Cari maestri, cari professori
Ricordi di scuola di un insegnante
Arriva l'1 lungo e secco, poi il 2 con le ciabatte, sembra il 3 un bel gobbetto, e il 4 una seggiolina, pare il 5 un'orecchietta, e il 6 ha un gran pancione… così recitava il sussidiario, e cosi appresi a scuola i primi numeri. Probabilmente tutti abbiamo dei ricordi della scuola: ricordi radi e irregolari, nitidi o vaghi, gioiosi e dolorosi. E tra questi ricordi ci sono quelli degli insegnanti, dato che certe impressioni legate ai più significativi ci accompagnano poi per tutta la vita.
Quel tipo di scuola che io ricordo non esiste più. In quella scuola erano davvero importanti poche cose, che solo in piccola parte si potevano insegnare: l'avere a cuore i propri studenti e amare le proprie discipline, non stancarsi di voler conoscere sempre meglio entrambi e il desiderio di riuscire a trasmettere ai primi il proprio amore per le seconde. Ma ancora oggi, nonostante i molti cambiamenti, tra le persone decisive che si possono incontrare nella vita ci sono i propri insegnanti. A volte maestri di vita, altre volte figure che turbano ancora i nostri sogni, educatori illuminanti o sadici diseducatori, talora ombre fluttuanti e sbiadite, non esiste probabilmente vita che non risenta più o meno marcatamente della loro influenza. Parlare di quelli che hanno inciso sulla nostra esistenza in maniera positiva è un modo di ricordarli, un modo per manifestare loro, anche a distanza di molti anni, una sincera gratitudine, e non parlare di altri una forma di pietà.
Attraverso la durata di tutte le cose
Si suppone che questa lettera sia stata scritta in un’izba a Mytišci, mentre Mosca bruciava, al conte Pierre Bezuchov dal principe Andrej Bolkonskij dopo l’infausto ferimento di quest’ultimo; poco dopo il suo incontro con Anatole Kuràghin, anche lui gravemente ferito, nell’ospedale di campo a Borodinò e poco prima dell’ultimo incontro dello stesso principe con Nataša Rostov.
Carissimo amico mio,
penso che la guerra abbia la capacità d’illudere i suoi attori, di convincerli di essere loro i protagonisti assoluti del loro destino e di quello dei popoli e delle nazioni. Ma certe sconfitte, come per esempio quella di Borodinò, possono essere tali solo in apparenza, e poi rivelarsi altrettanti inizi di clamorose vittorie. Come il successo può sollevare in aria gli eserciti e farli sentire assoluti padroni delle circostanze, con altrettanta facilità e molto più rapidamente il vento della storia può ricacciarli in basso fino a farli volare nel fango. Si può forse immaginare che un simile vento sia effetto di una giustizia divina? Questo può indurci a pensare che dietro alle immani tragedie della guerra ci sia la mano di Dio?
Vi prego di scusarmi per la mia grafia: vi sto scrivendo con le poche forze residue e la poca lucidità che mi sono rimaste, appoggiando il foglio su una copia del Vangelo che Timochin è riuscito a procurarmi. Scrivo in pratica da sdraiato, per cui vi prego di scusarmi anche le numerose sbavature. È notte fonda, tutti stanno dormendo e soltanto un grillo e una mosca mi fanno compagnia nell’izba dove mi hanno portato.
Il volo dell'acrobata
Il momento in cui le mani lasciano la presa può farti rivivere l’intera vita in un solo attimo. Per quanto l’immagine possa sembrarmi scontata non ne trovo una migliore, né più precisa. Che sia la tua o quella di un altro non ha molta importanza: c’è una vita che passa e vola proprio da lì, dalle tue mani, che per quanto abbiano sempre dato buona prova di sé potrebbero essere colte da un subitaneo sgomento, da un’esitazione improvvisa e imperdonabile. Anche se non dipende solo da te. Ci sono molte cose che non dipendono solo da te e che puoi considerare comunque eventualità imperdonabili.
