltavano quella stessa canzone, che ora assomigliava a una sconosciuta di Gardel, mentre lui ascoltava i loro discorsi,  la malinconia sorridente delle loro voci.

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Un altro finale per Medina-seroté

 

Il finale di “Nel paese dei ciechi”, di H. G. Wells, omette la narrazione della sorte della sua protagonista femminile, Medina-seroté, che ci piace qui immaginare e raccontare.

Il racconto di Wells narra la storia di Nuñez, scivolato quasi per caso in una valla abitata da diverse generazioni da una popolazione completamente cieca. I suoi abitanti, che per ragioni climatiche preferivano vivere e lavorare di notte e dormire di giorno, lo scambiarono per un selvaggio e cercarono di rieducarlo. Nuñez, dopo aver imparato i loro usi e costumi, provò a parlare loro della vista, ma più si sforzava di spiegargli in cosa consistesse il vedere più era trattato con diffidenza. Tramò il piano ingenuo e fallimentare di poter realizzare un colpo di Stato per prendere il potere, ma fin dalla prima colluttazione dovette, armato di una vanga, sperimentare quanto fosse difficile colpire un cieco a sangue freddo. Quando il suo piano fu scoperto lui, inseguito, provò a fuggire, ma poi, colto dai crampi della fame, della solitudine e della disillusione, si vide costretto a chiedere il loro aiuto, in primo luogo sotto forma di cibo.

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ll paradosso celato in voi

Questa lettera immaginaria si ritiene che sia stata scritta da Aglaia Ivànovna Epancina al principe Lev Nikolàjevic Myškin alcuni mesi dopo il loro ultimo  incontro e le sue drammatiche conseguenze.

Probabilmente, quando leggerete queste righe, avrete già avuto occasione d’incontrare maman e le mie sorelle, che sono partite da alcuni giorni per venire a trovarvi. Ho deciso finalmente di scrivervi solo dopo la loro partenza, ed è per questo che non saranno loro a recapitarvi questa lettera. Sono alcune circostanze degli ultimi tempi ad avermi fatto prendere questa decisione, che tuttavia aleggiava in me da già un po’. Nella mia vita sono successe ultimamente tali cose da rendere ancora più impellente il desidero di capire perché, o perlomeno di avere la vostra conferma di non avere frainteso quello che è successo tra noi, specialmente durante il nostro ultimo incontro. Ma prima di tutto, vi scrivo per avere direttamente vostre notizie e per chiedervi semplicemente perdono per non aver capito, per essere stata io a fraintendere per prima.

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Beniamino della vita


Questa lettera immaginaria si figura che sia stata scritta, successivamente alla fine de “La montagna incantata”, da Giovanni Castorp a Ludovico Settembrini dal fronte italiano, durante la prima guerra mondiale, alcuni mesi dopo il loro ultimo incontro.


Carissimo Settembrini,
Le scrivo dal fronte di questa guerra appena iniziata e già troppo lunga, da questo cono d’ombra che la morte proietta in un modo forse meno subdolo del consueto sulla vita di tanti. Qui siamo come fantasmi un po’ sporchi rimasti intrappolati nella vita di un altro un po’ anonimo, di uno dei molti altri che popolano queste trincee. Ma anche i fantasmi di fango pensano, sperano e ricordano, e i miei ricordi della nostra amicizia e dei suoi insegnamenti mi aiutano a sentirmi ancora vivo e pronto a iniziare sempre da capo, a veder brillare le coppe della gioia nonostante la precarietà della situazione, dovuta per buona parte al fatto che i cecchini suoi connazionali hanno l’abitudine esecrabile di spararci con una certa precisione.

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La lettera di un viaggiatore solitario

Dopo più di vent’anni dalla circostanza che costituì un punto di svolta nelle loro vite, Eugenio Oneghin riprese a scrivere a Tatiana Larin. In un’occasione, andò anche a trovarla, ed ebbe modo di conoscere la sua bambina. Da allora rimasero sempre in contatto epistolare. Questa è una delle sue ultime lettere immaginarie.



    Cara Tatiana, anche se è tanto che non ti scrivo, sai bene che la tua presenza in questa vita mi accompagna sempre come un’interlocutrice propizia e segreta. Credo che sia per questo motivo che lo faccio solo in alcuni momenti significativi, cioè soltanto quando posso davvero raccontarti qualcosa che mi riguarda intimamente, con la certezza di essere ascoltato e compreso.
    Stanotte, prima di dormire, ho riletto un po’ “Le mille e una notte”; sempre, naturalmente, nella traduzione francese del Galland. L’impressione che se ne ricava è che il solo fatto di essere è talmente prodigioso che nessuna sventura deve esimerci da una sorta di comica gratitudine, anche quando qualcosa nella creta del nostro io inclini all’incubo, qualcosa di segreto, e cieco e centrale, forse soltanto perché quella di trovarcisi davvero è comunque un’ipotesi che deve essere sondata, presa seriamente in esame.

