Benny e i discorsi degli angeli

  

   Nell’intento di agevolare l’immaginazione del cortese lettore forse dovrei anch’io, come capita talvolta nei racconti più realisti e promettenti, principiare la narrazione con una descrizione della protagonista principale, ovvero della sottoscritta medesima. A tale proposito, dovrei forse innanzi tutto precisare che sono piuttosto magrolina, non troppo alta per la mia età, scura di capelli e di carnagione. Oppure farei bene a dilungarmi sul mio naso sottile e sui denti affilati, che quando rido mostro in tutto il loro accattivante splendore, o sui miei occhi verdi e scuri, che riscuotono in genere lusinghieri apprezzamenti. Forse dovrei chiarire subito che la mia intelligenza è unanimemente ritenuta assai avida ed originale, e magari ricordare che alcuni trovano i miei modi piuttosto scostanti, la qual cosa non mi sentirei sinceramente di negare, visto per esempio che non mi faccio pregare due volte per assumere un’espressione lievemente disgustata se qualcuno dice qualche cosa che trovo semplicemente grossolana.

 

 

   Ma rispetto all’argomento che vorrei trattare (a proposito, mi scuso fin da ora per le rime, ma credo di non poterne proprio fare a meno, per una specie di voglia di qualcosa che ritorni dentro i suoni, che non so come mi è venuta, ma che ormai si è radicata nel profondo della gola) credo, dicevo, che tutte le informazioni che potrei fornire a proposito della mia persona abbiano un’importanza del tutto marginale. Quello di cui invece ho intenzione di fare un ampio resoconto è un fatto successo qualche tempo fa e costituisce un’ulteriore conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, dell’esistenza di spiriti che, in qualsiasi modo li si voglia chiamare, sostano in una zona senza peso della vita: ovvero di anime rispetto alle quali il fatto d’avere carne ed ossa o di non averne affatto è momentaneamente del tutto indifferente, e che hanno forse la funzione - ma questa è solo una mia illazione - di ricercarne certe altre disperse come loro, incapaci di andarsene in santa pace via dal mondo stretto in quello largo dove ciascuno è tutti gli altri e nessuno è fisso nell’idea d’essere uno soltanto.

 

   A tale scopo è forse opportuno incominciare a dire che mio nonno valutava le convinzioni generalmente diffuse intorno a certi animaletti dall’aspetto poco rassicurante nient’altro che pavidi pregiudizi, e che per quanto mi concerne ho sempre condiviso in pieno la sua opinione in proposito. Sebbene nel caso di vipere e scorpioni tali pregiudizi possano trovare una parziale giustificazione nelle proprietà chimiche di alcuni loro liquidi facilmente iniettabili, a proposito delle splendide salamandre e dei mitissimi gechi, bestioline quant’altre mai inoffensive e graziose, può trattarsi in effetti solo di sciocche superstizioni della sensibilità umana.

 

   Ora, il breve episodio che mi accingo a narrare - dopo aver effettuato una meticolosa ricostruzione degli avvenimenti utilizzando anche il sofisticato registratore con il quale il caro progenitore era solito immortalare le voci od i rumori dei suoi vari animaletti - trae spunto proprio dal mio rapporto con le bestiole ereditate dal nonno cui ho appena fatto cenno. Queste infatti erano state prescelte dal loro consolatore, o se volete tormentatore, che non è poi tanto diverso, in special modo per la loro bruttezza, o se preferite, per una qual certa ripugnanza che sono solite suscitare, e quando io, in ancor più tenera età rispetto a quella in cui mi trovo adesso a transitare, m’interrogai sull’origine di simili gusti e gli chiesi il perché di tali preferenze, egli non mi degnò di risposta alcuna. Solo una sera piovigginosa di qualche tempo dopo, mentr’eravamo sopra il ponte stretto che dalla piazza oltrepassa il fiume, rimasi sospesa a metà di un passo per l’impressione di aver capito il suo punto di vista e m’arrestai di botto per comunicargli la mia scoperta. Fermatosi anche lui e scrutandomi negli occhi con i suoi tutti incuriositi, con attenzione estrema ascoltò la spiegazione delle mie parole, e dopo aver avuto appena il tempo di mutare espressione mi strinse forte tra le braccia sopra il cuore. 

 

   Oggi quelle stesse bestiole le custodisco nel medesimo posto, ovvero nella sala principale della casa, e persino sopra il letto, in delle apposite bacheche di vetro attaccate al muro, dove del resto le teneva in gran parte anche lui. Oltre alla summenzionata collezione, il nonno mi ha involontariamente lasciato in eredità tante altre vite che ogni tanto ritrovo nelle nostre letture preferite, ed anche il gusto d’immedesimarmi in certi personaggi avventurosi, come il Re Lear che piangeva senza lacrime, Tom Sawer e Huck Finn con i loro scherzi senza fine oppure gli altri ragazzi del Pian della Tortilla che avevan sempre fame di qualcosa. Ma quando gli veniva in mente mi parlava di persone anche reali, purché avessero almeno una cosa che gli stava a cuore nella vita, come un motivo di languore o d’indignazione per una faccenda allegra o dolorosa.

 

   Oltre a tutto questo, o se vogliamo, in certo senso, ancora prima, il nonno mi ha lasciato la sua cara sposa, la quale, dal tempo della sua dipartita, è piuttosto giù di morale, se ne sta sempre in una stanza e vive come una reclusa. Il motivo di tale prolungata assenza dal consorzio civile potrebbe essere verosimilmente ricondotto all’inopinata scomparsa del marito, che era tra l’altro un buon amico di tutto il vicinato, e per lei una persona umana di cui s’era una volta per tutte innamorata, sebbene lo affliggesse spesso a più non posso con abbondanti rimostranze per delle inezie senza peso. Così ella poté appurare, in maniera incontrovertibile quanto repentina, dopo un’esistenza assai felice in compagnia del suo consorte devoto, la vanità del vivere umano e del breve gioire che le è dato, e ora giace rattrappita in camera senza fare checchéssia, assorta in scie di rutilanti e inconclusi pensieri, uscendone appena il tempo necessario per arraffare qualcosa di commestibile nella disadorna cucina quando è afferrata da attacchi di fame incontrollata.

 

   Il vezzeggiato compagno della sua età più lieta si era dunque dissolto nel niente poco di quel che gli restava della vita, dileguandosi nelle rade nebbie d’un mattino di tarda primavera. In quei giorni ero appena giunta da Edimburgo per trascorrere in Italia, come al solito, le vacanze estive. Avendo mia madre risposato un dentista, appunto, edimburghese, ed essendo questo dentista, a parte un accento anglofono piuttosto ispido, persona affatto civile e perbene, e tutto sommato nient’affatto stupida, avevo accettato di buon grado, ancora in tenera età, di andare a vivere in quel paese battuto da venti gelidi e impietosi; ma l’estate, anche per questo, ho sempre preferito trascorrerla dai nonni, che abitano a Roma, in una bella casa che si affaccia su una piazzetta assai graziosa.

 

   Si potrà quindi comprendere il mio rammarico quando - ormai son passati quasi tre mesi - quello che per me era il principe dei parenti, il sorridente compagno dei miei divertimenti più spassosi di dodicenne smaliziata non rientrò, non lasciò più tracce, scomparendo del tutto e all’improvviso dopo una passeggiata mattutina. Ovviamente, come si conviene in codeste circostanze, avvertimmo subito, la nonna ancora in senno ed io, oltre al contado, la cara mamma ed il rispettivo sposo, i quali, sopraggiunti d’urgenza, cercarono accanitamente lo sparito per alcune settimane mobilitando varie forze dell’ordine e preavvertendo gli uffici consolari. Ma ormai rassegnati dopo tante ricerche tanto vane, dovendo rientrare al loro studio medico - sempre ben rassettato e fornito di vista sul mare, che da quelle parti è a volte d’un blu livido e sinistro - madre e patrigno congiuntamente ebbero la brillante idea di affidare, a me ancora inesperta della vita, l’incombenza d’occuparmi per quest’estate della nonna rimasta sola nella casa, e per lo più uscita prestamente fuor di testa. Da quel momento provvedo alle più elementari esigenze di ambedue: faccio la spesa con i soldi che mi hanno lasciato ed appronto il bucato strettamente necessario per entrambe, oltre ad un sacco di altre incombenze più o meno varie e divertenti.

 

   Nonostante tutti questi molteplici impegni dispongo di alcune ore libere, che impiego nei modi più interessanti: andando a caccia di nuove bestiole nei parchi delle ville vicine, leggendo qualche pagina dei libri che mi declamava il disperso recitando, ballando da sola nella casa e, ancor più di frequente, contemplando dalla sala quel che avviene quasi sotto la finestra. Infatti sono solita trascorrere buona parte dei pomeriggi ad osservare la scalinata che, dal centro della piazza, culmina in un giardinetto sul quale, appena due metri sotto il mio davanzale, svettano tre alberi alquanto smilzi, per la precisione un vecchio leccio e due magnolie.

 

   Per l’appunto, alcuni giorni dopo la partenza dei miei, terminato appena un nubifragio, me ne stavo a guardare quello che succedeva nello spazio sottostante quando scorsi sbucare da un portone un tipo dall’aspetto trasandato, che fin’allora non avevo mai notato. Non appena ebbe lasciato il suo rifugio questi si arrestò per qualche istante al riparo d’una grondaia sgocciolante sul selciato, inspirando più volte con un’espressione ottimista sulla faccia e con l’aria di godersi il fresco dei raggi del sole appena rispuntato. Trattavasi d’un figuro alto e corpulento, con l’aria assonnata e la barba, come si conveniva del resto alla sua condizione, rigorosamente incolta. Indossava un vecchia giacca sdrucita e, nell’incamminarsi di nuovo verso la scalinata, si mise a fischiettare tranquillo un motivetto. Non appena giunto a sedersi sugli scalini si tolse una scarpa, che si rimise dopo essersi annusato il piede che già vi era in precedenza contenuto. Quindi estrasse dalla borsa un cartello, sul quale era scritto il seguente messaggio carico di allusioni: “la mano tasta dove la tasca duole”. Espostolo alla vista dei passanti, si apprestò ad osservarli in transumanza. Alcuni transitavano a bordo delle loro automobili, altri a cavalcioni delle loro motociclette ed altri ancora, più semplicemente, calzati dentro le loro calzature. Quando una vecchia signora compunta attraversò la piazza senza palesare di notarlo il barbuto signore dette un’occhiata alle proprie mani e le strofinò contro un lembo della giacca. Poi seguì con lo sguardo le gambe candide di una turista, la cui testolina bionda oscillava leggermente sotto un cappellino celofanato, e alzatosi in piedi la seguì per un tratto con una calcolata lentezza, senza alcun ragionevole motivo. Ma di colpo s’arrestò, fermandosi ad osservarla camminare: i lattei polpacci nervosi di lei si allontanavano svettando, affrettandosi verosimilmente verso un luogo predestinato, e lui, il barbone, dopo un meditato ripensamento, tornò a sedersi vicino al suo cartello, dove dedicò alcuni istanti alla contemplazione del cielo con i suoi mutevoli squarci d’azzurro ritagliati in brandelli di nuvole. Dato che una sua gamba sporgeva sul marciapiede, un elegante passante con una valigetta d’ordinanza dapprima rischiò d’inciamparvi, e poi procedette comunque senza batter ciglio.

