Il volo dell'acrobata

    Il momento in cui le mani lasciano la presa può farti rivivere l’intera vita in un solo attimo. Per quanto l’immagine possa sembrarmi scontata non ne trovo una migliore, né più precisa. Che sia la tua o quella di un altro non ha molta importanza: c’è una vita che passa e vola proprio da lì, dalle tue mani, che per quanto abbiano sempre dato buona prova di sé potrebbero essere colte da un subitaneo sgomento, da un’esitazione improvvisa e imperdonabile. Anche se non dipende solo da te. Ci sono molte cose che non dipendono solo da te e che puoi considerare comunque eventualità imperdonabili.
   Come la presa di Clara quella sera. Non sapevo cosa avesse, o le fosse successo. Ci sono molte cose che non possiamo sapere, ma questa considerazione non ci rassicura. Lei era come più debole. Me ne ero accorto già dalla presa precedente, nonostante fosse stata puntuale e adesiva. Solo una pressione appena più debole. Un’anticipazione di un’incertezza più profonda, ineffabile e un po’ sinistra. Forse soltanto il mignolo che non aveva chiuso prontamente la stretta, per qualcosa che si era addormentato dentro, per una dimenticanza di esserci. Come il vento abituale del mio girovagare in su e giù sulla stessa altalena. Quel vento caldo e monotono che mi accompagnava ogni sera, ma che in quella circostanza mi pareva  - strano a ricordarsi, quanto può essere strano che i ricordi ti tradiscano tanto silenziosamente - mi pareva, mi parve, l’alone un rifiuto. Di cosa non saprei dire. Certo, se non mi avesse più cercato, ci sarei rimasto male. Al fatto che non avesse fino ad allora manifestato cenni di amore nei miei confronti ormai mi ci ero quasi abituato. Ma se avesse smesso di cercarmi, almeno ogni tanto, ci sarei stato male. Di un male tremendo e difficile da decifrare. Perché si può star male per cose da nulla, per un sospiro gettato al vento nella direzione sbagliata, dove non sembra che ci sia qualcuno ma c’è sempre qualcuno, un altro, semplicemente un altro che calza meglio la figura lasciata vuota da chissà chi o che cosa, il paragone ellittico che la stessa nostra presenza nel mondo è destinata a proporre e subire.

   Se non mi avesse più chiamato col suo solito minuscolo gesto certo ci sarei rimasto male. Se non ci fosse stato quel gesto, quel leggero inarcamento della testa accompagnato da un lieve aspro sorriso che avevo solo intravisto qualche volta e che continuavo a immaginarmi con una certezza assoluta, e temevo sempre che venisse a mancare, se non ci fosse stato mentre eseguivo il mio rituale tragitto verso il punto fatidico del nostro incontro consueto ci sarei restato male. Nel nostro cielo fittizio e limitato da funi e piloni, nel suo blu ultramarino trapunto di stelle inesistenti,  ingenuamente dipinte sulla sua volta provvisoria, che tra le tante che avevamo indipendentemente visitato era quella che ci era più cara, per il solo semplice fatto che ci aveva legato senza saperlo, sotto il nostro cielo ci sarei rimasto male.
   Eppure era successo. Senza che nemmeno avessi avuto il modo o il coraggio per accorgermene. Tutto nasce senza accorgersene. Nemmeno ciò che sta nascendo lo sa, quello che nasce. Figuriamoci noi. Figuriamoci chi pensa di doverlo sapere. Ogni nascita, di qualsiasi cosa, è per forza in anticipo. La nostra coscienza arriva sempre dopo. Anche se non vuole accettarlo. Anche se vorrebbe preordinare, essere lei ad anticipare il caso e gli eventi, i bruschi rifiuti, gli oltraggi che la sorte assopita nell’anima di chi amiamo sa tenderci. O anche di chi potremmo soltanto amare, di chi stiamo semplicemente incominciando silenziosamente, sommessamente ad amare. O di chi non c’importa nemmeno molto di poter amare, perché la sua presenza nel mondo ci basta, misteriosamente, come se non c’interessasse essere i protagonisti di una storia, ma soltanto i suoi testimoni.