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Dopo la vita

   Quella domenica un lieve tintinnio lo risvegliò più tardi del solito, quando con sua grande sorpresa scorse la sua faccia nello specchio del bagno. Lo spazzolino da denti stava urtando contro i bordi del bicchiere di vetro, come per l’eco attutito di un esile terremoto. Il suo viso gli parve sconosciuto e lui pensò di essere già morto. Fermò lo spazzolino con una mano e poi, con un gesto lento, ripercorrendo un movimento consueto come se fosse del tutto insensato, se lo portò alla bocca, iniziando a farlo oscillare avanti e indietro contro i suoi denti. Quando li mostrò allo specchio li parvero molto bianchi, come nuovi.
   Quello doveva essere proprio il sorriso di chi era già morto, di un visitatore sconosciuto del suo bagno. Gli sorrideva con tranquillità, senza nulla pretendere da lui, senza porre domande. Aveva l’espressione di chi si trova perfettamente a suo agio al suo posto e di chi sa cosa ci sta a fare. Forse anche lui era atteso da una giornata nuova, annunciata dal riflesso di luce che gli sorrideva da un angolo basso, a destra, dello specchio. La giornata che l’attendeva era nuova come quel raggio di luce, che filtrando dalle imposte socchiuse annunciava bel tempo. Una luce limpida e obliqua, non abituale, sicura di sé. Una luce certa di raggiungere ovunque il suo obiettivo.

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Rondini

   

   Entro in casa ripetendomi che in fondo non è successo niente di eccezionale, che tutto è perfettamente comprensibile. Mi avvicino alla parete della camera e rimango in ascolto. Parlano sottovoce, con un'intonazione calda e piacevole. Quando spalanco la porta sbarrano gli occhi. Sono belli i loro occhi, ma loro due sembrano già morti. Lui grida qualcosa, che non capisco bene, una specie d'invocazione rabbiosa, se sono impazzito o una frase del genere. Lei invece non dice nulla: ma quando lo sparo le insanguina il ventre si piega di fianco sul letto rannicchiandosi come una bambina.

   I colpi non sono stati molto rumorosi e la casa più vicina si trova ad un centinaio di metri. Penso che per un po' non verrà nessuno e che posso restarmene in pace. Apro la finestra e prima di sedermi tolgo i vestiti ammucchiati dalla poltrona. Sono rimasti entrambi con gli occhi aperti e non sembra che abbiano sofferto. Ripenso con calma a com'è incominciata tutta la storia, ma non perché abbia dei rimpianti. Mi sento anzi svuotato e tranquillo, finalmente riconciliato con la mia coscienza.

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La stalla (racconto di Natale)

 

   Stavano dentro al caldo, Ignazio con Emma e il bambino rannicchiato sul saccone di lana. Giocava con il pallottoliere, mentre fuori cadevano grossi fiocchi di neve. La cavalla e l'asino erano appena dietro la porta, nella stalla adiacente alla cucina, e sbuffavano col naso, specialmente la cavalla. L'odore di sterco equino arrivava nella stanza e a volte era così forte che sembrava capace di muovere la fiamma della candela sulla finestra. Fiammella bene augurante, una mania d'Ignazio, che la voleva sempre accesa di sera, insieme alla lampada appesa da sola al soffitto e all'altra più fioca che stava appiccata al muro, tra il fornello e l'acquaio.

   Al piano di sopra c'erano ancora due stanze, una ricavata dall'altra con un tramezzo di mattoni appena scialbati, dove dormiva il bambino. Sulla parete, dal poggio dietro la casa s'era infiltrato dell'umido, disegnando macchie giallastre ed aloni amaranto dove si erano asciugate.

   Ignazio stava seduto nella penombra, sotto la finestra, a guardare il bianco dei fiocchi cadere. Emma rassettava la cucina come in altre serate, riponeva i piatti nella piattaia, deponeva le pentole ad asciugare sul prolungamento di marmo dell'acquaio.

   Un pentolino risuonò e fuori la neve aumentò il silenzio: dalla finestra si poteva vedere solo la luce di una casa lontana; dentro, quella del fuoco colorava la stanza.

   Il bambino stava buono, come sempre. Ignazio si chiedeva perché non piangesse e non parlasse mai. Eppure aveva compiuto i tre anni e spesso sorrideva da solo, o almeno pareva sorridere, nel caldo del maglioncino azzurro. 

   A volte, nonostante la sua piccola età, sembrava che pensasse a qualcosa d'importante e di serio, perché corrucciava leggermente la fronte e diventava completamente immobile, senza quasi emettere un respiro, fissando un qualche oggetto come se volesse prenderlo al volo, come il gatto quando punta una preda nella sua immaginazione, pronto a spiccare un balzo improvviso.

   La cavalla sbatté lo zoccolo per terra e Ignazio pensò che fosse il silenzio a renderla irrequieta. Provocava anche a lui un vivo disagio, ma anche il piacere per quei piccoli rumori di casa che risuonavano nel tepore per un breve momento.

   Fuori c'era una nebbia vasta e densa, fresca e turchese per un filo di luna disteso sulla neve. Quando il silenzio si raccoglieva così ad Ignazio ogni pensiero sfumava sul nascere, non aveva bisogno d'essere finito, si schiudeva senza lasciarsi coltivare e si trasformava subito nel suo effetto.

   Una folata dell'odore di stalla attraversò la stanza in direzione del camino, da dove risalì in cielo, oltre il grigio buio delle nubi. Emma si era accovacciata vicino al bambino, parlandogli piano. Di notte parlava sempre così, come se avesse paura di disturbare qualcuno. Durante il giorno invece parlava alto e chiaro: lo chiamava dal campo con la sua voce leggera, senza esitazioni nella pronuncia. Lei parlava bene la lingua italiana, come Ignazio non l'aveva mai saputa. A lui piaceva sentire la sua voce senza incertezze, qualsiasi cosa dicesse. Un piacere che non sapeva quasi di provare, ma che sentiva lo stesso in cima alla gola.