 

   Dopo essere stato oltrepassato il tizio barbuto decise di mettersi più comodo, e a tal fine distese anche l’altra gamba, intrecciando le mani dietro la nuca; ma quasi subito un ragazzetto, a bordo di una bicicletta da montagna assai gommata, gli girò prima intorno e poi gli si piazzò di fronte, fissandolo assorto con aria incuriosita. Allorché lui, senza analizzarlo troppo, gli chiese degli spiccioli, il giovinetto si frugò le tasche, entro le quali, avendo reperito solamente un pezzo forse troppo grosso, magari uno bicolore da cinquecento lire (su questo naturalmente non ci potrei giurare), non glielo voleva dare. Tuttavia, in un secondo momento, afferrato da un certo lieve scrupolo, decise di cercare ancora e, trovata un’altra moneta di valore inferiore, probabilmente da cento sole, gli pose quella nella mano ancora tesa. Ringraziatolo con un mezzo inchino il barbone l’osservò pedalare a zig e zag, lentamente e senza alcuna direzione prestabilita. Quando lo vide imboccare una stradina che si biforca dalla piazza, dopo averci pensato un po’ su, ma in tutta evidenza stufo di qualcosa, rimise nella borsa il cartello con la suddetta scritta e s’incamminò nella stessa direzione.

 

   Non appena si fu allontanato dalla piazza, da un’altra strada sopraggiunse un secondo individuo con passo esitante e circospetto, che mi parve a tutta prima collegato col primo per l’aspetto. Tuttavia, a differenza del precedente, questo era privo di barba, ed inoltre agitava in avanti un suo bastone bianco con il quale tamburellava sull’asfalto. Una volta urtato con detto bastone il gradino più basso fece un altro passo e poi si mise a sedere. Questo secondo tizio sbarbato era anche, al contrario del primo, piuttosto magro e allampanato, e tale allampanatura mi risultò ancor più evidente quando, dopo un istante, essendo sul momento infastidito da un prurito, prese a grattarsi con protervia un ginocchio con una smorfia di piacere disegnata sulla bocca semiaperta. Quindi estrasse fuori dalla giacca uno specchietto e, sostenendolo con la mano davanti al viso, dopo essersi aggiustato con l’altra i radi capelli lo rimise in tasca. Proprio in quel mentre la ragazza col cappellino celofanato ripassò nella direzione opposta e lui mi parve assecondare con una lieve rotazione dell’esiguo collo il rumore nervoso dei suoi tacchi sull’asfalto.

 

   Ritornando viceversa da un altro versante della stessa piazza il barbone grosso e colorito mordicchiava una mela con aria soddisfatta. Prima di recarsi alla scalinata volle sostare davanti ad un’edicola sacra che si trovava proprio sull’angolo della strada e qui, accortosi che un vasetto di fiori secchi si era rovesciato, lo raccolse da terra e alla bell’e meglio lo rimise a posto. Tuttavia quel grazioso recipiente, insoddisfatto senza alcun motivo evidente dell’equilibrio raggiunto, precipitò di nuovo, e lui dovette flettersi a raccoglierlo inchinando nuovamente il ventre obeso sopra le ginocchia. Una volta riuscito ad incastrarlo per bene nel suo sito, dove il suddetto vasetto pareva adesso intenzionato a rimanere, si diresse compiaciuto verso i soliti scalini, senza voltarsi nemmeno quando, nel suo procedere, udì distintamente il suono del medesimo contenitore che ricadeva a terra. Per tutta risposta, sollevato un braccio in un’eloquente gesto di rassegnazione, accelerò il passo verso la sua postazione accanto all’altro signore, il quale, tacendo ostentatamente al sentore della sua persone, aveva nel frattempo estratto dal giaccone un pane intero ed un coltello.

 

  Perché degli esseri umani possano avere un’apparenza tanto stonata è un segreto che risiede forse nel palpito tumultuoso d’ogni cuore che sia stato ferito senza che gli fosse concesso il destro di condurre una battaglia regolare. Ma in ogni caso, per qualsiasi motivo o movente, a chiunque sia d’assegnarsi quel che si chiama la responsabilità della situazione, questi due, ancorché miserrimi all’aspetto, assomigliavano a certe coppie celeberrime, quali Stanlio ed Olio, Sussi e Biribissi o Don Chisciotte e Sancio Panza, anche se per nessun indizio parevano consapevoli della loro asimmetrica congiunzione né delle sue felici evocazioni. In particolare, persino la malinconia che affliggeva il più lungo dei due mentre affettava del pane anche per l’altro, che in quel momento pareva alquanto imbronciato, ricordava in qualche modo quella del cavaliere errante, manifestandosi però non nell’urgenza d’una intrepida avventura, ma distrattamente in quell’occupazione provvisoria e concentrata del tagliare fette di pane in soprannumero, con un movimento del braccio leggero e pigro a un tempo che sporgeva al di sotto del suo cranio secco, sotto l’incavo degli occhi grandi e ombrosi, nella luce dorata del meriggio che reclinava.

 

  Ad ogni modo, l’unica prova che si trattasse di esseri siffatti, ovvero, quali potei successivamente appurare, di veri angeli sul momento in carne ed ossa, fu in effetti solo la loro repentina dipartita, quel dissolversi in una trasparenza pura senza nemmeno lasciar trapelare una qualche spumosa scia o celeste nuvoletta. Per il resto, se non fosse per questo, non si potrebbe certo assegnare loro meriti d’un qualche rilievo morale, che almeno in mia presenza non compirono gesta pietose degne di nota, limitandosi per lo più ad alternare brevi alterchi colloquiali con prolungati silenzi ben più spessi e densi di esiziali significazioni.

 

  Comunque sia, per riprendere il filo da dov’eravamo rimasti, il cartello ch’estrasse questa volta dalla borsa il più massiccio portava la scritta seguente: “date a Cesare quel ch’è di Cesare”, e il suo autore scelse di collocarlo proprio ai piedi del vicino, che imperterrito insisteva nel non proferire verbo alcuno, inducendolo di conseguenza a fare altrettanto. Ma sul più bello, proprio mentre quest’ultimo stava iniziando a tacere, s’accorse che l’altro fissava qualcosa, e lui cercò subito di capire che cosa. Seguì la direzione del suo sguardo fino a quando non incontrò quella cosa, una cosa tonda, per la precisione una trottola in cima ad un secchio d’immondizia.

 

‑ Sei un bastardo ‑ gli fece notare il tizio senza barba continuando a dirigere gli occhi nella stessa direzione.

 

   L’altro non articolò risposta, ma si alzò in piedi e si diresse verso il secchio, dove, sollevata la trottola per l’apposito pomello, gettò al suo posto il torsolo di mela. Il succitato giocattolo invece, avendolo guardato, lo trasse ai piedi della scalinata, dove provò subito a farlo roteare, senza però rischiare di riuscirci.

 

‑ Non sai fare niente ‑ gli disse il più pallido con tono acidulo.

 

   Ma il barbone dalla pelle più olivastra ci riprovò, e questa volta la trottola fece due o tre giri sbilenchi su se stessa. Indi s’adagiò su di un lato, al centro delle loro attenzioni. Udendosi il rumore di un aeroplano, che infatti stava passando da qualche parte sopra le nostre teste, quello grasso sollevò per un attimo gli occhi al cielo, e riabbassandoli diresse verso la trottola coricata su di un fianco.

 

‑ È una trottola ‑ sentenziò quindi con pacatezza.

 

‑ Non gira ‑ commentò quello più emaciato.

 

‑ Ti dico che è una trottola ‑ ribadì l’altro con accento permaloso.

 

‑ Perché sei arrivato in ritardo? ‑ chiese di nuovo lo sbarbato.

 

‑ Ho incontrato molto traffico ‑ disse il tizio grasso fissando proprio il traffico che passava sulla strada in fondo alla piazza e lungo il fiume, al che il collega gli obiettò impassibile che non era giusto far aspettare, inducendo in questo modo il tizio prosperoso a rilevare il suo carattere impaziente. Dopo di ché il dialogo ristagnò per qualche tempo, magari con qualche frase che stava per sbocciare e che invece non nacque affatto. Forse -pensai - la loro voglia di parlare era afflitta dal niente da dire che incombeva sulle loro vite, che probabilmente non erano molto dissimili le une dalle altre, oppure quella lentezza del colloquiare veniva nella circostanza ulteriormente accentuata dall’interrogarsi sul motivo che impediva alla trottola di girare, dato che il pensare fissamente ad una cosa, si sa, od anche il fingere di pensarci, possono rallentare di molto il discorrere. Comunque sia, durante uno di quei silenzi un’anziana signora oltrepassò la loro postazione, ma poi, essendole scivolato di malavoglia uno sguardo sul cartello, s’arrestò, fece due passi di lato e lasciò cadere, dopo averle un po’ stirate, mille lire sul cartone.

 

‑ Ti puzza il fiato ‑ disse lo smilzo, non alla vecchia, bensì all’amico.

 

   L’altro, senza perdere di vista il giocattolo, tentò di rifiatare nel palmo di una mano e di annusare così il proprio respiro.

 

- Ogni tanto dovresti lavarti - soggiunse il precedente.

