Beniamino della vita


Questa lettera immaginaria si figura che sia stata scritta, successivamente alla fine de “La montagna incantata”, da Giovanni Castorp a Ludovico Settembrini dal fronte italiano, durante la prima guerra mondiale, alcuni mesi dopo il loro ultimo incontro.


Carissimo Settembrini,
Le scrivo dal fronte di questa guerra appena iniziata e già troppo lunga, da questo cono d’ombra che la morte proietta in un modo forse meno subdolo del consueto sulla vita di tanti. Qui siamo come fantasmi un po’ sporchi rimasti intrappolati nella vita di un altro un po’ anonimo, di uno dei molti altri che popolano queste trincee. Ma anche i fantasmi di fango pensano, sperano e ricordano, e i miei ricordi della nostra amicizia e dei suoi insegnamenti mi aiutano a sentirmi ancora vivo e pronto a iniziare sempre da capo, a veder brillare le coppe della gioia nonostante la precarietà della situazione, dovuta per buona parte al fatto che i cecchini suoi connazionali hanno l’abitudine esecrabile di spararci con una certa precisione.
L’unico vantaggio che contraddistingue la mia posizione rispetto a quella di molti colleghi, è che nel mio caso qualche ferita potrebbe peggiorare solo relativamente il mio stato di salute, che come può facilmente immaginare non è ottimale, sebbene negli ultimi tempi mi sia sentito, per ragioni che non mi azzardo a voler comprendere, un po’ meglio del solito.  
Poiché non voglio tediarla con quello che entrambi consideriamo ormai – dopo il lungo apprendistato al disincanto che abbiamo portato avanti con tanto scrupolo sulla nostra montagna incantata – un argomento inutile, troppo fondamentale per essere trattato seriamente, vorrei raccontarle come trascorre ora il suo tempo quello che lei, con un eccesso di ottimistica benevolenza, definì un giorno “beniamino della vita”. Ebbene, questo presunto beniamino procede barcollando con le scarpe appesantite dal fango, canticchia ogni tanto - sottovoce, e quando le forze lo sostengono a sufficienza - un’aria di Schubert (per la cronaca, si tratta di “Vicino alla fontana”, da il “Tiglio”) e cerca di evitare di essere colto di sorpresa da qualche proiettile troppo scrupoloso.
Come vede, sono tornato a darle del lei, nonostante quel suo ultimo saluto con il tu mi avesse fatto un immenso piacere e non vedessi l’ora di ricambiarlo. Quell’ “addio Giovanni mio” è un lascito prezioso, che porto con me come un tesoro a cui getto ogni tanto uno sguardo grato. Tuttavia, probabilmente qui la distanza dalla vita, e al tempo stesso un’eccessiva prossimità alla vita, fa assumere anche al tu un alone troppo confidenziale e fiducioso nel futuro, che si nutre qualche diffidenza ad assecondare.
Quel batticuore immotivato che affliggeva il nostro Gioacchino durante la cura del riposo qui arriva spesso di soprassalto per un nonnulla, ma con altrettanta imprevedibilità termina in un ultimo pigro sussulto. A parte i momenti della posta e del rancio, le ore passano tutte quasi eguali, non ci sono segni particolari a scandire il tempo, nulla di nuovo si annuncia per giorni e anche la voglia di battersi tende a farsi sempre più fievole e incerta.
I rumori sordi che provengono dalle trincee nemiche e l’odore del loro fuoco accompagnano un chiacchiericcio brumoso e  vago, che mi fa avvertire in maniera ancora più acuta la nostalgia delle nostre conversazioni. Più in particolare, mi manca il suono fluido del suo eloquio, il piacere che sapeva indurre nell’ascoltatore, il gusto per la precisione nelle scelte lessicali e per la rigorosa costruzione di qualsiasi frase fin nelle subordinate più remote. In lei ho trovato quella chiarezza di pensiero che favorisce di per sé la coerenza delle proprie azioni con le proprie convinzioni, incoraggiandola e promuovendola, e di quest’esempio  penso che le sarò sempre grato. La sua fiducia nella libertà e nel progresso sono inseparabili da questa sua passione per la chiarezza, dalla sua fede in un’universale intelligibilità. Persino la sua ammirazione per la bellezza, anche per quella del corpo, sembra derivare dal gusto per la chiarezza dell’espressione e dal rispetto della sua vocazione comunicativa.
Si ricorda?! ... Per il nostro amico Nafta (credo converrà con me che quest’appellativo si addice più di ogni altro anche al tenore dei rapporti intercorsi tra voi, se non altro per il rigore e la passione con cui entrambi cercavate la vostra verità) le sofferenze e le brutture del corpo erano il viatico per accedere ad ogni forma di autentica compassione, a qualsiasi ascesi spirituale, l’unico modo per non cadere in un edonismo fondato sul computo spicciolo di svantaggi e vantaggi occasionali che la vita ci propone. Per lui anche il diavolo era un prezioso alleato di Dio in questo: essi erano uniti contro ogni forma di borghesismo della vita, contro qualsiasi etica calcolante che si limitasse a tener conto del saldo complessivo tra bene e male, che fosse cioè volta ad un’opera risparmiatrice del male necessario che doveva essere secondo lui presente in ogni bene. A lei rimproverava di voler trasformare gli esseri umani in macchine sempre più perfette affinché potessero diventare tutti insieme vecchi e felici, ricchi e sani. La sua etica era per lui fatta di ragione, lavoro e ricerca della felicità, dove l’ultimo termine costituiva lo scopo dell’esercizio dei primi due, e forniva dunque un robusto esempio di filisteismo borghese.