   L'odore dello sterco di cavallo era buono, mentre quello delle pecore non gli era mai piaciuto. Il padre d'Ignazio era stato pastore, ma dopo la sua morte lui aveva venduto il gregge: poi con i soldi si era comprato dell'altra terra intorno alla casa ed era diventato contadino. Nonostante avesse acquistato delle macchine per coltivare, teneva ancora la cavalla e l'asino per portare la legna dal bosco. Produceva vari tipi d'ortaggi, e anche del vino, guadagnando tuttavia a stento per vivere.
   Prima che nascesse il bambino Emma era stata a servizio e aveva messo un po' di soldi da parte sul libretto di risparmio: così ora, nei momenti di difficoltà, potevano ricorrere a quel denaro, che però stava per finire.

   Comunque non si lamentavano, perché non sentivano il bisogno di molte comodità: possedevano una lavatrice, un ferro da stiro, il frigorifero e anche la televisione. La sera guardavano insieme il telegiornale e a volte le trasmissioni seguenti, fino a quando lui non decideva all'improvviso di spengerla. Alla televisione tutti gli avvenimenti gli sembravano lontani, ma anche troppo vicini, perché non aveva una percezione esatta di dove accadessero e non attribuiva al luogo molta importanza. Per quell'impressione di vicinanza a volte rimaneva stregato a guardare un programma che non gli piaceva e allora la temeva quasi fosse uno sguardo sinistro che s'infiltrava nella casa, la ferita di un mondo remoto, di cui non poteva comprendere le regole. Durante le discussioni si esprimevano tutti in maniera disinvolta, qualsiasi cosa dicessero sembravano crederci, non avere dubbi. Ignazio li ascoltava senza commenti di sorta, ma interrogandosi su quella sicurezza, sulla perfetta sincronia dei gesti con le parole: a volte provando simpatia per qualcuno, altre con un'impressione di falsità, ma sempre consapevole che la sua opinione non contava, che tutto andava avanti lo stesso: i colori ed i volti s'installavano in quell'angolo della stanza e lui a volte restava avvinto alle immagini senza capirne il motivo.

   Anche Emma guardava la televisione, ma senza lasciarsi coinvolgere, e dopo un po' si metteva a fare altri lavori. Sebbene fossero entrambi giovani, avevano infatti da poco compiuto i trent'anni, non dimostravano un'età precisa. Ignazio era un uomo alto, con delle grandi spalle e delle braccia che sembravano troppo lunghe rispetto al corpo. Lavorava nei campi e sulle piane sopra la casa senza riconoscere la fatica, senza darle nemmeno il suo nome. Si asteneva spesso dal nominare le cose perché aveva quasi l'impressione di cambiarne il senso, temendo che un significato sbagliato o superfluo si nascondesse nelle parole. Nella mente d'Ignazio le parole comparivano con parsimonia e sembravano sovrapporsi a quello che provava. Per questo non gli piaceva pensare a lungo, prolungare i pensieri. Rifletteva appena il tempo necessario per mettere a fuoco una sensazione, soffermandosi su quest'alone di ogni impressione che nasceva. A volte le parole gli sembravano provenire da un luogo distante, dove tutto era chiaro e ordinato. Le sentiva arrivare da sole, senza che lui le avesse chiamate o prescelte. Gli sembravano i messaggi di un'altra persona più intelligente di lui, che aveva già pensato tutto e cui non si poteva replicare nulla. Potevano assumere la forma di domande nuove, o di risposte a domande che non si era accorto di porsi. Le domande stavano addormentate nella sua mente e le risposte erano pronte a risvegliarsi al primo richiamo, ad animarsi per un nonnulla trasformandosi in frasi che gli venivano in mente.
   La luce del sole, l'umido dell'aria d'inverno e la stanchezza nelle braccia che s'indurivano dopo molte ore di lavoro potevano in questo modo assumere la forma di una domanda, e questa restare a lungo segreta, tacere, provocarlo senza annunciarsi.