 

- Prima ripensavo al signor Diego. Mi dispiace che se ne sia andato - disse il barbone cambiando argomento, ed io, non appena sentii fare il nome del nonno beneamato ebbi un mezzo tuffo al cuore, e mi venne subito in mente che forse era meglio registrare la conversazione dei due signori. Infatti corsi subito di là ad afferrare l’apparecchio del nonno, caso mai le loro parole fossero state utili per ritrovarlo, ed orientai il microfono nella loro direzione, premendo poi i due bottoni idonei all’operazione.

 

- Si può sapere dov’eri finito? - domandò quello magro rifinito cambiando argomento, mentre finivo di sistemare il microfono sul davanzale.

 

- Era una brava persona - asserì quello più grasso senza darsi la pena di rispondere.

 

- Chi era una brava persona?

 

- Il signor Diego.

 

- Perché, è morto?

 

- Naturale che è morto.

 

- Che vuol dire <<naturale che è morto>>?

 

- Che è scomparso, morto, cioè defunto, sparito - rispose il barbone a più riprese alzando la voce.

 

- E quando sarebbe morto? - chiese quello secco con una lieve inquietudine nell’intonazione.

 

- Non sai che è morto?

 

- No. Non so che è morto.

 

- Eppure ormai è qualche mese.

 

- E come sarebbe morto? - chiese sempre il più smilzo, con un balzo curioso della voce.

 

- Non so come è morto - confessò il primo.

 

- E come lo sai che è morto? - incalzò allora il secondo.

 

- Me l’hanno detto persone ben informate - replicò quello meglio pasciuto con un certo sussiego, come alludendo a gente di riguardo.

 

   L’altro dall’aspetto costipato dapprima tacque; nuovamente soprapensiero.

 

- In effetti incominciava ad essere piuttosto vecchio - commentò quindi ad un dipresso con cadenza conclusiva.

 

- Credo che avesse la nostra età - disse quello più peloso.

 

- Mi dispiace... chissà com’è morto… - s’interrogò poi il tipo lungagnone a voce alta e senza guardare in nessuna direzione.

 

   A questo punto l’altro iniziò a tacere lui, e tacendo frugò nella borsa, afferrò un altro cartello e lo pose al posto del precedente, riponendo poi, com’era prevedibile, quest’ultimo nella borsa dove si trovava poc’anzi il successivo. “Il piatto piange, ed anch’io ho poco da scherzare”, sentenziava l’ultimo motto esposto sul cartone.

 

- Quali sono i programmi per oggi? ‑ domandò poi contemplando la scritta appena esposta.

 

‑ Peccato che non sia passato nemmeno a salutare - disse lo sbarbato tornando all’argomento precedente.

 

- Non è escluso che passi in seguito - rispose quello più robusto.

 

- Sai che ore sono? - chiese quello più ossuto, senza che c’entrasse nulla.

 

   Dopo averci pensato su, l’altro, senza smettere di tacere, guardò l’orologio.

 

‑ Dovevamo andare a bere un bicchiere da Maria ‑ disse di nuovo il tipo segaligno alludendo ad una tizia che conoscevo anch’io, gestrice di un bar alquanto malfamato.

 

‑ Possiamo andarci ora - propose il primo.

 

‑ Con te non si può mai concludere niente - precisò l’altro con tono svogliato grattandosi una scapola con un braccio dinoccolato.

 

   Proprio in quel momento una moto di grossa cilindrata attraversò la strada: sopra c’erano un ragazzo ed una ragazza con le gambe bene in vista, divaricate e ben ripiegate. La moto fece un giro della piazza davanti a loro, a velocità moderata, e poi ancora un altro, e le suddette gambe sfilarono davanti ai due barboni in versione assai scosciata, elegantemente avvolte entro un paio di calze bordò. Ad un successivo passaggio il ragazzo con un calcio colpì la trottola, e ostentando suprema indifferenza per quell’oggetto inutile la spedì contro il primo gradino della scalinata; poi, proseguendo sempre a velocità moderata, la moto abbandonò la piazza, tanto che persino il rombo esagerato del suo motore fu ben presto assai remoto. L’individuo barbuto, che in un primo tempo non si era mosso, dopo la scomparsa di quella rumorosa massa luccicante si erse in tutta la sua imponente figura e si recò a recuperare il variopinto oggetto girevole cui si era con tanta solerzia affezionato; dopo di che ritornò al suo posto e se lo pose tra i piedi.

 

‑ Con te non ne va bene una ‑ osservò il tipo segaligno.

 

   Il suo amico invece notò nuovamente qualcosa in direzione della strada, da dove in effetti sopraggiungeva corricchiando un ragazzotto basso e piuttosto grassottello, che tra l’altro era quasi amico mio. Teneva come al solito una radiolina accesa sotto il braccio e si avvicinava con espressione giuliva, fino a quando non si accucciò sugli stessi scalini dove erano già comodamente seduti gli altri due.

 

- Ho trovato delle arance - esordì il giovanotto tirandone fuori un paio dalla tasca del giaccone.

 

   Il tizio con la barba gli gettò un’occhiata vagamente interessata, ma il giovane, dopo aver contemplato per un istante le due arance, le ripose subito in tasca. Sembrava in effetti preoccupato per qualcosa, poiché gettava brevi occhiate nelle direzioni più svariate. Inoltre, com’era solito fare anche in mia presenza, e del resto praticamente sempre, si portava di tanto in tanto la radiolina all’orecchio cambiando continuamente stazione, o canale che dir si voglia.

 

- Ha smesso di piovere - rincominciò a dire il suddetto giovanotto, che per la cronaca si chiama Giovanni - dopo un certo silenzioso imbarazzo.

 

   A quest’affermazione non ci furono commenti, e gli altri due continuarono a guardare imperterriti verso la strada.

 

- Le macchine non hanno più le facce di una volta - disse il barbone corpulento senza rivolgersi a nessuno in particolare.

 

- Peccato che il signor Diego sia partito, - disse ancora il giovanotto - speriamo almeno che torni presto - aggiunse poi lo stesso, lasciando gli altri di sasso.

 

- Come Diego?... Diego chi? - chiese il barbone barbuto con uno scatto della voce.

 

- Come Diego chi?... Diego - rispose il buon Giovanni dando per scontata la risposta.

 

   I due tizi, per non voler subito replicare, in un primo momento tacquero perplessi. Dopo alcuni istanti, tuttavia, quello con la barba si voltò lentamente verso il giovane guardandolo nelle palle degli occhi, assecondato in questo dal collega più magro, il quale, tuttavia, nel movimento di ritorno della sua testa, non omise di sostare con l’espressione della faccia in direzione di quella dell’amico.

 

- Diego è morto - disse quello più zeppo, mentre il più fine stava tutto teso ad aspettare la replica dell’altro.

 

- Come morto?! - esclamò Giovanni.

 

- Morto. Semplicemente morto. Non so come sia morto - precisò il ciccione.

 

- Non è morto per niente! E solo partito! - ripeté ancora il mio conoscente, e forse quasi amico.

 

   I due individui a quel punto tacquero per un po’, ciascuno senza fare gesti particolari. 

 

- Chi te lo ha detto che non è morto? - riprese a domandare quello grasso con tono sempre più perplesso.

 

- Me lo ha detto Benny, la sua nipotina (che poi sarei io), e mi ha anche offerto una Coca! - aggiunse esclamando Giovanni - se ci foste stati voi forse l’avrebbe offerta anche a voi - riaggiunse lo stesso, con un’asserzione tutta da verificare.

 

   Essendo in ascolto al davanzale, a questo punto, udendo citare il nome della mia persona per le preziose informazioni da me in effetti fornite a riguardo del nonno mio diletto, non potei fare a meno di compiacermi vivamente e di accentuare la mia attenzione, del resto già pronunciata.

 

   I due barboni invece, a fronte delle asserzioni del giovane, per motivi diversi tacevano basiti, ciascuno a modo suo con l’aria di voler contestare qualcosa a qualcun’altro.

 

- Ha detto che se andiamo a trovarla ci offre del vino - ventilò Giovanni, riportando poco fedelmente una dichiarazione da me giammai rilasciata, come del resto si poteva evincere dal fatto che ignoravo l’esistenza di quei signori.

 

   Poiché questi continuavano a non rispondere alcunché egli, per tutta risposta, cambiò canale della radio.

 

- Va bene, ci vediamo! - disse all’improvviso alzandosi - torno a vedere se ha bisogno di una mano - volle infine aggiungere, e qui proprio non capii a quale mano potesse riferirsi, anche perché erano entrambe sempre impegnate a manovrare la radiolina.

 

   Quando ebbe imboccato una delle stradine che conducevano fuori dalla piazza il primo barbone sbirciò nella sua direzione come per accertarsi che se ne fosse proprio andato. Quindi i due rimasero immobili fissando l’orizzonte, in attesa di qualche passante o della voglia di parlare. Un uomo alto e con un riportino di capelli sopra la crapa nuda passò giustappunto di lì e gettò un’occhiata al cartello, esitando per un istante, ma non si trattenne e proseguì oltre, riprendendo la marcia interrotta.

 

- È pazzo! -  commentò quello più imponente, riferendosi non tanto all’ultimo individuo transitato davanti a lui, quanto piuttosto al malcapitato Giovanni.

 

- Perché ho il sospetto che tu abbia capito male? - gli domandò quello più esile.

 

- Avevi detto che volevi andare da Maria? - chiese l’altro deviando il discorso.

 

- A quanto pare non è proprio evidente che sia morto - sibilò il tipo asciutto con una certa repulsione nella voce, con ogni probabilità alludendo ad alcune circostanze in precedenza riferitegli dall’amico con eccessiva sicumera, quali la morte data per scontata del mio nonnino.

 

   Dopo alcuni istanti il tipo riccioluto venne infatti piantato in asso, in quanto quello secco ed emaciato, sollevatosi a fatica in piedi e appoggiandosi al suo bastone, lentamente discese i gradini per incamminarsi lungo la solita stradina. Ma di colpo, senza alcuna ragione palese, ci ripensò, e ripercorsi a ritroso i passi già sprecati afferrò la trottola che il barbuto custodiva ancora tra i piedi, e tenendola stretta sotto un braccio, mentre impugnava il bastone con la mano di quell’altro, si allontanò nuovamente con un passo assai solenne nella stessa direzione già intrapresa in precedenza. Il barbone dapprima si limitò ad osservarlo preoccupato gettandogli uno sguardo imprecisato, ma poi recuperò l’ultimo cartello esposto, lo infilò di fretta nella sacca e lo seguì di slancio.