   Testimoni di qualcosa che a nostra insaputa s’impadronisce dell’aria e dei nostri gesti più quotidiani, fino a quella improvvisa interruzione, a un’esitazione fatale, non si può sapere quanto non cercata, non si può sapere, perché un rigagnolo di dolore scava sempre in segreto il suo piccolo letto. Così come io stesso fui testimone di quel rifiuto. Ad afferrare con forza la presa nel momento decisivo, a continuare sull’onda, a tenersi ancora in bilico sopra un filo sospeso tra pareti invisibili. Quasi per l’impossibilità di fare uscir fuori quel dolore che si era nascosto da qualche parte, come un muto insetto annidato sotto la pelle del cuore.
   Non sembrava avere un’origine precisa, quel dolore. Nella sua vita, negli ultimi tempi, a parte la storia con Paco, non era non era successo nulla di particolare, tutto scorreva con l’apparente inerzia serena di sempre, lei sempre allegra nel divincolarsi da ogni attenzione che potesse sembrarle ingiustificata e pronta ad afferrare ogni nuova occasione di una gioia passeggera, pronta a sorridere e a ridere apertamente, quasi con un lieve melodia liberatoria ogni volta, un’ondulazione del tempo avvenire che prendeva le mosse dalla piega delle sue labbra.        
   Nei brevi giri che faceva nelle città che ospitavano i nostri spettacoli pareva quasi una turista capitata lì per caso e aveva un’indolenza distratta anche nei gesti più svelti e nel suo passo leggero, quando improvvisamente davanti a una vetrina faceva ruotare il busto per riprendere il cammino. Anche i  rapporti con i suoi compagni avevano l’aspetto di una presa sicura, erano naturali come un abbraccio sincero al termine di un breve distacco. C’era in quegli abbracci veri una giusta passione, una strana misura, un equilibrio inusuale nel portamento dello slancio. E sembrava che nulla potesse ferirla davvero. Forse solo, talvolta, qualche frase o comportamento poteva appena stupirla, indurla a pensare per un istante, sospenderne l’espressione verso un punto vuoto. E quando pensava accennava sempre un sorriso, che solo con il tempo imparai a riconoscere. Il sorriso di quando rapidamente pensava e concludeva senza null’altro lasciar trapelare, che soltanto un arco era stato teso e richiuso, che un gesto interno, come in certe eleganti arti marziali, era stato iniziato e finito.
   Quella mattina durante le prove invece mi era sembrata troppo forte, quasi che avesse preso una decisione, o fosse sul punto di prenderla. I suoi movimenti erano orientati verso un obiettivo silenzioso, pur sembrando in un certo senso esattamente uguali agli altri di ogni mattina. La sera prima l’avevo vista da lontano correre incontro a Paco e rimanere a lungo abbracciata con lui nello spiazzo antistante all’ingresso. Poi si erano allontanati quasi cercando di correre verso il fiume, ma con un passo esitante e interrotto, appoggiandosi una all’altro: lui, che voleva sorreggerla, finì con l’appoggiarsi a lei.
   Io quella notte avevo sognato di camminare su un filo sospeso tra alti palazzi, e poi uscivo dal filo nell’aria, sopra la folla sottostante, senza toccare più nulla. In una leggerezza che sarebbe continuata finché vi avessi creduto, solo con il mio respiro e un cielo nero. Forse per contrasto il sogno mi tornò in mente solo in quel momento, quando ebbi vedendola quell’impressione di un vuoto che si era spalancato da qualche parte nella sua vita, e forse anche nella mia, di una decisione compiuta e non scelta. Così come ripensai al mio desiderio di avere un figlio con lei, anzi, ancora più esattamente una figlia, e a come un giorno, guardandola mentre parlavamo, mi parve quasi di riconoscerla nei suoi occhi, o meglio dentro un solo occhio, fino a scorgervi l’intero volto di una bambina e la sua espressione nuova, che mi parve fosse già dentro di noi, come quella di un essere intermedio sospeso tra noi e che poteva non trovarsi lì solo provvisoriamente. Arrivai a dirglielo, per una certezza mia, ma forse contagiato anche dalla sua schiettezza, e lei mi rispose che ci avrebbe pensato, con un sorriso lieve e scherzosamente lusingato.