   Nemmeno il suo sentimento per Emma aveva per lui un aspetto consapevole. Era una cosa certa, che aveva provato fin dall'inizio, come del resto anche lei, ma non se l'erano mai detto. Emma era la figlia di un secondo cugino di suo padre e lui l'aveva vista qualche volta da bambino, quando giocavano insieme, e poi da ragazzo la conobbe meglio a una festa dove tutti ballarono. Si guardarono a lungo dai lati opposti della tavola dove stavano seduti, senza mai distogliere i loro guardi, senza mostrare alcuna timidezza.  In seguito non si rividero per un lungo periodo, fino alla cerimonia per la morte del padre d'Ignazio. Quel giorno lei lo salutò come gli altri, senza fare alcun gesto particolare, ma si trattenne da sola vicino al luogo dove veniva sepolto.
   Il giorno successivo Ignazio andò a trovarla e le domandò se volesse sposarlo. Emma non gli dette una risposta immediata, chiedendo un giorno di tempo per decidere. Ignazio rimase a dormire a casa di lei, che invece non riuscì a prendere sonno. Tuttavia non ne parlò con nessun famigliare, perché non sapeva cos'altro avrebbe dovuto farla decidere se non il fatto d'essere sicura di non sbagliarsi.
   L'indomani mattina, dopo colazione, dette il suo assenso davanti alla finestra della sala, guardandolo senza sorridere. Le sue guance nella luce del sole a lui sembrarono del colore di una pesca matura, tanto che gli parve quasi di percepirne il profumo. Al matrimonio furono invitati tutti i parenti, anche quelli che non frequentavano abitualmente e che poi non avrebbero forse rivisto. Piovve l'intero pomeriggio e verso sera la mamma d'Ignazio si trasferì ad abitare dalle sorelle, nel paese vicino, in modo da lasciare ai giovani sposi la casa paterna di lui, dove in previsione dei figli non c'era posto per tutti.
   Quella notte fecero per la prima volta all'amore e ad Ignazio, sebbene avesse l'impressione di conoscerla già per aver giocato con lei da bambini, la sua pelle chiara parve troppo morbida, d'una consistenza poco reale. Invece ad Emma le sue mani lungo i fianchi e sul viso parvero una parte della sua vita già vissuta, qualcosa che le spettava. Non si stupì di provare dolore e piacere ad un tempo, perché lo sapeva, sebbene non conoscesse nessuno dei due e le sembrassero nuovi come la sensazione delle mani sui fianchi e sui seni. Quando Ignazio cessò di muoversi sopra di lei Emma sentì il proprio corpo finalmente suo, vivo come non ricordava di averlo mai sentito, nemmeno quando si lavava o da ragazza le era capitato di toccarsi. Anche quel senso di piacere e meraviglia era stato diverso, perché ora non era più solo. Appartenere ad Ignazio infatti la faceva sentire più salda in quel che provava, più risoluta nelle sue decisioni.
   Verso sera, prima del tramonto, rimanevano a lungo in silenzio e Ignazio spesso dipingeva ad acquarello seduto sotto la finestra, alla luce della candela. Ma non dipingeva dal vero: guardava fuori senza ritrarre il paesaggio, disegnando figure di uomini o animali, di piante e di uccelli, ma senza alcun realismo. Le cose non sapevano che la loro forma era rara e lui voleva trovare le forme delle cose per poterglielo comunicare.
   Poi, dopo cena, quando non continuava a disegnare, accendeva il televisore. Allora si avvicinava con la sedia, quasi con un senso di soggezione, e vedeva le luci, le gambe delle donne e i loro sorrisi, i giochi e i discorsi di persone che si muovevano senza alcun disagio. Spesso non ascoltava nemmeno quello che dicevano, perché era colpito dalla facilità del loro esprimersi e dai loro movimenti incessanti, dal loro rassicurante mostrarsi. Provava la sensazione di poter far correre i pensieri, di poter sovrapporre liberamente a quelle immagini altre immagini ed altri discorsi, in una mancanza di concentrazione che a tratti gli piaceva.

   Ma all'improvviso quella sua stessa attenzione gli pareva pericolosa ed estranea, non ne capiva la ragione, e allora chiedeva ad Emma se volesse continuare a tenerla accesa. Lei rispondeva immancabilmente di no, che non le importava, che tanto aveva da fare e preferiva il silenzio, anche se prima invece guardava, e lui si alzava per spengere il pulsante principale, quello che faceva scomparire anche la piccola luce verde in alto, per disanimarla del tutto. 

   Quindi ritornava sotto la finestra e riprendeva a dipingere sul piccolo tavolino di pioppo che si era costruito apposta: figure d'uomini stilizzati, di lampade ed alberi, oppure di frutta, bottiglie od altri oggetti perfettamente isolati gli uni dagli altri, collegati solo da un esile filo e disposti secondo figure geometriche, perché in questo modo le cose sembravano prendere coscienza, completarsi in un gesto reciproco.
   Quella sera, mentre guardava fuori, fu colpito da una girandola di piccole luci, simili a quelle intermittenti degli alberi di Natale. Disegnavano nel grigio della nebbia dei piccoli pesci che volteggiavano nell'aria. Fu un'impressione che non seppe decifrare e rimase col pennello sollevato a scrutare dietro i vetri opachi; ma quell'immagine scomparve altrettanto rapidamente di com'era apparsa e lui si affrettò a dipingere quello che aveva pensato di vedere: un vortice di piccole luci colorate che sembravano nuotare sopra il manto della neve.
   Poi Emma portò a letto il bambino, che non faceva mai storie qualsiasi cosa gli si facesse fare, e quindi si coricò a sua volta. Ignazio la raggiunse poco dopo e lei attese che spengesse il lume dalla sua parte per addormentarsi. Ignazio non prese subito sonno: l'immagine dei pesci continuava a balenargli davanti agli occhi e si rigirò nel letto più volte.
   Dopo che finalmente si fu addormentato ebbe nel sonno una strana sensazione di freddo che lo risvegliò di soprassalto, e alzatosi a sedere sul letto rimase in ascolto di quel grande silenzio che veniva da fuori. Quindi, senza capire cosa lo spingesse, seguì il suo primo impulso e si recò a vedere cosa stesse facendo il bambino. Socchiuse la porta della sua cameretta e lo vide rannicchiato bocconi, che si dondolava ritmicamente appoggiando la testa contro il cuscino. Ignazio provò ad avvicinarsi e gli sfiorò la testolina con una mano, ma il bambino continuava a dondolarsi piegando le ginocchia e lui provò una sensazione di disagio, gli parve di non doverlo disturbare. Allora richiuse la porta e discese le scale: ma con suo grande stupore notò che i gradini non scricchiolavano come al solito sotto il suo peso.
    Da basso si accorse che la finestra era rimasta aperta. Fuori il bianco della neve sui campi era velato da un alone celeste, simile a quello che era apparso insieme alle piccole luci che danzavano. Queste erano ancora dove lui le aveva dipinte, ma mandavano riflessi più vivi e, cosa ancora più strana, di cui si accorse non appena sollevò lo sguardo, era aperta anche la porta d'ingresso, da dove la stessa luce azzurrina entrava nella stanza senza che potesse più uscirne, quasi girovagando imprigionata lungo le pareti. Ignazio si avvicinò e vide che nemmeno lui poteva più uscire, che una forza misteriosa lo respingeva all'interno facendo solo una lieve pressione sul petto. La porta non era chiusa, ma quella non era un'uscita, e forse si poteva passare solo nel verso della luce. Allora si diresse verso l'altra porta, quella della stalla, e qui notò un fenomeno diverso, forse ancora più sorprendente, perché la porta era chiusa, ma una luce gialla o dorata filtrava da sotto la fessura. Cercò con la mano qualche appiglio, qualche traccia della serratura precedente, ma il legno era perfettamente liscio, come se non ci fosse mai stato niente di simile. Ignazio si volse allora verso il centro della stanza: la televisione spenta aveva un'aria minacciosa, perché sembrava che potesse da un momento all'altro accendersi da sola e si accorse che la brace residua nel caminetto emanava una luce ghiaccia e che l'aria d'intorno era più fredda.