 

   Trascorsa una manciata di minuti, durante i quali, dopo aver controllato la bontà della registrazione, rimasi a contemplare in silenzio una nuvola che aveva momentaneamente occultato il sole, i due fecero ritorno nella piazza, provenendo tuttavia dalla parte opposta rispetto a quella da cui erano poc’anzi fuorusciti. Il primo arrivò per primo; il secondo, ancora con la trottola sotto un braccio ed il bastone nella mano del braccio opposto, per ultimo.

 

   Si sedettero grosso modo sullo stesso gradino e il più rotondo estrasse dalla sua borsa un altro cartone, sul quale era impresso il seguente messaggio quanto mai espressivo: “L’accattonaggio è la dieta dell’anima!”.  Quindi, esposto anche questo, tacque; come del resto l’altro. Mentre tacevano all’unisono e incominciava a far buio io voltai la cassetta e me ne andai in cucina a preparare qualcosa da mangiare per la nonna: due patate bollite e due zucchine, che come preavvertivo fin dalla loro preparazione assaggiò appena con aria schifata e tutto sommato per pura cortesia.

 

   Quando ebbi finito di far degustare alla nonnina quel poco della cena che si compiacque d’ingoiare tornai dunque ad affacciarmi al davanzale. I due tipi erano ancora lì, nella stessa posizione, ma la piazza nel frattempo si era riempita di macchine, di motociclette e di persone. A giudicare dal luccichio sul cartone i loro affari procedevano discretamente e non appena acuminai la vista nella loro direzione una ragazza di passaggio vi depose sopra vari spiccioli, mentre poco dopo altri vi lasciarono cadere qualche foglio da mille, ed altri ancora nulla. Nonostante le automobili avessero il volume dello stereo non troppo basso, dai bar e dai ristoranti dei paraggi il rumore di piatti e di posate riemergeva ogni volta più distinto mescolandosi al brusio della folla che aumentava, ed io, anche per sentire meglio quello che dicevano, decisi ch’era giunto il momento di andare a fare la loro conoscenza: così m’infilai di getto la mia giacca di lana a quadri gialli e verdi e scesi d’abbasso senza ulteriori esitazioni.

 

   Allorché sopraggiunsi sulla scalinata e mi accorsi che gli occhi d’entrambi erano ancora puntati sulla trottola silente, per farmi subito gradire sfoggiai una delle mie espressioni più accondiscendenti. Quindi, sedutami un gradino sopra quello dove stavano loro  dissi “buona sera” con voce sonora, scrutandoli senza falsi pudori direttamente nelle pupille. Ma proprio in quel mentre una Jeep giapponese carica di coppie ben affiatate si fermò davanti a noi, e dalla macchina irruppe all’esterno una musica rock a volume esagerato. Di lì a poco si aprì una porta, e tuttavia nessuno accennò ad uscire. Dentro qualcun’altro si baciò, per la precisione i due seduti sul sedile posteriore. Il tizio grasso, senza peraltro dare segni d’avermi notata, scorto un certo movimento dentro l’automezzo accennò a muoversi a sua volta, e girovagando intorno alla vettura si avvicinò di soppiatto ad un finestrino in modo da poter meglio spiare nell’interno. Appoggiando il mento su di un vetro abbassato prese a fissare le gambe di una ragazza che si trovava distrattamente impegnata a pomiciare col suo dirimpettaio, mentre pure gli altri continuavano a baciarsi poco dietro. Ad un certo punto la medesima fanciulla gli sorrise, e insistendo prolungò quel sorriso per alcuni istanti, che al bombato spettatore dovettero sembrare particolarmente lunghi, fino a quando non tornò a lasciarsi palpeggiare dall’altro abbarbicato con un certo benessere apparente. A tal punto emanava la vettura un subbuglio di emozioni che anche quello sfilzo, dopo aver fiutato l’aria, si decise a scendere alcuni scalini verso il medesimo finestrino, appoggiandosi sempre al suo bastone; ma poi, prima di appostarsi, resosi conto della sua distrazione, ritornò indietro a prendersi la trottola. Finalmente, riafferratola prontamente e ridiscesi i medesimi gradini, poté appoggiarsi con la mano allo sportello e riprendere a fiutare l’aria acutamente sporgendo il naso nell’interno.

 

   Per quanto mi concerne, per non lasciarmi sfuggire niente mi alzai in piedi con un movimento disinvolto e appoggiatami alla balaustra di marmo potei osservare i due che continuavano a sporgersi verso il gruppo ben assemblato sui sedili, fino a quando la sferzata del precedente sorriso, insieme ad una nuova visione della gamba avvolta nella rete, non incolse nello sguardo del tizio più corposo e trasandato. Per giunta, in maniera sorprendente e repentina, la stessa ragazza di prima gli prese una mano tra le dita e con movimento flessuoso la distese sul proprio ginocchio ben modellato, ridendo neanche tanto di soppiatto, con la chiostra dei denti che le luccicava nel buio apertamente.

 

   L’uomo fornito di barba lasciò fare con eleganza, mentre non veniva nemmeno degnato di uno sguardo, giacché lei si era di nuovo voltata per allacciarsi in un petting stretto col suo giovane autista, ch’era di stazza senz’altro assai più snella. La ragazza forse nemmeno si accorgeva della mano che ancora le sfiorava il ginocchio tondeggiante e l’altro, il lungo figuro dinoccolato, che in nulla voleva essere da meno, sembrò sentire qualcosa nell’aria, come un fremito di desiderio sospeso, e tenendo sempre il naso nei pressi del vetro abbassato aveva assunto un’espressione decisamente eccitata e incuriosita. Provò pertanto ad allungare anch’egli una mano per istinto, ma la ritrasse subito quando il giovane al volante cambiò improvvisamente la cassetta sostituendola con un pezzo di musica ancor più rimbombante, senza alcuna melodia scorgibile all’orizzonte.

 

‑ Io vado ‑ disse dunque quello secco scoraggiato, o almeno così mi parve dal movimento delle labbra, senza muoversi d’un centimetro. L’altro non poté udirlo a causa dell’eccessivo volume di quel ritmo forsennato, e pertanto non rispose.

 

‑ Io vado ‑ ripeté sempre il più secco quasi urlando. Ma anche questa volta l’altro continuò ad osservare quanto succedeva dentro l’automezzo senz’avvedersi dei suoi propositi. Ciononostante, allorché il più esile se ne andò sul serio, preso atto che la ragazza non aveva più tanta voglia di scherzare, pure l’amico lo rincorse a testa bassa accelerando il passo. Così, uno avanti e l’altro dietro, si allontanarono lungo la medesima stradina di prima, mentre i ragazzi della macchina continuarono a baciarsi indisturbati nel mezzo della piazza fino a quando il pilota della situazione - il tipo snello ma atletico di stazza cui accennavo prima, che nonostante lo sguardo inespressivo non mi parve niente male nel complesso - consultati gli altri con una levata di capo, non decise che era giunto il momento di ripartire sgommando.

 

   Decisa a non mollare due casi umani tanto interessanti li pedinai a debita distanza, anche perché non ero stata accolta troppo bene ed aspettavo un momento più propizio per fare conoscenza. In un certo baretto del quartiere l’occasione infatti si propose alacremente, perché v’incontrammo Giovanni, il ragazzotto munito di radio già descritto, che immantinente mi recai subito a salutare anticipando gli altri. Giovanni non perse occasione di presentarmi di sua iniziativa come la nipote del caro signor Diego, e così anch’io venni a conoscere finalmente i nomi dei due girovaghi ai miei occhi tanto promettenti, nonché loro stessi, che mi parvero a dire il vero piuttosto depressi per la fine prematura della loro avventura sensuale. Cesare era quello con la barba e il più corposo; l’altro, il magrone emaciato e rinsecchito, era Giulio, piuttosto bruttino a vederlo da vicino, ma con una certa vivezza nello sguardo. Per fare in santa pace quattro chiacchiere, tanto per cambiare, decidemmo di tornare a sederci sui soliti gradini, nei pressi del giardino sul quale si affacciava nel contempo il mio povero davanzale rimasto solitario.

 

- Non è morto, è partito - ribadii una volta che ci fummo accomodati sul freddo marmo.

 

- E dov’è andato, se non sono indiscreto? - mi chiese di persona il signor Cesare.

 

- Non lo ha detto, è partito e basta - riferii con perentoria gentilezza.

 

- E come fai a sapere che non è morto? - domandò il signor Giulio, senza badare a convenevoli.

 

- Non è un tipo che muore così, subito dopo essere partito - spiegai benevolmente.

 

- Già, prima di morire dovrebbe comunque essere partito - rifletté Cesare.

 

- Potrebbero averlo rapito - suggerì Giovanni con tono esclamativo senza scostare la radiolina dall’orecchio.

 

- Perché non venite a visitare le mie bestioline? - domandai tanto per vivacizzare la serata e nel contempo appurare meglio fino a che punto conoscessero veramente lo sparito.

 

- Un’altra volta - tergiversò Giulio incuriosito da un filo di bava che gli scendeva distrattamente dalla bocca.

 

- Chi dice un’altra volta poi non va mai da nessuna parte - ammonii di rimando con saggezza.

 

- Già, a voi non va mai di fare nulla - aggiunse Giovanni spalleggiandomi l’iniziativa.

 

- Incomincia ad essere tardi, e tu forse dovresti già essere a letto - disse Cesare con paternalistica eloquenza.

 

- Egregio signore - esordii ristabilendo le distanze - le faccio presente che io a letto non ci vado quasi mai; tanto meno di notte - tenni a precisare (il che non era poi del tutto falso, perché in effetti soffro d’insonnia cronica fin dall’infanzia).

 

- Le tue bestioline le abbiamo già viste, ce le fece vedere una volta il signor Diego, e poi a quest’ora c’è tua nonna che sta dormendo - aggiunse Giulio agitando orizzontalmente la mandibola come fanno i cammelli quando digeriscono.

 

- Tanto quando dorme non la sveglia nessuno - replicai cordialmente, senza capire come facessero a conoscere il nonno senza che ne fossi al corrente, e per di più le mie bestiole - e poi se venite posso offrirvi anche un bicchiere di vino - aggiunsi di seguito senza por tempo in mezzo, per conseguire finalmente l’influenza desiderata sulle loro decisioni.