Come la presa di Clara quella sera. Non sapevo cosa avesse, o le fosse successo. Ci sono molte cose che non possiamo sapere, ma questa considerazione non ci rassicura. Lei era come più debole. Me ne ero accorto già dalla presa precedente, nonostante fosse stata puntuale e adesiva. Solo una pressione appena più debole. Un’anticipazione di un’incertezza più profonda, ineffabile e un po’ sinistra. Forse soltanto il mignolo che non aveva chiuso prontamente la stretta, per qualcosa che si era addormentato dentro, per una dimenticanza di esserci. Come il vento abituale del mio girovagare in su e giù sulla stessa altalena. Quel vento caldo e monotono che mi accompagnava ogni sera, ma che in quella circostanza mi pareva - strano a ricordarsi, quanto può essere strano che i ricordi ti tradiscano tanto silenziosamente - mi pareva, mi parve, l’alone un rifiuto. Di cosa non saprei dire. Certo, se non mi avesse più cercato, ci sarei rimasto male. Al fatto che non avesse fino ad allora manifestato cenni di amore nei miei confronti ormai mi ci ero quasi abituato. Ma se avesse smesso di cercarmi, almeno ogni tanto, ci sarei stato male. Di un male tremendo e difficile da decifrare. Perché si può star male per cose da nulla, per un sospiro gettato al vento nella direzione sbagliata, dove non sembra che ci sia qualcuno ma c’è sempre qualcuno, un altro, semplicemente un altro che calza meglio la figura lasciata vuota da chissà chi o che cosa, il paragone ellittico che la stessa nostra presenza nel mondo è destinata a proporre e subire.
Accanto, dentro un dado d'argento
(Su l’impossibile amore di un "uomo senza qualità").
Quando Ulrich scrisse ad Agathe questa lettera, erano trascorsi pochi mesi dalla fine del romanzo e della loro convivenza. Nulla le lasciava presagire una sua simile iniziativa, sebbene l’avesse fantasticata. Forse fu proprio per aver avvertito a distanza il sommesso desiderio che tale fantasticheria rivelava che lui decise, una notte all’improvviso, di scriverla di getto, senza tuttavia mai giungere in seguito al convincimento che fosse necessario, o in qualche modo opportuno, l’inviargliela.
Spero che questa mia lettera non ti sembri fuori luogo come a me in questo momento lo scriverla, che non ti appaia come il maldestro tentativo di gettare un qualche raggio ordinatore sulle nostre vite. Qualsiasi tipo di ordine interiore è conseguibile solo al prezzo del massimo disordine e della quiete irreversibile che porta con sé, per cui sarebbe un’impresa del tutto vana cercare di realizzarne uno di tipo superiore utilizzando quel che ne rimane nel ricordo, dopo che quella quiete è svanita e la vita ha ripreso il suo corso artificioso. Inoltre, il buon esito di un simile proposito potrebbe scaturire solo da un certo esercizio dell’intelligenza, ma poiché l’intelligenza stessa non è intelligente se non serve anche ad amare se stessi, sarebbe inutile produrre un tentativo estremo e tardivo per realizzare ciò di cui ho intravisto la possibilità solo dopo averti ritrovata senza averne colta l’occasione a tempo debito.
Il sentirsi a casa propria era esattamente ciò che in maniera ricorrente veniva a mancare prima di allora, l’effetto che non avevo mai saputo assimilare in maniera soddisfacente. Partivo dal presentimento che vi fosse da qualche parte nascosta la chiave che rende persuaso ed efficace ogni sapere e che il possesso di questa chiave potesse sottrarci al compito gravoso di una scelta che può trovare qualche fondamento solo in una specie di atto mistico, in un puro conferimento di senso. Questa sorta di atto mistico fu per me possibile, in una forma implicita e indiretta, solo ritrovandoti, ritrovandomi in te, nel vuoto intorno a cui oscillavano in parallelo le nostre vite.