Ma io non ero d’accordo: non sono mai stato interamente sedotto dalla visione del mondo di Nafta, nonostante lei temesse che la sua influenza su di me potesse rivelarsi deleteria. E tuttavia devo ammettere che le considerazioni del nostro caro gesuita erano ricche di spunti per il pensiero e stimolanti per sperimentare qualche rovesciamento di prospettiva. In particolare, mi hanno aiutato a comprendere lo stretto legame, il connubio indissolubile, che esiste tra la vita e la morte, tra la gioia e il dolore, tra ogni presunto male e il bene che può saper nutrire, se lo sappiamo accogliere e ascoltare. Un instancabile ossimoro è la vita - mi verrebbe da esclamare se non temessi d’infastidirla con un’espressione che suona così enfatica – tanto che persino quest’aria che mi capita sovente di canticchiare mi pare simpatizzi, in una sua modalità segretamente gioiosa, in qualche modo con la morte.
Anche i fiocchi di neve simpatizzano con la morte. Tradiscono la loro sostanza organica e sembrano spille di brillanti, i ricami di una tela celata alla vista,  fessure che ne rivelano l’ordito segreto e l’implacabile spirito geometrico, nonché il calmo incedere verso una pace sovrana nonostante il moto irregolare e turbolento.
Fu durante una nevicata, un giorno che ero andato a sciare dietro il Berghof, che provai una simpatia nuova per la natura, con le sue montagne di nebbia e la danza della neve, un coraggio pungente e arcano che m’induceva a volerne affrontare le asperità. E fu quel giorno che mi parve di udire per la prima volta il battito del mio cuore. Mi ero perso nei vapori della tormenta e tutto, le vette dei monti come le cime degli alberi, erano ormai preclusi alla vista. Per la prima volta nella vita mi sentii completamente solo. Una solitudine senza appello, radicale e inconfutabile, densa come la nebbia in cui ero avvolto e di cui mi pareva di riconoscere l’odore, quasi fosse stato l’odore stesso dell’essere che si dissolve in nulla. Non si sentiva alcun suono e mi accorsi di avere paura. Non so nemmeno io di cosa, ma non saprei definire in altro modo quello che provavo. Ricordo però che mi vennero in mente le parole di Nafta: Praeterit figura huius mundi. In effetti, che altro è la nostra vita in questo mondo, se non una scena che passa e presto finisce? Che passa, intendo, come la scena che qualche rada nube sta disegnando proprio ora su questo cielo azzurro, che sembra ignaro del tempo che passa mentre ci avvolge e avvicina alla meta?
Mi capitò di comprendere a fondo, e forse per la prima volta, il significato e la verità di questa citazione paolina del nostro amico un giorno in cui stavo risalendo il crinale di una montagna e sentii il mio cuore battere forte e veloce per la fatica e la paura. Mi sembrò il cuore spaventato di un animale in fuga da un predatore tenace e mi fermai per ascoltarlo meglio. In quel silenzio totale era l’unico suono distinto che potessi sentire, oltre il lieve silenzio della neve, e allora quel mio cuore spaventato m’ispirò simpatia, quasi una commozione sconosciuta, e poi mi accorsi che quella commozione così liberatoria non era diretta solo al mio cuore, che quella commozione non era originata solo dal suo pulsare impaurito, ma dalla vita stessa, dalla vita di qualsiasi essere umano, di qualsiasi essere vivente, e forse anche non vivente, come se tutto intorno a me si rispecchiasse in quel battito concitato e risuonasse all’unisono con lui nel medesimo assoluto vuoto, nel bianco della neve che cadeva e nel silenzio che con cui ci avvolgeva tutti. Anche la neve che cadeva in quel momento m’ispirava simpatia e tenerezza, perché ci abbracciava tutti con lo stesso silenzio e trasformava la solitudine di un solo cuore nel pulsare stesso della vita e dell’essere che si profilava lungo i contorni del nulla.
Ogni  tanto il ricordo di quella giornata mi consente di avvertire qualcosa di simile alla simpatia e alla pena che il battito del mio cuore m’ispirò allora, e curiosamente questo sentimento si mescola nella mia memoria con altri ricordi e immagini, come l’infinita pietà e coerenza che, oggi mi è chiaro, si fusero insieme nel gesto con cui Nafta pose fine alla sua esistenza. Quello che potrebbe ancor oggi sembrare a qualche sprovveduto solo un artistico modo di morire, fu invece la coerente e implacabile presa d’atto che, per le persone di grande qualità spirituale,  è molto più difficile assolversi da soli che condannarsi da soli.