 

- Che dici… andiamo? - chiese il barbone allo sbarbato.

 

- Potremmo anche andare - rispose quest’ultimo con tono interlocutorio.

 

- Va bene… ma solo cinque minuti… così, tanto per dare un’occhiata - assentì finalmente Cesare.

 

   C’incamminammo subito, e una volta svoltato l’angolo feci strada nell’antro buio del portone, dove prenotai l’ascensore con l’apposito bottone. Quando fummo in casa introdussi i miei ospiti nella grande sala dove gli animali stavano alloggiati nelle apposite bacheche e, scoperchiata la più nuova, ne estrassi con destrezza una salamandra umida e maculata, ultimo acquisto della mia collezione. A Cesare la vista di quella bestia fece decisamente ribrezzo mentre Giulio, lo sbarbato rinsecchito, dal canto suo rimase in un primo tempo a distanza idonea per non incorrere in spiacevoli contrattempi. In seguito, pressato tuttavia dalle mie richieste, si decise a prenderla in mano, e dopo esserci riuscito per un po’ senza schifarsi troppo parve persino abbastanza soddisfatto. Inutile sottolineare che, come sempre in questi casi, e come confermava la sua espressione raggelata, la bestiola non pareva viceversa trarre da quella postura nessun tipo di piacere. Giovanni, il quale osservando la scena percepiva il di lei imbarazzo, per tutta risposta decise di cambiare canale alla sua radiolina, sintonizzandola su un pezzo di musica classica particolarmente triste.

 

   Uno dopo l’altro rifeci ai due signori appena conosciuti bella mostra della storica collezione: scorpioni incattiviti, cavallette zampettanti, bruchi giganteschi e pelosi, ramarri sguscianti e verdissimi, vipere sonnolente e tozze, melliflue bisce d’acqua, ratti irrequieti, gechi trasparenti e mollicci; fino a quando gli ospiti, stressati per i forzosi contatti con quelle epidermidi variopinte, non fecero richiesta del bicchiere di vino loro promesso. Lo servii sopra un antico vassoio d’argento, facente parte di uno dei numerosi serviti buoni dell’opulenta famiglia della nonna, ma una volta versato il vino nei bicchieri, dopo avergli fatto trangugiare il primo sorso pretesi subito, tanto per non farli annoiare, che esaminassero anche una lunga lucertola, di ancor più recente acquisizione, che avevo afferrato con due dita sotto all’attaccatura della testa. Detta lucertola muoveva la coda con dei colpi secchi ma rallentati sul finire, uno a destra e uno a sinistra, come un orologio a pendolo che si fosse messo a respirare, e suscitava a dire il vero una certa pena. Ma all’improvviso un urlo, una specie di rantolo, di prolungato straziante singulto, del resto alle mie orecchie nient’affatto nuovo, lasciò a tutti presagire che di là, nella stanza ove s’era rinserrata, la nonna ben poco stoicamente pativa d’un acuta sofferenza, e forse soffriva per qualche morbo oscuro. Poi, dopo il grido, rigermogliò il silenzio: i due amici non osavano proferire verbo e per evitare d’essere interpellati omettevano di posarmi gli occhi addosso con espressione interrogativa, così come le circostanze avrebbero richiesto.

 

- Volete salutare la nonna? - chiesi con tutta calma, pensando di provocare la loro curiosità, senza palesare alcuna sorpresa nella mia espressione. Interdetti, i due non sapevano che pesci prendere, ed io feci strada di repente verso la soglia della camera da cui, di nuovo, provenivano alte e tormentate grida. Socchiusi la porta e indicai loro la povera nonna scarmigliata, con i capelli bianchi scarduffati e distesa sul letto, che ritmicamente si copriva e riscopriva con il lenzuolo ripetendo sempre il solito gesto, probabilmente per liberarsi dal caldo, senza dare apparente importanza alla propria azione reiterata e senza far caso ai suoi visitatori, che peraltro si guardavano bene dall’entrare con tutto il corpo nella stanza senza essere stati invitati per intero. Nel contempo tenevo sempre stretta nella mano la lunga lucertola, la quale, a sua volta, continuava ammutolita ad oscillare anch’essa la coda senza variare atteggiamento. Salutata la nonna con un’espressione gergale suggerii anche ai nostri ospiti di fare altrettanto, magari servendosi di una mano, cosa che questi eseguirono puntualmente, con un gesto ristretto e pervaso di larvata timidezza.

 

   Quindi riaccostai senza protrarre oltre il necessario quella visione e risospinsi i due verso la sala, dove rinchiusi la bestiola nella medesima bacheca da cui l’avevo prelevata, e nella quale se ne stava rinchiusa da quando, qualche giorno prima, era stata catturata. Gli altri, scolati i rispettivi bicchieri, fecero richiesta di un altro sgoccetto, il che fu loro concesso senza esitazione. Dopodiché, svuotati di gusto anche i riempimenti successivi, senza intrattenersi ulteriormente, nel timore di non saper come reagire udendo altre grida e fin’anche più serrate, i tre si congedarono amabilmente, congratulandosi per la magnifica serata ed apprestandosi a discendere circospetti, le tre rampe che li dividevano dal portone; al che la sottoscritta, non avendo la benché minima velleità di rimanere sola con la nonna per tutta la serata, decise che sarebbe scesa con loro, e di fatto, serrata la porta alle sue spalle, li seguì giù per le scale. 

 

   Quando più tardi riconquistammo la piazza - solo in tre, perché Giovanni nel frattempo se n’era andato a dormire, disponendo lui della casa d’una meritoria sorella che faceva la puttana diurna e l’ospitava nottetempo - mi sedetti in mezzo a loro ad aspettare di sentirli parlare, o per vedere comunque quello che avrebbero fatto di bello. Il traffico aveva ormai smussato il suo frastuono e la notte s’era fatta fonda: solo qualche macchina passava di tanto in tanto, con qualche autobus e qualche rada motocicletta. Ciò nonostante Cesare estrasse un altro cartello dalla sua borsa e soltanto dopo averlo ben collocato sopra il terzo gradino dal basso raggiunse, anticipato di poco dal compagno, la sommità della scalinata. In cima a questa, sul piccolo praticello cosparso di varie immondizie, sotto il vecchio leccio ancora abbastanza in salute, i due si sdraiarono su dei cartoni inumiditi, e poi, dopo essersi ricoperti con altri cartoni appena più asciutti, si accinsero a tentare di prender sonno. “Entrate e vi sarà aperto” - era scritto sul nuovo manifesto, per la verità di dubbia decifrazione e leggibile a stento, che in assenza di clienti non poteva comunque sortire grandi effetti. Fingendo d’essere stuzzicata nell’intelletto m’informai su cosa un simile messaggio volesse intendere, ma rimasi a malincuore senza uno straccio di risposta, in quanto i due sembravano entrambi alquanto intorpiditi. Nonostante un simile torpore a Cesare, dopo essersi coricato, venne in mente per ogni evenienza di starnutire più volte rumorosamente, tanto da svegliare gli uccelli che già dormivano sui rami, e che infatti si misero a cantare.

 

‑ Con questi uccelli non si può mai dormire in pace ‑ protestò Giulio rannicchiandosi sul versante opposto del suo corpo scarno.

 

‑ Sei tu che hai il sonno leggero ‑ rispose l’altro, cercando anche lui di cambiare lato senza scoprirsi. Alla fine, dopo aver lottato col suo cartone ed essersi immancabilmente scoperto si mise seduto con le gambe incrociate e si stropicciò ritmicamente il naso. Poi, con aria assorta e vagamente ubriaca, si dispose a fissare l’altro che gli voltava le spalle.  

 

‑ Secondo me il tuo problema è che sei una persona senza ideali ‑ disse grattandosi la sommità della testa durante uno sbadiglio.

 

   Giulio, lo sbarbato, trascorsi alcuni istanti, tornò a voltarsi dalla sua parte: ‑ come hai detto? ‑ gli chiese con intonazione esterrefatta.

 

‑ Ho detto che tu non hai ideali, ‑ ripeté solennemente l’amico, ‑ la tua vita è senza uno scopo!

 

‑ E tu che ideali hai? ‑ domandò Giulio con un’espressione costernata.

 

‑ Lo sai già ‑ rispose l’altro dopo una qualche esitazione. ‑ Io comunque sono sicuro di averceli, gli ideali ‑ aggiunse fissando il cielo e facendo alcuni esercizi di respirazione.

 

   Il collega sbarbato dapprima lo scrutò in silenzio, poi non poté trattenere una domanda di sfida: ‑ ma per esempio? ‑ chiese poi, ‑ prova a dirmene uno di recente formazione.

 

   Cesare ci pensò tormentandosi lentamente una guancia con le nocche di una mano; quindi si alzò di scatto con un sorriso compiaciuto e si mise a raccogliere dei rametti secchi con la chiara intenzione di accendere un fuoco. 

 

‑ Io, per esempio, ho l’ideale di andarmene, di trovarmi un posto caldo dove stare... e poi ho l’ideale di liberare i bonzai - aggiunse quindi intendendo con tali parole chiarire definitivamente la questione; e così dicendo raggruppò degli stecchi appena raccolti sopra un po’ di carta mezza fradicia e provò ad accenderla.

 

- E’ troppo umida, non ci riuscirai mai - gli disse l’amico smilzo dando voce anche ad una mia impressione; ma con nostra grande sorpresa l’altro riuscì in effetti a creare quasi subito una piccola fiamma, vicino alla quale, accovacciato, tentò di scaldarsi le mani. A quel punto raccolse degli altri stecchetti e li buttò sopra il fuoco, che ora gli illuminava il volto, mentre l’altro, dopo essersi sollevato appena da terra per controllare meglio cosa fosse riuscito a combinare, prese la decisione di andarsi a mettere anche lui accanto alla fiamma appena nata. In tale spostamento, devo dire assai gattescamente, io l’anticipai di un soffio, accosciandomi a mia volta con le braccia protese verso quella preziosa fonte di calore, che a dire il vero, visto che incominciava a fare freddino, si stava rilevando più gradita del previsto.

 

‑ I Bonzai non ci tengono affatto ad essere liberati - contestò con aria compunta Giulio quando si fu con calma inginocchiato.

 

‑ Di questo non sarei tanto sicuro - replicò Cesare con aria sorniona.