Ma la gioia che brucia è destinata a consumarsi tutta, non lasciando che un indistruttibile granello di malinconia. E questo è stato anche il destino della nostra gioia lunare, della nostra prossimità incandescente e del suo alone ovattato ed esausto.
Tu eri la luna, eri volata sulla luna e la luna ti aveva restituito a me. Tutto ciò che accade nelle notti di luna ha la natura dell’irripetibile, per intensità e munificenza ha l’afflato della spoliazione altruista. Così ogni nostra comunicazione era una spartizione senza insidia e ogni frase era intrecciata in mille modi con la commozione della notte, mentre l’Io non poteva trattenere nulla, nessuna condensazione del possesso di sé, quasi neppure un ricordo, e s’irradiava specchiato, sublimato, in un’immensa abnegazione.
Per questo definii una sera quello che ci aveva avvicinati fin dal primo momento “una vita di notti lunari”. Dopo un profondo sospiro, tu mi chiedesti se non conoscevo un incantesimo che impedisse a questo scenario lunare di dividerci all’ultimo momento, perché avvertivi chiaramente che l’impulso che c’induceva a orbitare intorno alla medesima invisibile stella era lo stesso che ci teneva divisi. Eravamo pervasi entrambi dall’agnizione che quanto provavamo non poteva che lasciare in noi la nuda intimità dell’esaurimento, le ossa svuotate, sospese a metà di un abbraccio. Infatti, in quel momento, percependo il tuo sospiro quasi disincarnato, ebbi voglia di abbracciarti, ma mi limitai a sfiorarti una spalla, e tu sussultasti sorridendo, percorsa da un brivido dissuausivo.
Clarisse – di cui ti ho qualche volta parlato - ripeteva spesso che dobbiamo sforzarci a uscire da noi stessi, che dobbiamo costringerci reciprocamente a uscirne. Come fai a capire una persona? Devi rifarla! – diceva - Questo è il grande segreto…essere come quell’altro. E tu mi dicesti un giorno qualcosa di simile, sebbene in modo ancora più circostanziato e preciso, meno estremo e irrealistico, e cioè che l’amare qualcuno presuppone una sorta di trasognamento. Tutti i precetti della morale, del resto, indicano uno stato di trasognamento che è si è già sottratto alle regole che potrebbero formularlo. Forse è per questo che ho sempre creduto nella morale senza credere in una morale definita.
In un’altra occasione dicesti che una persona buona rende buono tutto ciò che tocca, anche se altri la disprezzano o la combattono: appena entrano nel suo campo, essa li trasforma interamente. Ti risposi che questo mi sembrava uno dei malintesi più antichi: una persona buona non ha alcuna possibilità di migliorare il mondo né d’influire in misura rilevante su di esso, anche perché la quantità d’odio che in genere produce intorno a sé non è inferiore all’amore che sa generare. Pensavo quindi che dal mondo potesse soltanto allontanarsi con discrezione, lasciando qua e là qualche lieve traccia della sua anima.
Oggi non sono più un’escrescenza di tanta lucida disillusione e penso che in un certo senso tu avessi ragione, se per persona buona s’intende colui che è privo di ancore, che non ha alcun argine da difendere e quindi nulla da temere realmente. E perché dovremmo avere qualcosa da difendere? Noi siamo soliti sdoppiarci in polarità opposte che faticano poi ad integrarsi, mentre c’è sempre un terzo Sé che sta fuori dalla finestra a guardare cosa combinano gli altri due e questo non ha bisogno di difendersi da nulla, perché non ne ha il tempo né la vocazione.
Ma per pensare di poter amare bisogna supporre in qualche modo di esistere, che esista un qualche sostrato oltre l’insieme più o meno coerente delle nostre qualità: bisogna, in altri termini, credere che gli altri siano, come io sono, conservare un qualche residuo di questa ostinata illusione egotica in virtù della quale si può credere che il seppur debole confine frapposto tra le nostre esistenze possa essere oltrepassato dall’amore.
