Un dragone per tutte le stagioni
Qual è l’habitat politico migliore per il capitalismo?
La repubblica popolare cinese è oggi il paese che ha la migliore crescita economica del mondo, ma è anche il primo paese al mondo a far registrare un così rapido sviluppo economico senza che sia stato raggiunto un elevato reddito pro capite. La sua economia è cresciuta più grazie alle esportazioni che ad una crescita corrispettivamente proporzionata della domanda interna. Ha ormai un ruolo fondamentale nel commercio internazionale e possiede enormi riserve in valuta estera; si sta comprando l’Africa e può vantare il maggior numero di miliardari al mondo, e tuttavia viene ancora per lo più considerata, e si considera, uno Stato comunista. In effetti non ha mai rinnegato, almeno formalmente, il suo passato, i cui simboli sono ancora presenti nelle sue strade o piazze, così come sulla sua bandiera.
Oggi la Cina è anche il paese che – come fa notare Jared Dianond nel suo libro apocalittico Collapse (2005) e come evidenzia Peter Hugh Nolan, direttore del Centro studi sullo sviluppo presso l’Università di Cambridge e membro del Jusus College, oltre che direttore del Chinese Executive Leadership Program (Celp) – “contribuisce maggiormente all’emissione nell’atmosfera di clorofluorocarburi, di altre sostanze nocive per l’ozono e (tra poco tempo) di anidride carbonica; le sue polveri e gli agenti inquinanti dell’aria vengono trasportati nell’atmosfera verso est nei paesi vicini e anche nel Nord America; inoltre è uno dei due principali importatori di legname della foresta pluviale tropicale, cosa che la rende un fattore di primo piano nella deforestazione dei tropici”.
Ma questa è solo una delle preoccupazioni sollevate dall’attuale ed eccezionale sviluppo della potenza economica e politica cinese. È sempre Nolan ad osservare, in uno scritto contenuto in una raccolta di saggi di vari autori (Il mistero del dragone. La dinamica economica della Cina, Trieste, 2019, Asterios editore) che “in tutti i paesi ad alto reddito vi sono profondi timori anche riguardo all’impatto della Cina sui valori che governano la comunità globale degli anni a venire. […]. Analisti occidentali di orientamenti politici molto diversi hanno messo in guardia dal pericolo rappresentato dal modello di sviluppo autoritario della Cina indicato come Beijing Consensus”.
Stefan Halper, addetto alla Casa Bianca sotto varie amministrazioni repubblicane, per esempio rileva come, “in materia di etica globale, i principi che governano i fondamenti del modello americano – il suo patrimonio più importante - vengano messi in sordina quando si tratta della Cina e che si rischi di cedere l’autorità morale e l’eredità occidentale che ha animato per 200 anni l’attrattiva del modello americano” (Halper 2010, xii). Egli considera che l’etica fondamentale del modello cinese si basi sul modello secolare dei valori confuciani: “e visto che gli apparati di governo dell’occidente hanno la responsabilità di assicurare agli individui il diritto di espressione politica, di assemblea e di discussione pubblica e che gli individui hanno il dovere di esercitare tali diritti, questi valori sono l’esatto contrario di quelli della società confuciana”.
Per questo, in Beijing Consensus Halper esorta i leader americani “ad impegnarsi in una lotta globale per affermare e sostenere il primato dei valori occidentali”: quest’impegno gli pare indispensabile proprio per evitare quel panorama da incubo che potrebbe essere provocato dal pericolo giallo e che viene descritto in maniera molto efficace da Jared Diamond in Collapse.
La Cina è arrivata a costituire un simile pericolo per l’occidente e per il mondo dopo essere stata a lungo un paese “comunista”, con tutte le tragiche conseguenze del caso per il suo popolo. Nell’introduzione a Il mistero del Dragone si ricorda che la sottrazione di mano d’opera e di risorse alla produzione agricola per avviare un’industrializzazione forzosa “ebbe come conseguenza la carestia del 1960-61, portando alla morte 10-15 milioni di persone. Poi, dopo che il fallimento del grande balzo in avanti provocò la momentanea emarginazione di Mao dalla dirigenza cinese, dal 1965, grazie al movimento dei giovani studenti comunisti sfociato nella rivoluzione culturale, lo stesso Mao “diede vita ad una battaglia ideologica contro la vecchia dirigenza filosovietica tacciata di revisionismo che portò alla persecuzione, alla deportazione nelle campagne di milioni di persone destinate ai lavori forzati e persino all’uccisione di migliaia di tecnici e scienziati”.