   All'improvviso vide qualcosa volare fuori dalla finestra e quando si avvicinò per controllare da vicino un barbagianni si posò sul davanzale, girando il collo piumato e scrutando con gli occhi all'interno, fissandolo con un'espressione curiosa, e lui poteva udirne distintamente il soffio ritmato del respiro.

   Ritornò di sopra affrettando il passo perché voleva risvegliare Emma e parlarle. Dormiva ancora con la solita espressione serena sul viso e Ignazio si avvicinò alla sua fronte parlandole piano: nemmeno lei emanava più alcun calore e non rispondeva, ma ad un certo punto aprì per un attimo gli occhi, domandandogli dell'acqua con un po' di vino.
   Ignazio scese ancora di sotto, riempì il bicchiere e risalì, sempre più in fretta, notando di nuovo che gli scalini non facevano alcun rumore. Prima di rientrare in camera volle però di nuovo vedere il bambino e socchiuse la porta: questa volta lo trovò seduto sul letto, con le gambe incrociate, che lo fissava muto, con un'espressione seria ed attonita. I suoi occhi gli parvero più grandi del solito e gli fecero paura. Rimase sull'uscio solo per qualche istante: quindi si avvicinò e lo prese in collo. Il bambino appoggiò il mento sulla sua spalla e lo abbracciò: ma anche le sue mani erano fredde ed Ignazio avvertì una sorta di fastidio, come se non fosse suo figlio, ma un essere assolutamente indifferente e sconosciuto. Lo ripose sul letto come un oggetto e lo rincalzò nella coperta: quindi richiuse la porta spaventato per quella sensazione e ripreso in mano il bicchiere raggiunse Emma facendo attenzione a non versarne il contenuto.

  Quando le si accostò lei gli chiese con un filo di voce di bagnarle appena le labbra. - Vieni a dormire anche tu - gli disse poi senza muoversi, tenendo ancora gli occhi chiusi, e aggiunse che avevano sete anche la cavalla e l'asino, che doveva portare da bere anche a loro.
   Ignazio discese di nuovo. Perché il bambino non aveva mai ancora parlato? e perché lo aveva guardato in quel modo?

   Dalla fessura sotto la porta della stalla veniva la solita luce e il barbagianni sul davanzale sembrava sonnecchiare, perché apriva e richiudeva gli occhi lanciandogli occhiate sempre più pigre.
   Il bambino non pareva mai pensare a qualcosa di particolare, e tuttavia doveva pensare certamente, ma senza alcuna intenzione, senza riferirsi a qualcosa. Ignazio passò ancora la mano sul legno della porta rimasta chiusa, ma nemmeno questa volta trovò alcuna traccia di una qualsiasi sporgenza: la porta era liscia ed il legno non aveva nemmeno le solite irregolarità, le sue scaglie erano state piallate via da una mano esperta e sembrava come nuovo. Nel centro del tavolo le mele mandavano un profumo pungente, che si univa a quello di sterco che veniva dalla stalla, e Ignazio realizzò che non c'erano vie di fuga, accettò in un certo senso la situazione, che stranamente ora non gli procurava alcuna ansia, perché non provava nessun desiderio di cercare un'uscita e quanto stava accadendo gli pareva una cosa naturale e prevista.

   Si sedette al tavolo dove disegnava e si mise ad osservare le figure che aveva dipinto, da dove i punti luminosi dei pesci erano scomparsi e rimanevano soltanto la bottiglia e la tazza che aveva fatto prima della loro apparizione.

   Era prigioniero di cosa? Perché la sua casa era aperta eppure chiusa? E quella luce sotto la porta... e l'altra della brace che non scaldava?
   Non appena si fece quelle domande Ignazio capì subito di essere assolutamente insensibile alle risposte: gli sembrava che quella fosse la forma della realtà e che non dovesse uscire da alcun luogo.
   Accese la televisione svogliatamente, e tuttavia per un impulso preciso. Si sedette sulla poltrona e vide una strada compressa tra altissimi grattacieli. Poi, senza stupirsi più di nulla, riconobbe i due pesci che nuotavano tra le vette dei palazzi come nella scena di un acquario.
   Ben presto le immagini di altri programmi incominciarono ad affastellarsi nella sua mente senza fatica. Un oratore persuadeva il pubblico della necessità di deviare una cascata, indirizzarla in una valle diversa, raccoglierne la preziosa energia e l'additò mentre svaniva, imboccando quieta un piccolo rigagnolo nel verde. Più a valle un vecchio cervo barriva, e un altro più giovane scappava saltando tra sassi e cespugli, inseguito dall'acqua. Una vecchia donna che assomigliava a sua madre raccoglieva radici ed il vento che si era levato spostava la nebbia a grandi folate.