È solo grazie a questa spontanea credenza che è possibile realizzare quella bontà di cui ipotizzavi gli effetti salienti. Ma anche in questo caso non potremmo comunque evitare il rischio di ritrovaci in frammenti nell’istante successivo perché lo spettacolo del mondo, di ciò che in esso è meramente possibile, lavora per disgregare qualsiasi identità come in uno specchio frantumato, rendendola così eternamente ondivaga e precaria. Per questo, forse, una volta osservasti che quando parlavi con me ti sembrava di guardarti nelle schegge di uno specchio: con me non riuscivi mai a vederti da capo a piedi, dato che anch’io ambivo discretamente a farmi riflesso obiettivo di un mondo che continuava a esistere per conto suo, implacabile e remoto sullo sfondo, con tutte le sue possibilità ancora intatte.
Quando ti ritrovai ti sentivi stanca, eri incline a svalutare ogni tuo atto e questo ti faceva sentire stanca in ogni fibra del corpo, bramosa di qualcos’altro che assomigliava a ciò che si potrebbe ben definire il nulla. Fu forse questa tua condizione ad avvicinarmi a te come in preda a un riconoscimento fatale.
Se è vero che la nostra anima abita in noi come un enigma insoluto – lo dice Novalis… ricordi? – con te avevo l’ardire di sfiorare quest’enigma con una leggerezza per me prima inusitata. Tu eri racchiusa in un alone immoto entro cui ti sentivi in pari tempo innalzata e nascosta. Dicevi di essere innamorata senza sapere di chi. Forse vedevi in me delle qualità che giravano intorno ad un centro vuoto, immobile e quieto come l’occhio veggente di un ciclone capace di spazzare via ogni titubanza e di ridestarti ad una nuova chiarezza. Ti animava una chiara volontà, di cui prima avevi - al contrario di me, che invece ne ero soffocato - sempre sentito la mancanza, ma non sapevi, come me, cosa fare di quella chiarezza.
Ci sono stati giorni in cui abbiamo assaporato pienamente la vita, ma alla vita manca, alla fine, sempre qualcosa. Ricordo che la paragonasti a un cumulo di oggetti che non sono stati ordinati da una più alta esigenza: così misera nella sua sovrabbondanza da apparire come il contrario della semplicità, null’altro che una confusione accettata per gratificazione dell’abitudine. È come un mucchio di bambini estranei – dicesti - che uno osserva con educata benevolenza, pieno di paura crescente perché non gli riesce di scorgere fra essi il proprio.
Forse per sottrarti a questa paura, immaginasti persino di aver avvertito la presenza di Dio come quella di un uomo che stava dritto dietro di te ponendoti un mantello intorno alle spalle. Che mi sia in qualche modo trovato qualche volta nella stessa posizione non costituisce di certo una concomitanza casuale: forse si è trattato di un’esperienza culminante, come quando, ripensando a quell’immagine, ti venne voglia di piangere senz’altro motivo.
Ogni esperienza culminante, quando raggiunge la sua suprema irradiante purezza, assomiglia a un riposo, a una cessazione dell’attività. Il centro risulta immobile, nonostante il turbinio di sentimenti che sa provocare. Allora ci si vede vedere e sentire da un luogo quieto e tutto quello che si tocca sembra assiderato, soffuso in una nebbia di atti esteriori e irrilevanti entro cui si perde ogni forma d’amore per questa specie di Io che ci bracca e per il mondo che si porta dietro come un vortice inconcludente.