 

‑ Se non sei sicuro perché allora vuoi liberarli per forza? - argomentò l’altro con una certa assennatezza.

 

- Credo dipenda dal fatto che non mi sembrano felici.

 

- Neanche i tuoi zii ti sembravano felici, mentre in fondo lo sono più del necessario. Perché non gli chiedi di ospitarti per qualche tempo? - domandò Giulio forse per levarselo di torno, o magari temendo soltanto di vederlo davvero partire.

 

‑ Non li ho simpatici i miei zii… sono persone troppo ansiose… e poi sento un dolore da qualche parte, quando li vedo - spiegò Cesare con lo sguardo già accigliato per l’ipotesi soltanto.

 

‑ Non devi farci caso - gli suggerì l’amico in maniera sbrigativa.

 

‑ Non ci faccio caso, lo sento - precisò l’altro; al che Giulio gli spiegò con gentilezza che si trattava solo di sue impressioni prive di fondamento, di “pensieri vani”, così disse, e poi tacque, forse perché si era messo a pensare a qualcos’altro.

 

  Dopo un po’, diciamo un minuto circa, Cesare riprese a parlare dicendo che invece i pensieri dell’amico gli parevano immobili come delle sardine sotto sale; e poiché anche dopo una asserzione tanto impegnativa il suo interlocutore persisteva a tacere, lo stesso Cesare aggiunse con tono meditabondo che secondo lui facevano anche venire il bruciore di stomaco.

 

‑ Il mio stomaco sta benissimo - controargomentò Giulio, il quale aveva comunque lo stomaco incavato per il non mangiare e magari il nervosismo.

 

‑ Non sono veri pensieri, sono mozziconi di pensieri - rispose Cesare tenendosi compiaciuto una mano sopra il ventre opulento.

 

‑ L’unico inconveniente dei miei pensieri è che mi impediscono di raggiungere il penultimo stadio - si rammaricò l’altro mentre il riverbero della piccola fiamma mitigava in parte il suo pallore.

 

‑ Ora non ricominciare con questa storia del penultimo stadio - lo ammonì Cesare con tono infastidito.

 

- Perché non provi a dirmelo tu un vero pensiero?

 

   L’amico barbuto assunse allora un’espressione concentrata, sollevò lo sguardo verso l’orizzonte, distese le braccia di lato, fece un lungo respiro e mosse ginnicamente le scapole. Dopodiché, una volta ricomposte le medesime, si apprestò a parlare, senza dire tuttavia alcunché per un discreto lasso di tempo.

 

‑ Ogni cosa che facciamo è un segno del destino, e del destino dopo un po’ non resta un bel nulla, e dal nulla sbuca una palla, e poi quella palla si ferma in mezzo ad un prato, vicino ad una piccola montagnola d’erba verde, e se ne sta lì ferma sotto il sole, fino a quando non si sgonfia per il male, che sente per il non poter ripartire, verso un’altra montagnola nuova e verde sotto il sole - filosofeggiò finalmente - e poi bisognerebbe partire da questa città, e andare nei paesi caldi, a mangiare del pesce come ai bei tempi - aggiunse come conclusione operativa.

 

‑ Già… del pesce… come ai bui tempi… e perché non della carne? visto che è qualche mese che non ne mangiamo, vedi che parli a vanvera come al solito - riattaccò Giulio.

 

‑ Vorrei sapere cosa succede nelle altre città - rifletté l’altro a voce alta.

 

‑ Niente… succede tutto qui, cosa vuoi che succeda nelle altre città?

 

‑ E poi, secondo me ‑ disse Cesare dopo un perplesso e prolungato silenzio ‑ quello di raggiungere il penultimo stadio non è un vero ideale.

 

   Una simile asserzione, detta così sfrontatamente, procurò con ogni evidenza all’altro una specie d’irritazione, perché infatti si mise a ricordargli quanti anni erano che si conoscevano, e che lui tirava fuori questa storia degli ideali ad ogni primavera, e invece non ne parlava mai d’inverno.

 

- La verità è che a te non interessa progettare niente, e poi non capisci mai quel che voglio dire ‑ replicò Cesare facendo qualche esercizio di ginnastica da seduto, tanto per sgranchirsi le braccia, ma senza dimenarsi troppo.

 

‑ Io ti capisco benissimo - disse Giulio.

 

‑ Se tu mi capissi io me ne accorgerei - rispose Cesare continuando a muovere le braccia energicamente, slanciandole due volte di seguito all’indietro ed incrociandole altrettante davanti.

 

‑ Tu non ti accorgi mai di nulla, sei sempre troppo occupato a tirarla per le lunghe con i tuoi esercizi scemi - insinuò Giulio fissando un punto vuoto in direzione dell’amico.

 

- Sei tu che sei sempre occupato a tagliar corto senza muovere un dito - replicò Cesare con prontezza.

 

- Io preferisco non forzare la mano - precisò Giulio prima di piombare in un silenzio prolungato. Cesare allora si sgranchì ancora le braccia con qualche esercizio reiterato, fino a quando, non potendone più di stare zitto, non riprese la parola.

 

‑ Cosa abbiamo in programma, oggi? ‑ chiese cogliendo Giulio di sorpresa; ma questi, invece di rispondere, in un primo momento tornò a sdraiarsi sotto il suo cartone.

 

‑ Quello che non abbiamo fatto ieri ‑ disse poi aggiustandosi meglio quelle coperte improvvisate. Ormai stava quasi albeggiando e gli uccelli cantavano con sempre maggior vigore. Cesare attizzò il fuoco aggiungendo alla fiamma dei rametti secchi, che parvero subito raggianti par l’iniziativa.

 

‑ E poi non ho mai capito cosa sia questo penultimo stadio ‑ disse dopo adeguata riflessione.

 

‑ Il penultimo stadio è quando gli uccelli che cantano ti fanno dormire, e tu sogni gli uccelli che cantano - rispose Giulio prontamente.

 

‑ Ma se dici sempre che ti svegliano sempre! - gli fece notare Cesare ripetendosi avverbialmente.

 

‑ Questo perché non l’ho ancora raggiunto.

 

‑ E quando stavi con tua moglie, allora c’eri arrivato al penultimo stadio?

 

‑ Allora non sapevo nemmeno che esistesse, il penultimo stadio, pensavo sempre allo stadio successivo - spiegò Giulio movendo di tutto il corpo la bocca soltanto, mentre teneva le due mani appoggiate sulla maniglia del bastone. Cesare invece, pur continuando a buttare degli stecchi sul fuoco, con l’altra mano sbocconcellava delle briciole da un tozzo di pane per far mangiare gli uccelli; ma nessuno di questi si degnava di scendere a beccarle.

 

‑ Non apprezzano il mio cibo ‑ constatò a voce alta mentre il cielo si colorava di rosa nei vetri di un autobus che passava nella strada. Proprio in quel momento sentimmo tutti un altro grido, lugubre e scavato, il profondo singulto a me ben noto ripetuto più volte, e la finestra sbatté, mossa dal vento che si era di nuovo levato.

 

- La sentite? - chiese Giulio finalmente, dimostrando col plurale di sapere che esistevo.

 

- Dovremmo occuparci di loro - rifletté Cesare accennando proprio a me con un cenno dello sguardo.

 

- Chissà!... forse non era felice... - rifletté poi alludendo evidentemente al mio nonnino, che in realtà non mi era mai sembrato triste in tutta la sua vita, ammesso poi e non concesso che ci sia bisogno d’esser felici in questo mondo, quando invece anche solo il volerlo diventare è un segno che si è di gran lunga meno vivi di chi non si pone per niente la questione.

 

- Non si può essere sicuri di non essere felici - stabilì Giulio con una sicurezza di principio che mi parve comunque eccessiva.

 

- E nel penultimo stadio si è felici? - domandò allora Cesare.

 

- Nel penultimo stadio la felicità è alle spalle, tutte le cose sono alle spalle. Ci sono solo ombre.

 

‑ E allora nell’ultimo? - chiese subito Cesare con una certa intemperanza - perché è chiaro che ci deve essere anche l’ultimo - soggiunse poi per giustificarsi d’una simile asserzione. Ma Giulio lo disilluse subito spiegando che l’ultimo stadio non era raggiungibile, e che questa in fondo era l’unica cosa davvero confortante, perché lì si trovavano alle spalle anche le ombre con le luci relative, e nel dire ciò mi parve ulteriormente impallidire. Poi si coprì la testa con un lembo della giacca, e l’altro, senza quasi reagire ad un’ipotesi tanto vuota di speranza fece bruciare sulla fiamma una foglia secca, e poi un’altra, fino a quando non si ustionò un dito e tornò a sdraiarsi pure lui sotto il suo cartone, vicino all’altro. Da lì osservò per un attimo la trottola che stava in mezzo ai loro corpi ed ebbe l’impressione che avesse una specie di sorriso disegnato sulla faccia.

 

- Hei!, sembra che sorrida! - esclamò con una certa esuberanza nella voce.

 

   Giulio si girò lentamente verso l’amico guardandolo con aria interrogativa, quando all’improvviso sentimmo di nuovo l’urlo ormai noto della nonna e dalla finestra vedemmo una luce accendersi e spengersi ad intermittenza, alternandosi con invocazioni del mio nome. I due spostarono lo sguardo verso l’alto, ed io con loro, ma la luce continuò ad accendersi e spengersi per qualche tempo senza tregua, fino a quando la stanza non rimase definitivamente buia. Allora corsi di nuovo in casa e le portai dell’acqua, che com’era prevedibile era quel che voleva, sostenendole le spalle mentre beveva, e poi, poiché mi sentii afferrare di soppiatto da una forma trita di malinconia, m’infilai il pigiama e mi misi a letto. La serata tuttavia non mi sembrava ancora finita, anche per certi pensierini poco allegri che mi balenavano nella testa, e per di più avvertivo una certa fame di gelato, o magari di un cornetto con la crema. Così mi rialzai in piedi e andai in sala ad affacciarmi alla finestra, sporgendomi di sotto.

 

- Cosa fate di bello? - dissi così dall’alto, tanto per fare la spiritosa, dopo aver cambiato la cassetta dentro il registratore, visto che nel frattempo era finita.

 

- Niente, dormiamo - rispose Cesare laconico, forse perché l’avevo svegliato di soppiatto.

 

- Vegliamo nel sonno - precisò Giulio senza voltarsi verso nessuno dei due.