   Quel giorno mi aveva parlato della fuga dalla sua stanza, dei suoi viaggi, della sua voglia di solitudine e della decisione presa da adolescente di fare questo mestiere senza averne esempi in famiglia, per un impulso del destino, tutte cose che mi aveva raccontato con la sorprendente sicurezza di sapere già quanto doveva sapere, di disporre di un metodo sicuro per capire. Forse è proprio in casi come questo che un senso di vuoto può arrivare improvviso, quando in un certo senso non si ha bisogno di nulla e i rapporti e gli eventi sembrano scorrere via lisci dentro una spuma leggera, con una cadenzata sicurezza, perfettamente immotivata e tuttavia ragionevole e placida, per l’abitudine di guardare la vita dritto negli occhi. E comunque non ne sapevo nulla. Ricordo però bene che quella sera, prima del nostro numero, aveva un’espressione spaventata. La cosa era per lei del tutto inusuale e certo non dipendeva dall’esercizio. Poteva dipendere, ho capito poi, solo dal riconoscimento di una fatalità, di qualcosa che non dipendeva davvero da lei.
   “Stasera si vola”, una frase che mi parve subito strana e inquietante. Volavamo, o almeno lei volava - perché io, a parte il salto finale, rimanevo più o meno comodamente seduto sul mio trapezio – ogni sera. E allora perché “stasera si vola”, detto così, poco prima di salire, in modo che solo io potessi sentire?
   Vladimir, con cui aveva avuto una relazione durata quasi un anno e iniziata poco dopo che avevamo incominciato a lavorare insieme, una relazione che mi era sempre parsa indefinita e austera, mi disse poi di non aver notato nulla di strano, né quella sera né i giorni precedenti. Quella frase lui non l’aveva sentita. Con lui aveva in passato trascorso buona parte del suo tempo libero e delle sue notti, mentre negli ultimi mesi di notte stava solo con Paco: lo avevo visto entrare da lei più di una volta, dopo lo spettacolo, quando non potevo o non volevo prendere sonno.
   Parlava poco, Vladimir, anche lui sembrava limitarsi all’essenziale in ogni gesto. Sotto un certo profilo le assomigliava. Come altri russi che avevo conosciuto aveva sempre un’aria concentrata, un’espressione  asciutta e discreta disegnata sul volto. Dopo che seppe dell’accaduto non gli vidi fare una piega, la sua concentrazione, almeno all’esterno, era rimasta immutata, solo la sua espressione sembrava essersi fatta più contratta del solito.
   Paco invece lo vidi piangere a lungo per molti giorni. Era probabilmente la persona con cui aveva parlato di più fin dall’inizio; subito dopo, credo, venivo io. Era un  bravo Clown, Paco, di quelli molti tristi, di quelli che sprigionano sempre un po’ più di tristezza che di comicità da ogni gesto. Per questo faceva ridere molto i bambini. La tristezza, quando è repentina e ostentata sul volto, fa ridere i bambini. L’ho notato spesso, e credo dipenda da un contrasto stridente che loro percepiscono, dal fatto che sanno come sia facile passare dal riso al pianto e come da un pianto esagerato poi si possa sempre ritornare al riso, quasi che il riso potesse essere il luogo dove il pianto trabocca, il suo luogo più proprio e definitivo. E’ questa facilità che li fa ridere, questo  stratagemma spontaneo dell’anima, mentre a me provoca solo un leggero sorriso, credo un po’ incredulo e raffermo.