Nemmeno l’amore, neanche nella sua forma più elevata, può sottrarci a quest’impressione e a questa prospettiva. Allora pensavo che, pur volendo amare qualcuno come se stesso, e per quanto grande sia l’amore che gli si porta, questo amore resta pur sempre un ingannare, un ingannare anche se stessi, perché non si può, semplicemente non è possibile, sentire come gli fa male la testa o il dito. È una cosa intollerabile che non si possa veramente esser parte di una persona amata: mi pareva una constatazione semplice, ineludibile. Pensavo che il mondo fosse fatto così e che noi portassimo la nostra pelliccia animale coi peli verso l’interno senza potercene spogliare. La brava gente, i buoni per definizione, non avevano mai sperimentato davvero quest’impossibilità stridere contro i loro buoni sentimenti e per questo potevano coltivarli con una disarmante e fiduciosa approssimazione.
Anche su questo punto devo oggi ammettere di aver cambiato opinione, pur considerando ancora i sentimenti che queste brave persone si attribuiscono prevalentemente dei lenitivi volti a impedirgli di avvertire una simile contraddizione. Ciò che non credo più è che sia necessario letteralmente sentire ciò che l’altro sente per poter essere parte di chi si ama, ovvero che tale contraddizione sussista. Non sono, in altri termini, più d’accordo con Clarisse, e allora non avevo compreso quanto in fondo la mia posizione fosse simile alla sua, sebbene ne traessi conseguenze opposte. Non è necessario sentire letteralmente ciò che l’altro sente perché tutto ciò che proviamo per mera analogia, anche attraverso un gioco involontario dell’immaginazione, è pienamente sufficiente a riconoscerci nella stessa disposizione dell’altro rispetto alla vita e al nostro destino. Noi siamo sempre un’allegoria di qualcun altro: lo siamo anche, per forza di cose, di quel che immaginiamo di essere, e quindi non abbiamo affatto bisogno di coincidere con lui, dato che questo non è meno impossibile che il coincidere con noi stessi. La nostra riproduzione della sua esperienza può rivelarsi persino più genuina, esatta e lungimirante del sentimento che prova, può scavare da ciò che sente conseguenze ancora più estreme e moltiplicarne a piacere l’intensità.
Anche per questo, il sogno di essere due creature e al tempo stesso una sola, che talora sembrava sgusciato via dai confini della notte ed è a lungo rimasto sospeso tra noi come un convitato di pietra, era del tutto legittimo, sebbene l’insindacabile struttura dei corpi provvedesse di continuo a risospingerlo indietro nella realtà. Questi corpi dischiudevano i loro sembianti davanti al nostro sguardo indagatore, si amavano assecondando il vento che rinnovava un desiderio fluttuante come un naviglio tra i marosi; ma appena lo sguardo si staccava dallo spettacolo che l’amore dà all’amore e cercava di inoltrarsi verso l’ipotetico individuo che, dietro l’apparenza, pensava e sentiva, quei corpi si trasformavano in carceri crudeli, smentendo così la suggestione che fosse plausibile ricondurre ad essi la causa di quel desiderio. Di nuovo capitava che uno si trovasse di fronte all’altro senza sapere cosa dire, perché tutto quello che avrebbe ancora avuto da dire o da ripetere non trovava alcun fondamento e poteva solo appoggiarsi alla frase precedente per dare un seguito alla conversazione, senza che fosse per lui possibile fornirle qualche ulteriore appiglio oltre quello del muto ed estatico riconoscimento che rimaneva sospeso tra le parole.
In certe serate il tuo corpo solitario scivolava accanto al mio come se defluisse dal cielo insieme con la pioggia; in altre la luce che filtrava obliqua dalla finestra scintillando tra le tende sulla teiera e le tazze fiorite di blu ci faceva sembrare la nostra stanza come un dado cavo d’argento.