   Un imbonitore spiegava il funzionamento di una macchinetta per tritare le verdure e subito un'altra donna diceva che era meglio spalmarsi con quella crema e mostrando le gambe lisce accarezzava il suo corpo nudo per spiegare l'efficacia di quel prodotto speciale sulla pelle di seta. Sorridendo s'inclinava s'un fianco e percorreva con le dita i contorni delle natiche esibendone la solidità, quando sopra la sua testa apparvero minuscole stelle e lei disse che con quella crema si potevano anche captare le radiazioni degli astri, che nessun loro influsso poteva sfuggire più al corpo. Poi accarezzandosi il seno lo sostenne in direzione del cielo, lasciando che si gonfiasse in maniera visibile, ma l'uomo che prima consigliava l'acquisto della macchinetta ricomparve davanti al tavolo colmo di foglie e parlò di giustizia, che non si doveva offendere il popolo, ma sostenerlo nelle difficoltà, e che per far questo bisognava ridurre il tasso di sconto e promuovere nuove iniziative culturali.

   In quel momento riapparvero i pesci nel cielo stellato di prima e scivolarono fuori dal video verso la finestra. Quando Ignazio si volse li vide girare ancora intorno alla stanza prima di uscire. Si avvicinò e vide che il barbagianni volava via con loro, un'ombra bianca sopra i campi con due sagome di puntiformi luci colorate, e subito dopo si accorse che iniziava ad albeggiare rapidamente, la neve a sciogliersi, i meli sul prato a fiorire. Si volse verso il televisore e vide una signora elegante che ingoiava un cioccolatino con la stagnola e poi mostrava la chiostra dorata dei denti. Quindi una ragazza più giovane apparve seduta, con una gamba accavallata che dondolava in una calza chiara, e questa ragazza aveva un'espressione compita e graziosa. Muoveva la bocca come per rispondere a delle domande, ma in realtà non emetteva alcun suono, pur capendosi quando terminava una frase. Continuava a dondolare la sua gamba con un movimento lievemente nervoso, quasi imbarazzato, seppure con una certa ironia nel sorriso, e Ignazio fu convinto di conoscerla, di averla già vista e forse di averle parlato. Gli parve anche di averla amata, almeno una volta nella vita, e stava proprio per ricordarsi chi era quando la sua immagine venne cancellata dall'arrivo di un grasso intervistatore che le si collocò davanti con un grande pacco sotto il braccio, avvolto in una carta rilucente di rosso e con un lungo fiocco d'oro arricciato intorno. L'uomo, che teneva un microfono nell'altra mano, voleva venderle il pacco a qualunque prezzo, e nell'insistere copriva quasi per intero la figura della ragazza che rimaneva seduta, nascondendole il viso. Anche il pacco rosso ingombrava la scena, e ormai si poteva scorgere soltanto la punta del piede che proseguiva a oscillare sospesa.  
   Allora Ignazio si volse di nuovo verso la finestra e si accorse che fuori la primavera avanzava: dalla grondaia rotta cadevano grosse gocce di neve disciolta mentre il sole saliva nel cielo e l'erba cresceva più verde. In un campo più in basso il manto delle spighe si gonfiava sotto il suo sguardo e frutti di vari colori maturavano sugli alberi. Ma ad un tratto sentì un urlo alle sue spalle e scorse nel televisore un uomo a torso nudo che imprecando prendeva a pugni un fantoccio umano lanciandolo contro uno specchio, e quando lo specchiò si ruppe il fantoccio ferito sanguinò dalla gola, un rivolo di sangue percorse la stanza fino ai piedi dell'uomo, che piegatosi sulle ginocchia ne raccolse un po' con un dito per assaggiarne il sapore.

   Fuori si era levato il vento e scuoteva i rami degli alberi. Seccavano i frutti, alcuni cadendo per terra, e le foglie si tingevano di giallo e di rosa, qualcuna d'un rossore febbrile, mentre il sole era di nuovo più basso sull'orizzonte e l'aria imbruniva. Sul video due volti mascherati cercavano di baciarsi accarezzandosi con mani di legno in un prato, dove accanto a loro gli steli di alti fiori bianchi s'intrecciavano in una specie d'abbraccio.

   Una folata dell'odore di sterco sopraggiunse improvvisa e Ignazio percepì il peso del suo corpo, avrebbe potuto calcolarlo con esattezza, come una bilancia quello di una manciata di patate.

- Tutto quello che accade è per sempre, perché nulla appartiene a nulla.
   Sentì pronunciare questa frase da un uomo che prendeva il sole vestito con un elegante abito da sera, seduto su una sedia troppo piccola, vicino ad un albero dal quale pendevano cappelli di varia foggia. Si accorse che quell'uomo gli assomigliava e immaginò che avesse i suoi stessi pensieri. Poi vide la stessa ragazza di prima che camminava carponi brucando l'erba: aveva i piedi scalzi e le labbra rosse, i capelli le andavano sul viso, e allora gli parve che nel tempo accadessero mille cose invisibili che potevano disperderlo in mille frammenti e che ognuna potesse prendere il posto di qualsiasi altra. Anche gli odori erano cose, avvenimenti, e persino la luce che ritornava sempre uguale ad ogni stagione.