 

- E’ quasi l’alba! - mugulai allora ad alta voce.

 

   Giulio non rispose, in quanto aveva deciso di dormire, e Cesare nemmeno. Si ripiegò su un fianco cercando anche lui di prender sonno, fino a quando non si addormentò davvero. Mentre dormiva aveva un’espressione abbastanza soddisfatta: forse si sognava la trottola che girava, sempre più veloce, e nella luce dell’alba gli uccelli che scendevano a poco a poco a beccare le briciole di pane. Nel sonno forse credeva anche di aver raggiunto il penultimo stadio, ma non gli pareva vero. Tuttavia, giacché il penultimo stadio non lo si può raggiungere interamente - pensai - perché altrimenti sarebbe l’ultimo, magari, proprio perché non gli pareva vero, invece lo aveva raggiunto. Il penultimo stadio infatti poteva starsene proprio lì, immobile nella sua testa, davanti agli occhi chiusi, e non dare cenno di vita.

 

   La luce dell’aurora si rifletteva ora sui vetri della finestra ferendomi negli occhi morti di stanchezza, che però mi piaceva tenere ancora aperti, e poi mi accorsi che avevo davvero fame di qualcosa e che in casa non ci volevo proprio stare. Così, col pigiama turchese ancora indosso mi riavviai i capelli con tre colpi di spazzola decisi e m’infilai le pantofole del nonno che tenevo sempre sotto al letto. Essendo di Settembre, ed incominciando il clima di primo mattino ad essere abbastanza freschino, sul pigiama ci misi anche la mia giacca a scacchi di lana e quindi uscii di corsa. Una volta per strada mi diressi a passo svelto verso il più vicino cornettaro mattutino, e fatto il mio ingresso nella stanza profumata lì per lì chiesi un cornetto per mangiarmelo subito da sola, dalla fame e per la gola; poi altri cinque me li feci impacchettare. Il pasticciere sornione, con la sua faccia tipicamente scorbutica e sporco di farina, mi servì senza fare parola del pigiama, e degnatomi appena di un’occhiata storta mi afferrò in cambio i soldi dalla mano. Una volta fuori ripresi il mio passo arzillo in direzione della piazza, dove, una volta giunta, salii i primi otto scalini a quattro a quattro, ed i seguenti uno alla volta. Qualche macchina passava nella strada e gli uccellini, nonostante la mia cautela, s’involarono sui rami della magnolia più verde, ed in certa misura anche su quella più rachitica e giallina. Questa delle due magnolie, tra parentesi, mi è sempre parsa l’impronta chiara d’un ingiustizia universale: due alberi vicini, vecchi quasi uguali, uno forte e verde e l’altro con l’aria sempre moribonda. Comunque, a parte questo, mentre gli uccelli cinguettavano più in alto, mi accucciai per terra, con il sacchetto in bilico sopra le ginocchia, accanto a loro che dormivano, senza volerli subito svegliare, ma pronta a fargli una sorpresa.

 

   Poco dopo, allorché gli sussurrai un richiamo nell’orecchio, Cesare stirò un braccio fuori allo scoperto e spalancò di colpo gli occhi. Allora gli misi subito un cornetto davanti al naso, e lui ringraziò di cuore a viva voce, sollevandosi a sedere sullo slancio.

 

- Prego - risposi a tono, - e Giulio? - chiesi poi additando l’altro con lo sguardo.

 

   Cesare risvegliò l’amico pronunciandone il nome a viva voce, cosicché questi si riscosse, e sollevatosi cautamente dal giaciglio piegò la testa scompigliata all’indietro, guardando di sbieco chi l’aveva chiamato. Ricevuto subito anch’egli il cornetto dalle mie manine - che nel frattempo, con due saltelli, gli ero giunta accanto - si soffermò a scrutare i pantaloni turchesi che sporgevano da sotto alla giacca, nonché un frammento del collo di un mio piede, il quale si poteva intravederlo in quanto faceva capolino dall’abbondante nonnesca pantofola in cui era avvolto; ma poi, per non contrariare anche solo lievemente la fonte della cortesia di cui era oggetto distolse ben presto lo sguardo dalle mie caviglie nude per concentrarlo sulla pasta dolce e giallastra che lungo i solchi dei denti al suo morso s’addensava.  

 

   Il traffico, durante un tale spuntino, s’incrementò vieppiù: i rumori incominciarono a espandere nell’aria i loro aromi petroliferi e la luce si ravvivò a poco a poco intorno a radi suoni umani, tingendo di carminio le pareti intonacate delle case nello spazio fresco del giorno che iniziava. Ma l’imminenza della giornata nuova non lasciava presagire, a guardarli tanto impegnati a masticare, nessun avvenimento di rilievo, alcuna prospettiva di effettivo restauro in una qualche branca esistenziale. Giulio biascicava lentamente un secondo cornetto e la sua faccia storta col boccone in bocca mi faceva ripensare alla vita delle persone quando scappa loro di mano quel tanto che basta per non poterla riacchiappare.

 

   Al contrario di me, in quel momento, lui però non sembrava pensare affatto: fissava piuttosto con espressione vigile un certo punto per terra dove l’erba era spiaccicata ed una formica trascinava verso un luogo sconosciuto un grosso frammento di qualcosa. Anche Cesare allora fermò gli occhi sull’insetto e sul peso che portava, ed io, a guardare l’altro che guardava, provai una sensazione originale di pena mista e di sorpresa. Mi venne in mente che il nonno era partito, scomparso in un’avventura nuova, una delle tante della sua vecchia giusta vita. Mi ricordai di quando raccontava del collegio, dove da bambino i preti lo mettevano a silenzio per gli scherzi che inventava, e ripensai a tutta l’irrequietezza dei suoi occhi, al suo modo veloce di agitare le mani se parlava, all’entusiasmo per ogni cosa che faceva, al suo volermi spronare ad essere buona e coraggiosa con l’esempio del proprio fare, senza quasi volermene spiegare le ragioni usando le parole.

 

   Quando Giulio ebbe terminato di mangiare ringraziò con un breve cenno imbarazzato della mano e poi si coricò di nuovo sotto il suo cartone. Cesare intanto scrutava con cipiglio un po’ severo verso la strada, dove le macchine arrivavano sempre più veloci. Ormai pareva anche a me che avessero tutte le facce quasi uguali, mentre una volta, forse, le avevano diverse. Avere delle facce uguali era come non averne nessuna, essere senza un volto, sorridere sempre oppure stare sempre seri. Il signor Giulio, per esempio, doveva essere un tipo sempre serio, incapace d’essere mai davvero allegro, afflitto dal pensiero di qualcosa, scontento di tutte le sciocchezze che fiutava nel mondo tutt’intero, e fu proprio allora, mentre pensavo questo, come se fosse stata la più chiara conferma dell’idea che lui fiutasse, senza saperlo spiegare, qualche sporco trucco nell’universo disumano, che Giulio in persona starnutì forte una volta, e poi altre cinque o sei di fila e con grande soddisfazione, alzandosi leggermente su di un fianco con il busto e un braccio appoggiati all’avambraccio. Poi si stropicciò energicamente il naso con un dito e si rimise a posto il cartone sulla spalla, mentre io, per averlo guardato attentamente, senza lasciare di scrutarlo, di nasi ora mi stropicciavo il mio con un certo gusto, tanto che venne anche a me da starnutire forte e tante volte come prima all’altro, senza quasi potermi più fermare, come se la vita potesse andare avanti soltanto in quello starnutire forte e senza scampo.

 

   Poi loro due s’addormentarono, prima Giulio, e dopo un po’ Cesare, ed io rimasi di nuovo per qualche tempo ad osservarli respirare sdraiata sopra una frangia di cartone che sporgeva, fino a quando, senza neanche accorgermene, non m’addormentai anch’io vicino a loro. Fu nel mezzo di quel sonno, dopo un tempo imprecisato, che mi risvegliai di soprassalto e rimasi quasi senza fiato vedendo il nonno attraversare il ponte dall’altra riva, venire verso di noi con una specie di sorriso sulla faccia sempre uguale. Era tornato per salutarci e forse - pensai in quel momento - non era mai partito, e si avvicinava piano per non destarci all’improvviso. Appena giunto in prossimità del primo gradino smise di avanzare e mi fece un gesto di saluto con la mano: poi proseguì scomparendo sul retro della scalinata, dove non potevo più vederlo in nessun modo. Immaginai per un istante di avvertire gli altri, ma subito non mi parve giusto che fossero svegliati dal loro sonno inerme, e poi non volli rischiare di perderlo di vista. Così mi girai verso la finestra, entro il cui riquadro, infatti, come mi aspettavo, dopo qualche istante il nonno riapparve nel salone della casa. A quel punto corsi a precipizio e mi ritrovai in pochi istanti davanti alla porta aperta della camera, dove lui intanto baciava la nonna sulle labbra tenendole le braccia nelle mani. Infatti era salito a trovare la compagna della vita, che appena lo vide smise subito di voler gridare, e ora finalmente respirava senz’affanno, come una persona normale che volesse dormire. Il nonno le fece una carezza sulla fronte, e poi un’altra da lontano con un gesto lento di congedo; dopodiché si mise a camminare in giro, portando per la casa la quiete d’una volta, l’allegria dei giorni in cui si stava a chiacchiera dopo cena, seduti ancora a tavola a raccontare i fatti capitati durante la giornata facendo lente palline di mollica.