Ti ricordi di quella sera, quando dopo un movimento improvvido del mio braccio un cucchiaino cadde a terra? Eravamo seduti e silenziosi davanti alle nostre tazze di tè e nella stanza risuonò quell’unica nota acuta che ci fece sussultare. In quell’istante percepimmo chiaramente, e in misura sproporzionata, il vuoto che ci legava e che rischiava di dividerci per sempre. Tutto quel che sapevamo di noi svanì come d’incanto e fu sostituito da una luminosa ignoranza. Ci colpì di più quel solitario grido o il silenzio di tomba che subito lo riavvolse? Impossibile dirlo, ma di certo si poteva scorgere la mostruosa tentazione che si celava nell’interstizio di questa alternativa, perché ad essa non si poteva e non si può opporre nulla, perché nulla la può dirimere e nessun criterio può fondare la scelta della nostra attenzione. Si trattava di lasciarsi pervadere da quel suono celeste e festoso, indizio di un risveglio eterno e comunicativo, o di sprofondare nel presagio della solitudine irreversibile che annunciava; si poteva confidare nella possibilità di un eterno e mutuo ritrovarsi, o lasciar svanire ogni suono insieme alla sua eco inaspettata.
E poi ci fu un’altra notte: quella in cui, dopo un morso eloquente, i miei denti si staccarono con cautela dal tuo fianco, mentre con una mano ghermivo il tuo ginocchio, e tu gridasti per lo spavento, segno che quell’atto era stato imprevedibile anche per te. Dopo aver superato quel subitaneo sgomento sembravi adagiata nell’aria, libera a un tratto da ogni peso. Con un movimento che mutò l’equilibrio del tuo corpo e che mai avresti saputo ripetere strappasti anche l’ultimo filo di seta che si frapponeva tra noi e ti volgesti verso colui che non poteva che essere in tutto e per tutto tuo fratello: poi continuasti ad ascendere pur nella caduta, precipitando come una nuvola nelle mie braccia e adagiandoti nella loro dolce costrizione. Così, per uno di quei casi che nessuno può dominare ci ritrovammo insieme, meravigliosamente pacati, affrancati da ogni inquietudine terrena.
In quel momento avrei dato in cambio tutta la memoria della mia vita. In questo nostro tempo s’intende per gioia del sentimento soltanto il vuoto sentimentalismo, e l’ebbrezza lunare è degradata a un’orgia di romanticherie. Non s’immagina che potrebbe invece trattarsi del frammento di un’altra vita. Non è facile capirlo subito, nel momento stesso in cui quella gioia ci pervade, forse perché anche le esperienze più assolute e incantate richiedono, per essere comprese, una certa dose di superficialità, che in quel momento non è possibile esercitare. Le esperienze che vengono comprese non sono capite una ad una, bensì l’una con l’aiuto dell’altra e perciò inevitabilmente sono collegate più in superficie che in profondità. Ma quando la comprensione cede il posto a uno stupore insondabile, allora il più piccolo fatto, quel filo d’erba o i suoni gentili emessi dalle tue labbra quando dici una parola, diventa incomparabile e assume una consistenza assoluta.
Eravamo innamorati senza sapere di chi, eravamo ignari del nostro amore. Come te, anch’io non ero né fedele né infedele e avevo il cuore pieno d’amore e vuoto d’amore a un tempo. Ci piaceva fare quel che molti facevano e partecipare a un modo di vivere che ci toglieva temporaneamente la responsabilità psicologica del nostro. Non sapevamo se eravamo in grado di amare la gente e le cose reali. Anche quest’effetto di sospensione generalizzata del sentimento era probabilmente dovuto a quel che una volta dicesti dissimulando un sorriso radioso: che una persona dall’amore è soltanto in visita… tanto che si potrebbe quasi eliminare la persona stessa e continuare ad amarla.
È proprio nel momento della maggiore intensità che il sentimento è più incerto. Nell’estremo terrore si è paralizzati o si grida, invece di fuggire o di difendersi. Nell’estrema felicità v’è spesse volte una sofferenza singolare, simile a quella che emana da certe nature morte. Avevi anche qui colto nel segno: tutte le vere nature morte possono suscitare quella stessa felice, inesauribile malinconia che tiene due corpi ancora avvinti al mattino dopo una notte d’amore. Quanto più si contemplano gli oggetti che in tali dipinti si ritraggono, tanto più chiaro appare che questi oggetti, mentre si ergono sui confini incerti della vita colmando lo sguardo e paralizzando la lingua, sembrano sospesi in una condizione di solitaria e indecifrabile prossimità che allude alla nostra.