  Fuori adesso era buio: la neve aveva ricominciato a cadere e lui poteva quasi sentirne il rumore. La nebbia copriva di nuovo ogni cosa ed il barbagianni attraversò il prato volando da un ramo fino alla sagoma più lontana di un altro, quando una luce alle sue spalle lo indusse a voltarsi di nuovo, e vide i due pesci nuotare intorno al bambino. Stava in piedi in cima alla scala, con le mani appoggiate sopra la ringhiera di legno e lo fissava serio, con uno sguardo interrogativo, ma vuoto di qualsiasi altra espressione. Alla luce di quello sguardo ogni cosa parve ad Ignazio assumere il suo contorno irreversibile e remoto. Nulla esisteva più nella casa, soltanto il volto del bambino e i pesci che gli volteggiavano intorno. Lo chiamò a sé aprendo le braccia e lui scese lentamente le scale. Si sedettero entrambi sulla poltrona davanti alla televisione, da dove continuavano a venire immagini nuove di persone in affanno che correvano nei boschi tenendo la bocca spalancata. Tra le sue braccia, ripiegando a poco a poco il corpo sul ventre, il bambino prese sonno, e i pesci divennero due piccoli tatuaggi luminosi ricamati sopra una guancia. Ignazio provò allora una sensazione di grande pace e di perfetto abbandono, tanto che poco dopo cadde anche lui in un sonno profondo e infantile.

   All'alba, quando Emma li trovò addormentati, l'odore di sterco riempiva ancora la stanza. Spense la televisione e si diresse verso la stalla, da dove però non veniva alcun rumore, come invece capitava nelle altre mattine, nessun accenno d'inquietudine. Aprì la porta e trovò le bestie nella solita posizione, in piedi tranquille, e riempì il secchio per dar loro da bere. Poi tornò di là per riaccendere il fuoco con delle pigne secche; preparò il caffè e aprì la finestra per fare entrare l'aria fresca. Nello scostarsi si soffermò a guardare il quadro d'Ignazio e vide che accanto ad una bottiglia, ad una tazza e a delle mele mature sopra un tavolino, c'erano anche due pesci, che avevano colori diversi e la fissavano attenti, come se avesse potuto afferrarli, pronti a scappare.
   Fuori la nebbia copriva la neve sui campi e tutto era immobile. Non c'era nemmeno un filo di vento. Nuovi odori si univano al freddo ch'entrava e lei andò a prendere una coperta che poi distese sopra di loro. Il bambino ebbe un tremito e si aggiustò meglio sulla pancia del padre, che lo proteggeva sotto il suo braccio. Non accennava a svegliarsi ed Emma rincalzò la coperta sui lati, nell'incavo del cuscino: quindi spense il fornello sotto il caffè e apparecchiò la tavola. Ignazio sentì nel sonno un tintinnio di stoviglie, come un suono di campanelle, e nel dormiveglia il suo respiro gli parve limpido e fresco come l'aria ch'entrava da fuori, quasi che i suoi polmoni non opponessero resistenza e potessero dilatarsi all'infinito senza aver bisogno d'espirare. Si piegò leggermente su un fianco e strinse a sé il corpo del bambino, socchiudendo per un attimo gli occhi: sulla sua guancia i piccoli pesci erano scomparsi e lui pensò che fossero ritornati al mare, da dov'erano giunti a visitarli in sogno durante la notte per annunciare la lieta novella del loro risveglio.

 

Il volo dell'acrobata

    Il momento in cui le mani lasciano la presa può farti rivivere l’intera vita in un solo attimo. Per quanto l’immagine possa sembrarmi scontata non ne trovo una migliore, né più precisa. Che sia la tua o quella di un altro non ha molta importanza: c’è una vita che passa e vola proprio da lì, dalle tue mani, che per quanto abbiano sempre dato buona prova di sé potrebbero essere colte da un subitaneo sgomento, da un’esitazione improvvisa e imperdonabile. Anche se non dipende solo da te. Ci sono molte cose che non dipendono solo da te e che puoi considerare comunque eventualità imperdonabili.
   Come la presa di Clara quella sera. Non sapevo cosa avesse, o le fosse successo. Ci sono molte cose che non possiamo sapere, ma questa considerazione non ci rassicura. Lei era come più debole. Me ne ero accorto già dalla presa precedente, nonostante fosse stata puntuale e adesiva. Solo una pressione appena più debole. Un’anticipazione di un’incertezza più profonda, ineffabile e un po’ sinistra. Forse soltanto il mignolo che non aveva chiuso prontamente la stretta, per qualcosa che si era addormentato dentro, per una dimenticanza di esserci. Come il vento abituale del mio girovagare in su e giù sulla stessa altalena. Quel vento caldo e monotono che mi accompagnava ogni sera, ma che in quella circostanza mi pareva  - strano a ricordarsi, quanto può essere strano che i ricordi ti tradiscano tanto silenziosamente - mi pareva, mi parve, l’alone un rifiuto. Di cosa non saprei dire. Certo, se non mi avesse più cercato, ci sarei rimasto male. Al fatto che non avesse fino ad allora manifestato cenni di amore nei miei confronti ormai mi ci ero quasi abituato. Ma se avesse smesso di cercarmi, almeno ogni tanto, ci sarei stato male. Di un male tremendo e difficile da decifrare. Perché si può star male per cose da nulla, per un sospiro gettato al vento nella direzione sbagliata, dove non sembra che ci sia qualcuno ma c’è sempre qualcuno, un altro, semplicemente un altro che calza meglio la figura lasciata vuota da chissà chi o che cosa, il paragone ellittico che la stessa nostra presenza nel mondo è destinata a proporre e subire.