Ancora secondo un’indagine del 2008 della Laogai Research Foundation, nella Repubblica popolare cinese ci sarebbero stati, ancora in quell’anno, cioè circa dodici anni fa, 1422 Laogai, ovvero campi di rieducazione e di lavori forzati in cui, secondo diverse fonti, si pratica normalmente la tortura, anche con finalità di rieducazione politica.
Nonostante tutto questo, la Cina occupa ormai stabilmente una posizione di assoluto rilievo nella politica estera e nell’interscambio economico della maggior parte dei paesi occidentali.Così come il maoismo è stato “un’ideologia che negli anni 60 -70 ha avuto numerosi seguaci presso giovani attivisti di movimenti di ultrasinistra in moltissimi paesi”, analogamente, e in misura forse non meno rilevante, la Cina di Deng è poi “diventata un mito sia per gli osservatori economici occidentali sia per le vecchie glorie che in gioventù sventolavano il famoso libretto rosso di Mao”.
Per definire la combinazione socioeconomica e politica che caratterizza il modello politico cinese si ricorre spesso alla locuzione “capitalismo di Stato”, in virtù del fatto che lo Stato partecipa al capitale di molte importanti aziende private e che detiene il pacchetto di maggioranza di numerose società di rilievo internazionale. Ma secondo i coautori de Il Mistero del dragone un tale modello, e cioè una terza via cinese tra comunismo e capitalismo, semplicemente non esiste: c’è “solo un modo di produzione capitalistico che ha ormai pervaso tutto il globo terrestre”. Ma allora perché, nonostante tutto ciò, i leader del PC cinese, per legittimando la proprietà privata dei mezzi di produzione, continuano a definirsi comunisti?
I requisiti fondamentali e “strutturali” affinché un paese possa definirsi “comunista” sono l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e delle libertà politiche scaturite a suo tempo dalle tre grandi rivoluzioni borghesi. In ogni paese comunista, in qualsiasi periodo storico lo sia diventato, queste caratteristiche hanno implicato il venir meno sia della libertà politica che della libertà economica. Questa doppia limitazione lo differenzia strutturalmente dalle dittature fascista e nazista, dove la libertà d’impresa economica era stata garantita nonostante la soppressione della libertà politica. In esse le aziende private continuarono a prosperare e in molti casi incrementarono i loro profitti, anche grazie a commesse di Stato e a una politica protezionista o addirittura autarchica. La libertà economica d’impresa non fu però mai messa in discussione nel suo complesso, ma solo limitata in alcuni campi.
Durante il periodo in cui Hitler fu al potere – almeno fino all’inizio del secondo conflitto mondiale - la Germania vide migliorare sensibilmente la sua situazione economica rispetto al decennio precedente, e anche in Italia la situazione economica fu complessivamente migliore rispetto al primo dopoguerra. Tali risultati non furono casuali: essi furono possibili anche grazie alla struttura dello Stato e dell’economia, che consentendo la libertà d’impresa e assecondando la logica capitalistica del profitto esercitavano nel contempo un controllo totalitario sui lavoratori gestendo con parsimonia dall’alto il loro accesso alla tutela dei loro diritti.
Ora, nonostante tutte le differenze che sussistono sotto il profilo culturale e storico-sociale tra il regime fascista, quello nazista e quello che vige oggi nella Repubblica popolare cinese, la struttura politico-economica di quest’ultima è di gran lunga più simile a quella di quei regini che non a quella che ha sempre caratterizzato i paesi comunisti, compresa la Cina durante l’età maoista e comunque fino a poco più di una ventina di anni fa. Certo, quelle dittature erano caratterizzate anche dal “potere carismatico” dei suoi “leader” politici, da quello stesso “potere carismatico” che dopo la morte di Mao non sembra più rivestire in Cina un ruolo altrettanto decisivo, tendendo questo paese piuttosto ad assumere una forma di governo più simile a quella di una oligarchia che pare ispirata al potere burocratico dei mandarini durante la lunga età imperiale e alla tradizione confuciana. Ma l’analogia “strutturale”, ovvero quella concernente il rapporto tra politica ed economia, con il regime fascista e quello nazista risulta comunque abbastanza evidente, almeno se paragonate alle differenze che intercorrono oggi con il vecchio regime comunista.