In fondo non era vero quanto aggiunsi, e cioè che tutte le nature morte dipingono la vita al sesto giorno della creazione, quando Dio e il mondo erano ancora soli, senza gli uomini; nemmeno le nature morte potrebbero infatti avere un senso se non alludessero a loro modo alla condizione umana. Lo strano fascino della natura morta è anch’esso una finzione, non di meno di quella che si svolge negli sguardi degli amanti quando sono al culmine della felicità: in quei momenti sono anche loro attori su una scena; a differenza di altri, però, essi recitano per uno stesso e unico spettatore, quasi fossero riusciti a compattare il loro pubblico in un unico sguardo che percepiscono all’unisono. È riconoscendosi mutuamente in quello sguardo che essi riescono a trascendere tanto il loro Io che i loro corpi.
In questo modo riescono, per qualche istante, a spogliarsi di qualsiasi accortezza, a privare il proprio spirito di tutti gli strumenti e impedirgli di servire di strumento. Come dicesti una volta, riescono a togliersi di dosso il sapere e il volere, a liberarsi della realtà e dal desiderio di volgersi a essa, concentrandosi in sé finché mente, cuore e membra non sono tutto un silenzio. Solo così possono accedere a quella liquefazione di sé grazie alla quale il fuori e il dentro riescono finalmente a toccarsi, come se fosse saltato via un cuneo che poco prima divideva il mondo.
Il senso dei nostri sogni paralleli non è stato quello di fare di noi due una creatura sola, bensì di evadere dalla nostra prigione, dalla nostra unità, di diventare due in una congiunzione proprio liquefacendoci a ritmo alternato, tenendo l’altro fermo per un istante contro il cielo per poter bere insieme a lui la vita tutt’intera in un unico solitario istante, quando basta sfiorarsi una mano per far sì che tutto l’indefinibile che è in noi si addormenti trasformandosi nella consistenza più pura.
Sembrerebbe così scoperto il gran segreto dell’amore impossibile: proprio le persone che si amano di più, che riescono a farlo al di là dell’illusione che il loro Io produce nell’impatto col mondo, sono quelle che non possono vivere pienamente il loro amore. La convivenza quotidiana è infatti chiamata a sbattere con fragore contro il centro che condividono, contro lo stesso nulla che percepiscono all’unisono scorrere sotto le ali delle loro vite. I piccoli episodi di ogni giorno, la cose da fare, le tante irrilevanti preoccupazioni e i motivi di altrettante derisorie soddisfazioni, sono destinate a urtare con fracasso contro il loro stato d’animo dominante fino a mostrargli tutta l’inanità della loro prossimità fisica.
Ma anche questa costituirebbe una ricostruzione parziale e omissiva, perché è in fondo proprio tale prossimità che permette di accedere alla bellezza della differenza, alla sua minuta declinazione, alla prossimità che sa evocare, non dissimile da quella che si distende tra le bottiglie o i frutti di una natura morta. Ti ricordi di quella lucertola che in una giornata d’estate lingueggiava sul muro accanto a noi, vicino alla tua mano che sporgeva dalla sdraio? Anche quando vedesti quella lucertola all’improvviso sussultasti. Poi decidesti di cacciarla via lanciandogli dietro un sasso e battesti le mani fino a quando non riuscisti a farla fuggire. In quel momento pensai che l’essere anche tanto diversi era triste come l’essere nati insieme e il dover morire in tempi diversi. Eppure mi parve meraviglioso che tu fossi così diversa da me, che tu potessi fare cose che non ero in grado di prevedere, come lanciare quel sasso a una lucertola ignara, ma che mi appartenevano ugualmente in virtù della misteriosa risonanza che aleggiava tra noi e ci accompagnava fedele, lasciandosi dietro una scia di felicità destinata a proseguire ben oltre il tempo che ci è dato di vivere.