   Di notte vedevo la luce accesa nella loro carrozza dalla mia fino a tardi e talvolta li ho sentiti parlare a lungo, o meglio ho sentito parlare lei, perché in effetti lui lo ha sempre fatto a voce bassa, tutto il contrario di quella a tratti roboante che sapeva incredibilmente farsi uscire dalla bocca quando sbraitava in mezzo alla pista agitando le mani e minacciando un enorme pesce che lo fissava movendo la bocca con aria indifferente, mentre lui cercava ostinatamente d’interpretare la sua espressione senza riuscire a decidersi se doveva temerlo o volerlo cacciare.
   Di giorno invece facevano lunghe passeggiate. Andavano insieme in cerca del verde e finivano spesso per sedersi sull’argine del fiume. Così mi capitava di poterli vedere appollaiati accanto, con le ginocchia reclinate o le gambe incrociate, e due o tre volte fui invitato anch’io a partecipare, da lei, e soltanto, credo, perché mi trovavo a passare dal punto in cui si stavano incamminando.
   Parlavano sottovoce. Di solito Clara parlava con un tono normale, anzi, abbastanza sonoro, ma quand’era con lui si adeguava al suo basso volume. Che poi era in perfetta sintonia con il suo aspetto esile e leggero, perché Paco sembrava un uccellino, il suo volto quello di un bambino magro, e faceva un effetto strano il vederlo poi artificialmente ingrassato e panciuto nei suoi costumi clowneschi, con il naso rosso a patata e le scarpe grosse.
   Avevano un bel modo di parlare, quasi che uno continuasse i pensieri che l’altro lasciava a metà, sospesi in cerca di uno sviluppo. Erano dialoghi un po’ alla “cantonade”, che deviavano continuamente da ogni ipotetica traccia, ma a volte lui incrociava lo sguardo di Clara come a sottolineare qualcosa che lei aveva detto, o che aveva mancato di dire. In quelle occasioni io per lo più tacevo e ascoltavo, per il timore di alterare un’invisibile eco, la misteriosa regola dei loro silenzi e del loro scivolare verso un altro argomento. Fino a quando lei non voleva correre, e siccome lui non voleva mai seguirla si metteva a sedere e aspettava di vederla tornare trafelata, a volte anche dopo un’ora di attesa. Un giorno che ero andato con loro quell’attesa durò ancora più del solito, e Paco ed io cominciammo quasi a preoccuparci, fino a quando non la vedemmo ritornare con un passo lento da una direzione inaspettata. A un certo punto, quando fu a una decina di metri, si fermò ad osservarci, in silenzio, senza nemmeno un accenno di sorriso.
   Quella volta riuscii anch’io a parlare con Paco. Per farlo gli raccontai la mia vita, sebbene mi sembrasse un modo un po’ pretestuoso per intavolare una conversazione, e lui incominciò a manifestare qualche interesse per quello che dicevo solo quando gli parlai di quando da ragazzo lavoravo con mio padre nei campi, di quando mi aveva insegnato a correre bene, con la falcata leggera, alzando bene le ginocchia e lanciando il piede in avanti, per giocare anche meglio a pallone; e poi del giorno che mi portò a provare il nuovo trattore. Mi spiegò cosa dovevo fare per mandarlo, mi ci issò sopra e mi fece partire, e nonostante le buche e i sobbalzi che rischiavano di farmi perdere l’equilibrio per la prima volta mi parve di poter volare.