Il fatto che quella che si avvia a diventare la prima potenza economica mondiale abbia una struttura economico-politica analoga a quella dei regimi fascista e nazista non sembra però creare un eccessivo imbarazzo nei paesi che hanno costituzioni di tipo liberaldemocratico. Di fronte alla possibilità di migliorare l’interscambio commerciale e industriale con un mercato di oltre un miliardo e mezzo di persone, tutti gli altri aspetti di ordine politico e sociale sembrano destinati a passare in secondo piano, e comunque non si rivelano in grado d’incidere sensibilmente sulle relazioni con la Repubblica popolare cinese.
In Italia, in particolare, illustri esponenti di partiti che hanno fatto per decenni dell’antifascismo una delle loro bandiere e che ancora oggi richiamano spesso l’attenzione sull’antifascismo quale momento fondante della nostra costituzione repubblicana durante cerimonie pubbliche e attraverso dichiarazioni ufficiali non esitano a mostrarsi tolleranti o benevoli nei riguardi di un paese illiberale e strutturalmente di tipo “fascista”, nel quale cioè le libertà politiche e civili non sono certamente più tutelate di quanto non lo fossero in Italia durante il ventennio.
Rispetto a quella che viene dai più considerata una eccezionale opportunità per le nostre aziende, qualsiasi altra considerazione non viene seriamente presa in esame, né tanto meno ci si interroga sulla reale natura del regime politico con il quale si desidera, in primo luogo, fare buoni affari. Esso viene per lo più considerato un paese ex-comunista che si è poi trasformato in una sorta di capitalismo di Stato, e questa interpretazione sembra idonea a lenire le eventuali controindicazioni politiche e culturali che il nostro crescente interesse verso la Cina potrebbe avere presso l’opinione pubblica.
Anche il fatto che l’organizzazione politico-economica della Cina le consenta di praticare, nell’interscambio commerciale, una concorrenza decisamente sleale passa in secondo piano rispetto alla mole di vantaggi economici che da tale interscambio i grandi gruppi finanziari e industriali dell’Occidente possono ricavare, e suggerisce quindi l’opportunità di rinunciare a definire tale regime con il nome più appropriato.
Naturalmente, tali motivazioni sono del tutto rispettabili, e forse anche, sotto un certo profilo, persino giustificate, ma lascia piuttosto perplessi che nemmeno da parte di molti giornalisti, intellettuali e storici, i cui interventi non potrebbero certo danneggiare in misura rilevante i rapporti commerciali con la Cina, vengano avanzate riserve o suggerite precisazioni degne di nota. In pratica, finché si tratta di combattere un fascismo che non c’è più, tutti si mostrano molto disponibili e solerti; quando invece si tratta di rapportarsi ad uno che è vivo e vegeto pare più opportuno chiudere un occhio e assecondare gli interessi economici dominanti.
Questa strategia politica del “chiudere un occhio, o anche due” è stata comunque, negli ultimi decenni, adottata da tutto l’Occidente. Ciò non è stato privo di conseguenze, se è vero che un paese illiberale e non democratico sta diventando la prima potenza economica del pianeta e si sta comprando il debito pubblico di mezzo mondo. Nemmeno l’atteggiamento prono della stessa Europa verso gli interessi dei suoi maggiori gruppi industriali e finanziari, così come verso gli interessi del “capitalismo di Stato” cinese, non è privo di conseguenze, com’è normale che sia quando si coltiva il libero scambio con un paese illiberale, che pratica una concorrenza particolarmente efficace proprio in quanto fondata sulla mancanza degli elementari diritti democratici e sindacali dei suoi cittadini.