Ma anche la felicità è un’esperienza totalizzante, come la bellezza; come quella, per esempio, di una rosa. È qualcosa di più della somma delle sue parti. Non può essere sezionata: quando la smembri, la bellezza semplicemente scompare. Può rimanere intatta se viene solo contemplata. La sua quieta forma non vuole essere toccata, perché il solo sfiorarla minaccerebbe di lacerarla, e se anche il ricordo può dare l’impressione di riuscire a renderla più pura è solo al prezzo di rinunciare a comprenderla e renderne ragione. Come ogni amore che includa la sua silenziosa consapevolezza anche la rosa non si lascia ghermire dalle spirali delle nostre parole e se ne vuole andare intatta, vuole sfiorire a poco a poco da sola, svanire lentamente nel ricordo lasciandosi dietro solo una breve scia colorata, forse il frammento di un’altra vita parallela e immortale.
Ormai albeggia. Cumulonembi di esteso spessore si profilano all’orizzonte. Elettrometeore al momento sporadiche e onde d’urto udibili a grande distanza non annunciano una bella giornata. Dalla finestra socchiusa entrano in camera i richiami di uccelli di cui non ricordo il nome. Quello che siamo, ciò che alla fine resta di noi, sembra destinato a permanere nel loro canto, nel dormiveglia di un’alba incerta, dietro i nostri occhi. Anche la luce del sole che fa capolino tra le nubi sembra alludere alla possibilità di poterci un giorno trovare di fronte al nostro vero essere, ma sappiamo che non ci sarà mai consentito vederlo. Soltanto di scorcio è possibile talvolta scorgerne in chiaroscuro il profilo, come può capitare con quello del proprio naso, e solo in alcuni momenti d’una chiarezza inconfutabile, quando si è sfiorati insieme a chi si ama dallo stesso sguardo sulle cose, quando ormai persi nello stesso vedere i confini dell’anima si dissolvono, è possibile coincidere per qualche istante col suo centro, che tuttavia si perde ben presto in nuovi pensieri e trasmigra.
Persi in mille e mille sogni, ne cerchiamo uno che ci avvolga e ci conduca per mano. Vorremmo scivolare nel fiume delle sue sequenze, essere accolti nella sua corrente, afferrarne la luce lunare, ma un’altra luce, quella del nuovo giorno, ci ricorda invece il circolo fasullo dal quale non è possibile uscire, e insieme il rituale e irrilevante confine che avremmo voluto trasvolare, la nuova e tardiva rinascita appena sfumata, l’inerzia di tutte le cose, la loro contraddittoria e segreta aspirazione al silenzio, alla quiete e alla vita.
Borges e Macedonio sotto le stelle
Era una notte chiara e l’aria di una canzone triste risuonava in una piazza affollata di Buenos Aires. Il pensiero era leggero e il cuore stava sospeso nel tepore dell’aria estiva. Come capita ai pensatori lievi, lasciava i suoi pensieri nella loro forma nascente, che rendeva più triste e sola ogni canzone. Anche il rumore delle stoviglie che risuonò durante un intervallo musicale gli parve più triste, nonostante il profumo di carne arrostita e di pietanze speziate che faceva venire un certo appetito.
Anche Jorge Luis Borges e Macedonio Fernández erano seduti lì fuori, al tavolino dello stesso bar, lo sguardo ogni tanto rivolto verso le stelle e i lampioni che ne nascondevano la luce. Ascoltavano quella stessa canzone, che ora assomigliava a una sconosciuta di Gardel, mentre lui ascoltava i loro discorsi, la malinconia sorridente delle loro voci.