 

   Infine, dopo aver controllato le condizioni di salute delle sue bestiole le liberò tutte una per una, e più tardi, quando ridiscese in piazza, queste gli vennero dietro a passo svelto, saltando o strisciando a seconda di come erano solite fare. Gli altri due nel giardinetto continuavano a dormire, ma poi furono risvegliati da una strana agitazione, come fremendo in sogno per qualcosa, fino a quando non li scossi entrambi per un braccio. Aprendo gli occhi e scorgendo il nonno riaffacciarsi ai piedi dei soliti gradini levarono d’istinto in alto la mano come lui per salutare e sorrisero beati di stupore. Ma proprio mentre anch’io alzavo la mia mano in segno di congedo un senso di ribellione mi prese il cuore in una morsa per il non volerlo lasciare più partire, e allora mi alzai per corrergli dietro a perdifiato senza potermi consolare. Il nonno ogni tanto si fermava ad aspettarmi, ma poi rincominciava a camminare prima che mi fossi potuta avvicinare, seguito tutt’intorno dalle sue fedeli bestioline. Forse - pensai mentre correvo senza aver più fiato - abitava lì vicino per venirci a trovare senza farsi vedere, per vedere com’era la sua vita senza di lui, senza la sua presenza nella casa. Forse abitava in quel palazzo grigio e bianco sull’altra sponda del fiume, al di là dal ponte, ed ogni notte arrivava piano dalla nostra parte, a proteggere noi che aveva abbandonato. Forse per proteggerci meglio ci aveva dovuto prima abbandonare, ma ora ci voleva consolare, o magari aveva lasciato qualcosa di qua dalla riva, nella casa antica, che non voleva tradire, e quel qualcosa eravamo noi, la nonna, io, le nostre bestiole bruttine e spaventate, che non potevamo stare senza di lui, senza i suoi occhi accesi, senza i suoi gesti appassionati e le sue facce buffe, senza i suoi giochi e la sua risata forte. Infatti un giorno lui l’aveva detto, di voler prendere tutte le bestie e gli esseri che ognuno disprezzava, perché noi le avremmo tenute bene e in buona compagnia, e infatti era quello che avevo anch’io capito in una sera piovigginosa a primavera. Ma proprio mentre ricordavo quelle parole gridai quasi nel pensiero correndo ancora a perdifiato, o meglio m’interrogai gridando su cosa il nonno stesse per fare. Era morto o vivo per volersene andare da solo sull’altro lato della riva? Poteva essere vivo, ma poteva essere anche morto, mi risposi; ma in fondo, vivo o morto, che differenza c’era? Se lui era voluto scomparire, lui era come una bandiera destinata sempre a ritornare. In quel momento, invece, mi venne in mente un’altra cosa, come una spiegazione più concreta, e capii che lui era voluto andare ad aspettare da solo la fine della vita.     Allora mi voltai all’indietro, per cercare conferma negli altri due che avevo appena conosciuto, e rimasi ancora ammutolita vedendo ch’erano scomparsi, dissolti anche loro nel nulla che li aspetta, volati via piano per non spaventare gli uccelli sopra i rami.

 

   Senza quasi respirare, ma con un ferro ghiaccio nella gola, mi voltai di nuovo verso l’altra riva e lo vidi ancora scivolare sotto l’arco lieve che il ponte disegnava nella nebbia che s’alzava, e in quella nebbia rada il nonno che scendeva piano un’altra scalinata dentro l’argine del fiume, inseguito dai nostri variopinti animaletti, mi parve come un attore stanco che avesse scelto di vivere in silenzio e come in sogno l’ultima parte della sua recita nel mondo, senza volerla più a lungo interpretare, e che fosse venuto a salutare, per non volerlo più a lungo intrattenere, il suo pubblico devoto, che ormai doveva esser forte a lasciarlo partire, e a riprendersi la sua compagnia di tante bestioline a sangue freddo, che ora gli correvano dietro per non volerlo ancora abbandonare, perché nell’universo disumano neanche le bestie vogliono mai lasciare chi le ha fatte prigioniere senza farglielo pesare, chi per sottrarle all’orizzonte grande della vita tutt’intera che non si lascia mai saziare le stringe dentro un giogo per poterle un giorno liberare.

 

   Tornando ora a quegli indizi angelici che avevo prima preannunciato come assenti, fatta eccezione per la medesima dipartita subitanea cui ho già accennato, non è vero, a dirla tutta, ch’esso fosse l’unico. Degli altri, tuttavia, sono venuta a conoscenza in seguito, per cui non potevo conoscerli prima, ma solo alla fine, quando trovai modo d’ascoltare la cassetta registrata sul davanzale. Infatti, durante quel lasso di tempo in cui mi ero recata ad abbeverare la nonna, i due evanescenti soggetti, stridenti all’aspetto, si erano dette delle cose interessanti.

 

   Un primo indizio, col senno di poi, consisteva in certi discorsi di Cesare, il quale parlava, durante la registrazione, di certe pitture da cui riprendeva quelle che disegnava nelle piazze, e che secondo lui ritraevano tutti quanti i diciassette motivi conosciuti d’ogni possibile decorazione, ovvero quelli presenti nella Alambra di Granada, luogo nel quale non aveva motivo d’essersi mai recato, o se anche così fosse, nel quale non c’era ragione che spiegasse come potesse aver tanto ben memorizzato dettagli tanto sottili e reiterati.

 

  Del resto un angelo, in fondo, disse il secco - e questo poteva essere un secondo indizio - è chiunque dorma, voli o riposi confidando nella morte del suo mare, chi si sente in questo posto sospeso come nube già svenata prima della tempesta che arrechi il sereno, chi affidi al cielo ogni suo essere prossimo o remoto e non occulti il nulla che informa il basamento estremo del suo proprio io, il quale, se non odioso, gli risulta almen scosceso. E anche l’altro convenne esser segno d’angelicità l’obliare, come il suddetto secco a suo modesto avviso continuamente faceva, il contenuto e le implicazioni delle sue stesse frasi di poco precedenti, mentre questa circostanza era semmai, a onor del vero, da attribuirsi ad entrambi in parti uguali, dato che nei loro battibecchi potevano trovarsi il giorno dopo a sostenere le tesi l’uno dell’altro senz’avvedersi ch’erano le rispettive scambiate del giorno prima.

 

  Al che Giulio (immagino, come suo solito, dopo aver inchiodato la mandibola in ermetica postura contro le nocche di una mano) disse che è quando all’improvviso ti volti all’indietro e vedi l’orrore della tua vita, e quel che è peggio vedi tale orrore senza che ci sia nulla di particolarmente orribile, solo la vanità di una fiducia cieca riposta in qualche finalità fuggitiva, ovvero in un riconoscimento ch’è mancato, è allora, cioè, che dal passato nasce una colpa mista a rimpianto che si tramuta ben presto in un desiderio di pena e d’espiazione. Ed è proprio qui che forse avrei potuto capire subito, e non dopo una manciata consistente di minuti: perché disse che in fondo lui era venuto al mondo per risparmiare a qualcuno questo bisogno d’espiazione. E anche Cesare, immagino con la faccia tipica e solita di chi è assente mentre capisce, o capisce proprio in quanto assente, disse che l’unica cosa che in fondo si sente il bisogno d’espiare non è nemmeno l’aver recato del male a qualcuno. Non è tanto il far del male, o l’averlo fatto – disse – che spaventa gli uomini inducendoli ad arrovellarsi la coscienza, quanto il sospetto, la credenza o il semplice presentimento di non saper portare gioia. È questo il vero dramma che si cela nel segreto delle coscienze, questa l’angoscia più terribile che ne può far fiorire molte altre.

 

- Ma queste – aggiunse - non sono che surrogati del primo debito e più fondamentale, quello che non si lascia estinguere con un moto d’incoraggiamento o con la leggerezza d’una narrazione. Questo è ciò che nemmeno Dio riesce a perdonare, perché è solo in questo caso che il suo stesso perdono può sembrargli vano: qualcosa è stato irreversibilmente perduto e nemmeno lui può farlo rivivere da capo, perché il tempo ha per l’uomo una sola direzione, quel che è stato è stato, e questa è per l’uomo la prova che non può più esser perdonato.

 

   E a questo punto Giulio disse che forse l’ultimo stadio poteva essere proprio questo, quello che si sta eternamente per dire e per capire in attesa del perdono di qualcuno, d’un suo riconoscimento estremo, qualcosa che se ne sta una vita sulla punta della lingua come un imminente approdo, un colpo unico dell’intelletto che possa rischiarare la strada al pellegrino che si è perduto.

 

   Ma l’altro, Cesare, il pingue barbone infagottato – ed ecco adesso il terzo indizio che mi era sfuggito - obiettò che in effetti questa era una prerogativa degli angeli, di non potersi deteriorare ma nemmeno migliorare, d’essere in qualche modo condannati a restare uguali a quel che sono portandosi seco quel prurito sulla lingua che non riesce a farsi suono.

 

- E se invece di angeli… fossimo demoni? - chiese a sé e a l’altro Giulio all’improvviso in un ripensamento radicale. E se nel frattempo fossimo caduti? Perduti entro un male segreto in cui non ci siamo accorti di precipitare?

 

- Non è possibile – rispose Cesare – perché è proprio verso il male che ci siamo sospinti scientemente, e non è possibile che un dolore come questo ne celi un altro di maggior spessore.

 

- E se invece non fosse questo il vero male, se non fosse quello che ci siamo presi la briga d’alleviare, ma ce ne fosse un ancor più tremendo e sordo nascosto dietro il primo, ma che non si lascia mitigare?

 

- E infatti c’è una cosa – insisté il più lungo ed emaciato senza dare all’altro il tempo di replicare – una cosa sempre uguale, che ritorna senza mai partire, che non molla la sua presa e pare una cosa vuota, un buco rimasto nell’asfalto dopo un’esplosione, ma anche il parafulmine d’ogni nostra elettrica considerazione, il cratere di chi non chiede più consolazione, che tutto accentra e tutto devia dal suo tracciato. C’è questa cosa scabrosa, oppure solo oziosa, stantia, riottosa ad ogni senso propiziatorio di una prospettiva nuova, c’è questa cosa in cui ci s’incaglia, un quasi nulla, un capello che non ci consente di spiccare il salto decisivo, intorno a cui si può anche per sempre tergiversare pur di non lasciarla sola, come se la sua solitudine fosse irreversibile come la nostra stessa, impossibile come il distacco da un destino unico che non si vuol lasciar morire. E se ne sta lì, rimane intrepida al suo posto, per l’ostinato desiderio di non veder scomparire fors’anche solo la maschera che ci ha accompagnato fino a qual momento, oppure per l’inclinazione dell’anima più remota, quella d’eclissarsi verso una radura appena intravista in un giorno di vento e senza sole tra le spighe, quasi per trovare in una lontananza nuova il segreto della propria essenza, senza ricordarsi di quel che siamo stati prima, quasi che l’esser morti fosse già la nostra condizione. E infatti questa cosa è tanto chiara – aggiunse Giulio quasi sillabando – che non si può trattenerla con un pensiero, ma sempre oscilla lungo la linea di un argine sconosciuto, e come l’anima nostra ogni tanto c’invia un debole barbaglio, il suo evanescente solitario fruscio nel silenzio di un mondo sordo e senza tempo.