A questo proposito, sul Corriere della sera del 3 Ottobre del 2014 il filosofo sloveno Slavoj Žižek proponeva, in rapida successione, una serie di considerazioni in alternanza illuminanti e fuorvianti, abbattendo alcuni pregiudizi e consolidandone altri. Secondo Žižek il capitalismo asiatico costituisce una forma di capitalismo ancora più efficiente e radicale di quello praticato nei paesi liberal-democratici dell’occidente. “Il capitalismo globale – sostiene - non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di religioni, culture e tradizioni locali” ed esso “non implica necessariamente l’edonismo e l’individualismo permissivo”. Anzi, la persistenza delle tradizioni premoderne può costituire l’humus ideale per l’insorgenza di un capitalismo selvaggio, fornendo una “giustificazione etica a chi condivide la logica spietata della competizione di mercato”. Zizek ne evince che “la libertà sia un fondamento debole per il capitalismo nell’occidente, perché è anche un fondamento vuoto” e sostiene quanto certa tradizione marxista afferma più o meno esplicitamente da tempo: che molte libertà dell’occidente siano più apparenti che sostanziali e che una certa “illibertà mascherata dal suo opposto si manifesti in una miriade di forme”.
Certo, il liberalismo occidentale è solo uno dei possibili habitat politici del capitalismo: è solo uno tra i molti in cui tale sistema economico può crescere e prosperare. In assoluto, non può essere considerato come quello in grado di garantire la maggiore crescita economica. A testimoniarlo, non sono soltanto le vicende socio-economiche di paesi come la Cina o di altri post-comunisti, ma sono ancora prima le strutture economiche e politiche del fascismo e del nazismo. Quest’ultimo regime, in particolare, attraverso imponenti appalti pubblici, l’appoggio alle grandi imprese e una politica salariale restrittiva, poté garantire una notevole crescita economica cancellando ogni traccia dello Stato liberale, pur mantenendo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Anche il nazismo, come in precedenza il fascismo, cancellarono la libertà politica e conservarono quella economica, così come sceglierà poi di fare Deng Xiao-Ping quando, ispirandosi al modello economico di Singapore, fornirà un nuovo modello economico al “sedicente” comunismo cinese.
In realtà, di comunismo in Cina non si può più parlare da tempo, almeno da quando è stata riammessa la proprietà privata dei mezzi di produzione e la legge del profitto può prosperare in una maniera ancora più decisa ed efficiente di quanto non avvenga nei paesi liberaldemocratici. Al cospetto di quanto avviene in Cina, le pur deficitarie tutele delle libertà e delle dignità personali ancora in vigore in occidente si rivelano cosa non da poco, tanto che lo stesso occidente si sta organizzando, proprio per reggere la concorrenza con il capitalismo asiatico, per abolire le conquiste conseguite dai lavoratori nel corso di almeno due secoli e abbandonare almeno buona parte di tali tutele.
La prossimità strutturale – sebbene non socioculturale – del capitalismo asiatico con quello fascista e nazista dovrebbe invece ricordare a tutti, anche alla luce di quanto sostiene Žižek, che non è il capitalismo tout-court il tratto saliente delle democrazie liberali occidentali, ma solo quel tipo di capitalismo che può sorgere nell’ambito del rispetto dei principi liberali e democratici, e cioè indisgiungibile dalla tutela dei diritti politici e civili previsti dalle costituzioni di questo tipo. Il capitalismo in quanto tale – ecco ciò su cui Žižek ha ragione – può in effetti svilupparsi meglio in assenza di libertà politiche: in queste circostanze si possono infatti meglio sfruttare i lavoratori, tenere sistematicamente bassi i loro salari e privarli dei loro diritti fondamentali.
Se la Repubblica popolare cinese risulta oggi economicamente tanto efficiente, è proprio in quanto i suoi leader riescono a coniugare bene liberismo e assenza di libertà politica, e questa circostanza dovrebbe far riflettere sulla assimilazione implicitamente denigratoria delle società liberaldemocratiche a quelle capitaliste, così come, sulla scia di Marx, viene proposta dallo stesso Žižek.
Dato che poi il capitalismo mostra di preferire quale habitat società politicamente illiberali, quando non vere e proprie dittature, la reale vocazione delle stesse liberaldemocrazie occidentali sarebbe in definitiva, secondo questa logica, quella di estinguersi in modelli politici che sono diametralmente opposti a quelli coerenti con le proprie carte costituzionali. Ma se mai questo dovesse avvenire, non sarebbe a causa della natura essenzialmente fascista delle stesse società liberaldemocratiche, come una lunga tradizione massimalista sostiene erroneamente da oltre un secolo e mezzo e come lo stesso Žižek sembra ritenere, ma innanzi tutto per quella commistione d’ipocrisia e irresponsabilità politica che le classi dirigenti e molti intellettuali dei paesi occidentali e democratici hanno dimostrato nell’era della globalizzazione.