   Un’altra volta invece andammo tutti e tre insieme all’opera, a Genova, nel giorno di riposo, a vedere Madama Butterfly. Fu quella l’unica occasione in cui vidi Clara piangere, poco prima della morte di Butterfly, durante l’aria che precedeva il finale. Lei non aveva davvero mai perso nessuno, così mi aveva detto un giorno. Ma non era possibile. Alla sua età, aveva ventisei anni, ormai qualcosa di paragonabile a una perdita ci doveva essere stato, ma lei mi rispose di no: i suoi erano tutti vivi, anche i nonni, nessun ragazzo o compagno l’aveva mai lasciata, tranne forse un bambino alle scuole elementari che un giorno l’aveva quasi picchiata per gelosia e che ricordò con quel suo solito sorriso segreto. Anche lei stentava a crederlo e sembrava scoprirlo solo in quel momento: nessuno l’aveva mai lasciata da sola e non aveva mai perso nessuno, nessuno l’aveva mai abbandonata, i suoi si facevano sentire regolarmente, anche se lei non li chiamava quasi mai, ed erano sempre molto affettuosi senza essere invadenti o oppressivi, i nonni le mandavano i saluti e qualche consiglio premuroso e tutti erano sempre stati in qualche modo presenti. Secondo me non aveva nemmeno mai temuto di poter perdere qualcosa, l’amore di qualcuno, e tutto l’attaccamento alla vita può risultare così come senza fondamento, sospeso intorno al filo delle cose piacevoli da fare e da vivere, che però da sole non possono tenere in piedi un’esistenza. In fondo anche l’amore può riuscire a farci sentire soli, anche quando ci arriva nella sua forma migliore, e la solitudine che allora può scaturirne è di un tipo cristallino, sobrio e assoluto. Allora può bastare un’ombra, un’esitazione a indicare la mancanza di un motivo, di qualcosa che ci àncora alla vita e agli altri, e lei mi sembrava essere proprio in questa posizione, con l’ombra di quella mancanza di paura sospesa sopra la testa, oscillante come noi tutti i giorni, quando appesi al trapezio o in volo giocavamo a quella spericolata altalena.
   Prima del nostro numero, quella sera Paco mi parve stranamente svuotato. Il pubblico non rideva, se non a tratti e in modo indeciso, e da dietro le quinte lo vidi bloccarsi, non saper più proseguire, come se non si ricordasse più di cosa doveva fare e della gag successiva.
   Quella stessa sera Clara non strinse bene la presa, era lievemente in ritardo, e cadde pesantemente nella rete, rimbalzò obliqua e rischiò di farsi male nell’uscita a terra. Poi risalì: ripetemmo il numero. Questa volta tutto andò bene, ma la sua espressione era davvero finalmente mutata, assente e tesa. Subito dopo la fine del nostro numero scomparve, si cambiò in fretta e uscì all’aperto, incamminandosi verso l’argine del fiume con la faccia rivolta a terra. Non correva e non sembrava animata dall’intenzione di raggiungere un luogo qualsiasi. Non so perché la seguii, ma mi parve di doverlo fare. Il suo sorriso sembrava troppo sereno, gli occhi ben aperti, stranamente troppo aperti, o almeno così mi parvero quando la raggiunsi. Quando le chiesi cos’era successo non mi rispose. Paco era accanto a lei, ancora in costume, perché doveva averla anticipata, e si teneva la testa tra le mani, il viso sporco di Rimmel e insanguinato dalle sbavature di rosso. Piangeva con un rumore sordo. Le luci delle auto lampeggiavano in lontananza e qualche clacson più lontano emise dei suoni metallici. Il fiume scorreva piano sotto un alone di luna. Gli occhi aperti di Clara sembrava respirassero quella luce tenue e argentata e anche quelle luci lontane, quasi stessero entrando in lei una ad una, freddamente come le note di un notturno. I suoi occhi sorridevano per uno stupore indefinito, come se nella sua vita non fosse successo mai nulla di decisivo e solo ora se ne stesse rendendo conto. Ma poi all’improvviso prese a respirare più forte. Tirò un grande sospiro e tutto intorno fu un gelo di gioia sospesa. Paco smise di piangere e iniziò a guardarla. Clara respirò ancora profondamente più volte e ci guardò uno a uno negli occhi, Paco e me, che adesso eravamo vicini. Come sconosciuti, ma anche come persone nuove che si affacciavano per la prima volta nella sua vita. Le voci del pubblico all’uscita ci raggiunsero con una folata di vento. Commenti vivaci che mi parvero esultanti, avvolti entro un mormorio distratto e familiare. Lei si sedette accanto a Paco e dopo qualche istante l’abbracciò. Stupidamente non riuscivo ad andarmene, a lasciarli da soli. Paco le prese una mano. Lei lo guardava con una specie di pena, o di pietà, senza sapere cosa fosse successo davvero, o come se non lo sapesse. Movendosi mi parve provare una fitta nel corpo, al ventre o al torace. Si alzò un attimo in piedi per respirare meglio e fece qualche passo, poi tornò a sedersi accanto a lui. Forse aveva voglia di piangere anche lei, o di gridare, o di ridere senza un motivo. La sua era una di quelle espressioni che possono trasformarsi in qualsiasi altra. Allora mi tornò in mente quello che avevo visto la sera prima, lei che gli correva incontro per abbracciarlo. Erano rimasti così abbracciati piuttosto a lungo, nello spiazzo davanti all’ingresso. 

