La dittatura del presente e il bello digitale
In due conferenze tenute nel 1918 all’Università di Monaco (Wissenschaft als Beruf – Politik als Beruf, 1918) Max Weber riassume il senso delle sue riflessioni sul lavoro intellettuale e la politica come Beruf, ovvero, in due parole, come vocazione professionale. Nel primo di tali saggi propone anche una distinzione cruciale: se la scienza progredisce costantemente verso nuove scoperte e successi, e se dunque una teoria scientifica successiva può essere considerata ragionevolmente “migliore”, nel senso di più profonda ed evoluta, di una di un secolo prima, la stessa cosa non può dirsi dei prodotti dell’arte.
Ciò che secondo Weber differenzia profondamente la scienza dall’arte può essere riassunto, citandolo, come segue: “L’attività scientifica è inserita nel corso del progresso. E viceversa nessun progresso si attua nel campo dell’arte. Di un’opera realmente «compiuta» in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia «superata» da un’altra pur essa «compiuta». Viceversa, essere superati sul piano scientifico è - giova ripeterlo - non solo il nostro destino, ma il nostro scopo. In linea di principio, questo progresso tende all’infinito”.
Secondo la tesi di Weber, questa giustificata fiducia nel progresso scientifico è abbinata a un’altra giustificata fiducia in quello tecnologico, ma ciò che vale per la scienza e la tecnica non vale necessariamente per l’arte, così come non vale per tutte quelle visioni e intuizioni del mondo e della vita da cui l’arte trae la sua linfa ispiratrice: queste costituiscono infatti altrettanti conferimenti di senso al mondo e alla vita che non scaturiscono necessariamente dal livello di progresso scientifico o tecnologico di cui siamo storicamente partecipi.
L’idea che si è invece progressivamente sempre più diffusa è che esista un progresso ineludibile in ogni attività umana. Così come un cellulare o un televisore dell’ultima generazione può essere ritenuto aprioristicamente più evoluto, efficiente e complessivamente migliore di qualche modello precedente, per analoghe ragioni si tende a pensare, specialmente tra i più giovani, che un’opera d’arte, un romanzo, un brano musicale di oggi sia preferibile a opere analoghe di venti o cento fa. Con una tipica argomentazione viziosa si tende cioè a considerare quanto avviene dopo migliore di ciò che è avvenuto prima per il semplice fatto che il “dopo” include sempre qualche forma di progresso. Non a caso, il dopo ultimativo del presente risulta più fruibile e più interessante: esso è in grado di riflettere meglio il proprio tempo, il tempo contemporaneo.
Essere un altro, nei sogni di altri
Nell’introduzione a Lo specchio che fugge, il volume di racconti di Giovanni Papini pubblicato in traduzione italiana ne La biblioteca di Babele, la storica collana di Franco Maria Ricci curata dallo stesso Borges, quest’ultimo spiega le ragioni della sua ammirazione per uno degli autori che, insieme a Dante e a Croce, lo indusse a imparare l’italiano e che oggi è spesso relegato, anche in molti manuali liceali, entro desolanti spazi marginali.
“A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno. Ho citato Poe; – continua Borges – potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni”.
La silloge di racconti in oggetto inizia con Due immagini in una vasca, in cui un uomo si specchia nel riflesso acqueo della sua immagine di sette anni prima. Dopo aver constatato che soltanto l’impossibile diviene reale, dato che solo l’impossibile condivide col reale una dimensione assoluta, prenderà atto che dalla convivenza con quel se stesso anteriore scaturirono per lui alcuni giorni d’impreveduta gioia, che poi, a poco a poco, si trasformò tuttavia in insofferenza e disprezzo.
Nel secondo racconto, Una storia completamente assurda, un uomo trova per caso nel libro scritto da un altro, a lui in precedenza ignoto, il resoconto esatto della sua vita, presentata come fosse una storia immaginaria, storia che il suo inopinato protagonista in carne ed ossa confesserà poi all’autore di trovare “stupida, noiosa, incoerente e abominevole”.
Ricordo di Pietro Ceretti: un artista di strada, un poeta e un filosofo erroneamente poco celebre
Nel discorso commemorativo del primo centenario della nascita di Pietro Ceretti (Intra, 1823-1884) un altro piemontese, Piero Martinetti (Pont Canavese, 1872, Cuorgnè 1943) ricorda che un elemento importante della sua formazione umana e culturale furono i viaggi, “che egli intraprese dall’età di ventun anni per tutta l’Europa, errando, come i saggi antichi, senza meta, col solo fine di vedere la varietà degli uomini e dei loro costumi. Egli viaggiava a piedi, con la massima semplicità”. Viaggiava fingendosi operaio o bracciante e accompagnandosi talvolta a zingari o vagabondi. A Parigi una volta entrò in un’aula della Sorbona per ascoltare una lezione e dalla reazione basita dei presenti si capisce che il suo aspetto non doveva essere dei più rassicuranti.
Riferendosi a questo periodo giovanile della sua vita lo stesso Ceretti lo descrive così in una delle sue opere (Viaggi utopistici, 1878): “in questa somma libertà della mia vita errabonda ho praticato molte cose, che nel mio paese nativo sarebbero titolate inqualificabili stramberie: per esempio, ho potuto vagolare con un organetto per divertire i popolani, i ragazzi, e le ragazze che mi ballavano intorno, mentre un mio intrinseco vagolava per la debita questua. Ho potuto associarmi con un gessino e un girovago portatore di organetto, i quali erano vagabondi mio pari. Mi ricordo che in simili circostanze si cenava con una zuppa nel medesimo tegame, che serviva per i tre, e ci coricavamo qualche volta in una sola camera”.
Ma chi era questo curioso personaggio, artista di strada e intellettuale, poeta e scrittore, suonatore di organetto nonché autore di ponderosi trattati filosofici di matrice hegeliana? Sicuramente, a distanza di circa un secolo e mezzo dall’epoca in cui ebbe a vivere, la sua celebrità non si è mai discostata molto da quella, piuttosto inconsistente, su cui aveva esercitato la sua autoironia. Il gusto della solitudine e un sereno misantropismo gli consentirono infatti di tenersi alla larga dalla tentazione di voler conquistare successo e fama, e ciò anche grazie a una notevole dose di rigore intellettuale e all’esercizio dell’astinenza pubblicistica.
E in questo istante tu dormi e sorridi
Lo sdegno che da ragazzo Lapo provava per l'ingiustizia gli era rimasto nel sangue, come il gusto di ricordare. Anche nella capanna assediata dalla furia di un temporale il passato lasciava la sua orma. Gli uomini scompaiono tutti, pensava, chi da gigante e chi da nano, sotto il cielo stellato o dentro un abisso di silenzio, scompaiono lasciando una debole memoria o una traccia profonda.
Quando si fu estinta in lui ogni forma d'intolleranza giovanile, quella "che divideva gli uomini in 'compagni' e 'nemici', che rendeva ciechi di fronte alle ragioni dell'altro, al mistero del suo essere uomo", il professor Lapo Tusci, docente di materia letterarie, si recava spesso sul passo di Dante, sul colle per cui i pisan veder Lucca non ponno: gli piaceva pensare che da lì fosse passato il sommo poeta e vi si tratteneva a lasciar affiorare i ricordi della sua vita. Di quando bambino, in soffitta, osservava il pulviscolo danzare in un fascio di luce mentre spiava le formiche, o di quella volta che schiacciò un ragno facendone uscire un liquido giallognolo. Da quella soffitta "il mondo gli pareva piccolo e buffo" e mentre sognava di recitarvi un ruolo da protagonista si sentiva già un suo spettatore appartato.