Credo che, almeno in parte, io le sia debitore per avermi sollevato da questo compito, o perlomeno per avermi evitato di potermi trovare nella tentazione d’indugiare troppo a lungo sulla possibilità di una simile autocondanna. Oltre che un grande privilegio, l’essere stato da lei definito un “beniamino della vita” ha costituito per me un riferimento essenziale e, forse, un suggerimento salvifico. Anzi, ormai penso che l’essere considerati da qualcuno che si stima, e verso cui si nutre anche un grande affetto, una profonda simpatia umana, come “un beniamino della vita” sia esattamente ciò di cui ciascuno avrebbe bisogno per imparare a provare la stessa simpatia anche per il proprio cuore, quando sobbalza rapido e febbrile nel bianco di una tormenta, sopra l’ultima, morbida neve che cade.
Quando lei mi definì in questo modo quest’espressione mi piacque, mi procurò una sorta di subitaneo ristoro, ma allora non capii nemmeno io bene il perché. È stato proprio in questi giorni, ripensando qui, tra queste trincee spolverate di bianco, proprio a quella nevicata, che mi è parso di capire il motivo di quel senso di sollievo e di pietà.
Proprio in questi giorni mi sono spesso interrogato su quale sia il segreto della pietà, il movente che può farla scattare anche verso di sé, la chiave per accedere a quella pietà di sé che sta alla base di ogni consonanza con la natura e con la vita tutta intera e che, almeno credo, non è che un altro nome della Grazia. Ecco, vorrei dirle che proprio l’esercizio a immaginarmi come un “beniamino della vita” mi ha fatto intravedere questo segreto. Non credo che sarei mai riuscito a sentirmi in questo modo, nemmeno per brevi momenti, se lei non avesse usato questa espressione, se non mi avesse riconosciuto come tale, mentre è chiaro che ciascuno dovrebbe sentirsi così, qualsiasi cosa accada, anche in una trincea dove si stenta a ricordarsi cosa significhi vivere. Ma basta un refolo di vento, un profumo all’improvviso a ricordarcelo, a irrompere in un’accidia che incombe e che altrimenti rischia di ricoprire ogni cosa. Anche la mano di chi si trova di fronte a noi per ucciderci può ricordarcelo, perché anche davanti ai suoi occhi siamo in qualche modo un bersaglio prezioso e perché anche in quella mano c’è fame di vita: quella mano si attacca alla vita e ci vuole uccidere, e come la nostra è pronta a sparare, perché la vita ci ha eletti tutti in qualche modo suoi devoti fedeli e suoi prediletti beniamini.
Mi sono chiesto tante volte cosa quest’espressione, in definitiva, volesse dire. Ho pensato che potrebbe significare la capacità di lasciarsi guidare da un buon demone e che alluda al sentirsi tenuti per mano, così da poter procedere con passo confidente, sollevati da qualsivoglia eccessiva responsabilità nei confronti di sé per l’essere riusciti ad accettare serenamente la condizione d’essenziale “ignoranza” in cui si versa, un’ignoranza che ci rende tutti a un tempo spaesati, leggeri e innocenti al cospetto di qualsiasi dover essere o colpa eventuale, di qualsiasi missione o imperativo. Persino l’esercizio della nostra consapevolezza, che pur ci sentiamo giustamente di dover praticare, non dovrebbe mai farci dimenticare del bianco lattiginoso che ci avvolge incessantemente e che all’improvviso può ricoprire col suo manto la vita, tutta la vita in pochi istanti, in quegli stessi istanti in cui ci si accorge di essersi perduti e di non essere più in grado di ritrovare qualche orientamento. Anche in quei momenti un “beniamino della vita” dovrebbe saper ritrovare il suo passo leggero e lasciare che la notte avvolga in silenzio il proprio respiro, restituendogli la cadenza del sonno e ridando al suo viaggio la dimensione del sogno, per poi risvegliarsi di nuovo al mattino in una luce ancora una volta limpida e tersa, come se tutto dovesse sempre ricominciare in eterno.  
Proprio mentre stavo attraversando uno di questi risvegli, stamani mi sono trovato a pensare a lei e alle nostre passeggiate con una nostalgia più acuta del solito. Per questo ho finalmente deciso di scriverle. Ma ormai il sole è alto, l’alba pare trasfigurarsi in meriggio, in un meriggio che ha colori e profumi marcatamente italiani. È quindi giocoforza che ora debba lasciarla, purtroppo in maniera molto più frettolosa di quanto vorrei, perché i suoi connazionali stanno intraprendendo un’azione particolarmente fastidiosa, un’azione da veri, devoti “beniamini della vita”, sommergendoci di raffiche di fuoco che potrebbero preludere a un attacco decisivo. È quindi con una certa fretta e un certo affanno che ora la saluto, sperando di poterla rivedere e riabbracciare presto.

Con amicizia e gratitudine

Suo Giovanni Castorp