   Ad un certo punto si volse un attimo verso di me, per accertarsi che ci fossi ancora, o almeno così pensai. Mi avvicinai e le posi una mano sulla spalla, mi inginocchiai accanto a lei e le chiesi ancora una volta cosa fosse successo, come se la cosa mi riguardasse, contro ogni apparenza. Il giorno prima avevano perso la loro bambina. Usò il plurale: avevano perso la loro bambina. Lo disse con un filo di voce, con la voce quasi di lui. Non so come facesse a sapere che si trattava proprio di una bambina, perché poi mi disse che era di poche settimane. La mattina presto, io stavo ancora dormendo, lei era in città e si era sentita male. A Paco lo aveva detto solo dopo quell’abbraccio e quella corsa di sera, al ritorno dall’ospedale. Tutto quello che seguì a quella giornata fu diverso da quanto l’aveva preceduta, lei fu diversa. Aveva scoperto una cosa nuova, una parola che le era sempre mancata, l’occasione di una possibile perdita definitiva e improvvisa, mai ritenuta possibile prima. La nascita stessa del vuoto, di uno sgomento che non aveva mai provato, ma anche la certezza d’essere come in un sogno, che tutta la sua vita fosse solo in un sogno, che questa fosse l’unica certezza di tutta la sua stessa esistenza, una certezza nuova da proteggere e blandire per il voler continuare a vivere, per quel poter perdere di colpo tutto ed essere lasciata dalla mano misteriosa e sicura che l’aveva sempre guidata, senza avere nemmeno il tempo di capire, senza avere avuto il tempo nemmeno di sapere che aveva vissuto e che stava ancora sognando tutt’intera la vita, un’altra vita, più sua di quanto la sua non fosse mai stata.
   Rimasi ancora un po’ con loro, senza dire una parola, oppure invece forse dissi qualcosa, chiedendo come fosse successo o cose del genere, perché aveva comunque partecipato al numero, forse, ma non mi ricordo. Abbiamo per fortuna, o almeno ho io, la capacità di dimenticare le cose e le frasi inutili. Poi lentamente m’incamminai verso il circo, accelerando il passo controvoglia, per neutralizzare il desiderio di rimanere su quel poggio erboso, accanto a lei, che stava accanto a Paco che ogni tanto piangeva, perché lei non riusciva a piangere, a parte quella volta di Madama Butterfly. Non piangeva nemmeno ora, forse perché la vita che aveva perso coincideva con la sua e se ne erano andate insieme, oppure piangeva ora che me ne ero andato, finalmente, per colmare il dolore di Paco con il suo, che forse poteva sentire solo quando serviva a colmare il dolore di un altro. Li avevo lasciati da soli e ora stavano di sicuro volando in cielo a visitare la loro vita, e in qualche modo anche la mia, una piccola vita eterna, leggera e intangibile, una vita vera che non poteva essere più perduta, né perdersi più da sola, come una stella bambina, una breve cometa con la faccia da clown, un’acrobata notturna rimasta per sempre in volo sospesa.