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La camera blu

  

   I ciottoli della spiaggia sono ancora tiepidi per il calore del giorno. Ne sfioro uno più ovale, ch'emana un calore lento, ovattato e amichevole come un sussurro. Il cane grigio cerca la mano di Teresa, sollevandola col muso, perché vuole attrarre la sua attenzione; ma lei parla con gli altri nella luce del fuoco. Un suo amico le ha appena suggerito qualcosa e insieme raggiungono una barca vicina. Lui si muove in maniera elegante, con gesti agili che delimitano uno spazio preciso. Ogni sua azione sembra avere chiaro un obiettivo, la certezza di quel che bisogna fare. In pochi minuti spogliano la barca del suo involucro di plastica ed alzano la vela. Poi spingono il piccolo scafo in mare. La chiglia rimbalza sulle onde che si rompono piano sul bagnasciuga. 
     Mentre si spostano a largo si può vedere sotto la luna il bianco mutare forma ed anche sentirli ridere ogni tanto. Gli altri parlano ancora intorno al fuoco, con le facce illuminate a metà. Il cane guaisce sulla battigia, perché non si è rassegnato e pensa che lei debba tornare. All'improvviso corre da me; forse per avere spiegazioni. Lungo il percorso incontra una farfalla notturna che lo distrae e cerca di prenderla al volo, ma la farfalla non gli fa caso e si allontana. Il cane la lascia perdere e viene da me, saltandomi addosso mi da una leccata sul viso e per un attimo pensa a giocare. Poi riparte di corsa ed entra con le zampe nell'acqua: magari la vorrebbe raggiungere, e invece si ricrede e desiste, fermandosi in silenzio a scrutare verso il bianco della vela.

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Uomini a perdere

   Se è vero, come sostiene Ortega y Gasset, che l’essere umano è attraversato da una certa “mancanza ad essere”, o, come scrive Fontenelle e ricorda lo stesso Ortega, da una “certa difficoltà a esistere”, (e che l’esistenza umana può per questo soggettivamente apparire come un fracaso, un fallimento), allora in queste brevi storie morali tale mancanza è posta in primo piano, intorno ad essa s’incentra la vita dei diversi protagonisti, ma senza che quella specie di “vocazione alla perplessità” che ne segue faccia sorgere in loro rimpianti o recriminazioni. Tutti sembrano infatti persuasi che sia giusto così, che non possa essere comunque altrimenti e che tale mancanza o incompiutezza dell’esistenza debba essere accettata benevolmente e quasi con esercizio d’affetto, da parte di ognuno, per il proprio destino.

Dall’introduzione di Abel Martínez

leggi la recensione di Paola Rocchi

leggi la recensione di Bonifazio Mattei 

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Peppermint

Un’insegna luminosa, che riproduce il nome di una pianta aromatica, attraversa con i suoi richiami la storia di un viaggio d’apprendistato, del quale emergono i contorni e le svolte essenziali. In tre capitoli, che possono anche essere letti autonomamente, il narratore rivive i momenti cruciali della sua esistenza – da giovane “rivoluzionario” sotto la pioggia a professionista alle prese con un improbabile innamoramento, fino al colloquio conclusivo con la figlia ormai adulta -, dando corpo a un breve romanzo in forma di sonata, una sorta di fiaba filosofica dove il suo rapporto col tempo sembra costituire il tema principale, entro diversi scenari, in un succedersi di premonizioni cromatiche, di ombre e tardivi disincanti.

Puoi trovare questo libro anche anche sul sito di Avagliano Editore.

Benny e i discorsi degli angeli

  

   Nell’intento di agevolare l’immaginazione del cortese lettore forse dovrei anch’io, come capita talvolta nei racconti più realisti e promettenti, principiare la narrazione con una descrizione della protagonista principale, ovvero della sottoscritta medesima. A tale proposito, dovrei forse innanzi tutto precisare che sono piuttosto magrolina, non troppo alta per la mia età, scura di capelli e di carnagione. Oppure farei bene a dilungarmi sul mio naso sottile e sui denti affilati, che quando rido mostro in tutto il loro accattivante splendore, o sui miei occhi verdi e scuri, che riscuotono in genere lusinghieri apprezzamenti. Forse dovrei chiarire subito che la mia intelligenza è unanimemente ritenuta assai avida ed originale, e magari ricordare che alcuni trovano i miei modi piuttosto scostanti, la qual cosa non mi sentirei sinceramente di negare, visto per esempio che non mi faccio pregare due volte per assumere un’espressione lievemente disgustata se qualcuno dice qualche cosa che trovo semplicemente grossolana.

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Mare Nero

 

   In quei giorni il tempo era grigio e ventoso, il mare era mosso e i clienti del “Bagno Sirio” trascorrevano le ore sulla veranda del bar, alcuni giocando a carte, altri a parlare. Tra questi c’era anche Marco Salinas, un ragazzo alto, scuro di capelli e con gli occhi leggermente a mandorla, figlio sedicenne d’un noto oculista genovese.  

   Marco aspettava con una certa trepidazione l’arrivo del fratello di suo padre. Non vedeva lo zio dalla scorsa estate e l’ultima volta che lo aveva incontrato ne era stato molto colpito. Era arrivato in moto insieme ad una ragazza bionda assai più giovane di lui. Secondo i suoi calcoli lo zio doveva avere circa una cinquantina d’anni, portati bene, ma non ne era sicuro, perché ai suoi non aveva mai voluto domandarlo.

   In quell’occasione non avevano parlato molto, ma gli era parso una persona decisa e capace, intraprendente e versatile, con un sacco d’esperienza che avrebbe voluto possedere. Si era separato dalla moglie cinque o sei anni prima e doveva saperci fare straordinariamente bene con le donne, visto che ogni estate, o almeno quelle in cui veniva a trovarli, compariva con una diversa e che tutte erano molto belle. Quella dell’estate precedente doveva averlo preso in simpatia, perché gli aveva sorriso spesso e prima d’andarsene gli aveva accarezzato il collo con un gesto il cui ricordo gli procurava ancora una sensazione piacevole, tanto che si ricordava perfettamente il profumo di lei e la sensazione dei suoi capelli biondi quando nel salutarlo gli sfiorarono il viso.

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