Venti di guerra fredda, o forse calda
Qualche giorno fa, all'inizio della seconda decade dell'Ottobre 2016, Fronçois Hollande ha annullato un incontro con Putin; il ministro degli Esteri inglese Boris Johnson ha invitato ad andare a manifestare sotto le ambasciate della Russia in tutto il mondo per gli sconfinamenti dei suoi bombardieri sui cieli dei paesi dell’Europa del Nord e ha accusato il governo russo di crimini di guerra per quanto sta facendo in Siria; infine, per le stesse ragioni, Angela Merkel ha ventilato l'ipotesi di nuove sanzioni contro la Russia.
Putin, dal canto suo, sta organizzando, attraverso il sindaco di San Pietroburgo, delle prove generali nel caso si dovesse verificare un attacco atomico da parte delle potenze occidentali e i suoi generali in Siria avvertono gli americani che il tempo di reazione dei russi in quello scenario non consente di distinguere un eventuale errore degli avversari da un vero e proprio attacco. Si tratta un avvertimento che, in un simile contesto, suona decisamente minaccioso, tanto da aver convinto molti osservatori che si sta tornando verso un clima da guerra fredda.
C’è tuttavia una differenza rilevante con la guerra fredda degli anni cinquanta e sessanta: oggi la Russia è militarmente più forte ed economicamente molto più ricca dell’URSS e può contare su alleanze politiche e strategiche che potrebbero rivelarsi decisive. Il Presidente Turco Erdogan, nonostante che la Turchia faccia ancora parte della Nato, sta ipotizzando di predisporre un sistema missilistico congiunto con la Russia e sta cambiando tutta la sua politica in Medio Oriente in senso filo-russo. La Cina sta a sua volta stringendo con Mosca un accordo di massima sia rispetto alla situazione siriana sia ad altre zone sensibili su scala mondiale. L’occidente rischia così di trovarsi, in breve tempo, in una situazione di svantaggio strategico, e sarebbe la prima volta dall’attacco di Pearl Harbor. Il governo oligarchico cinese e due democrazie a “sovranità condizionata” quali Russia e Turchia stanno stringendo un’alleanza che potrebbe rivelarsi ferale per la pace e la sicurezza dell’Europa e degli stessi Stati Uniti.
Approfittando anche della fase elettorale negli USA e confidando sulle crescenti divisioni tra paesi Europei, Putin sta sferrando il suo attacco diplomatico e politico a tutto l’occidente con accortezza e astuzia levantine, ricorrendo anche a reiterate provocazioni militari. Per il momento, a parte qualche segnale di protesta da parte di Parigi, Londra e Berlino, tanto gli USA quanto l’Europa sembrano incapaci di reagire in maniera efficace.
In effetti, data la posta in gioco e i rischi enormi che si profilano all’orizzonte per l’intera umanità, non reagire, almeno nell’immediato, sembra l’unica risposta ragionevole. Ma per quanto tempo sarà possibile fingere, almeno pubblicamente, di non vedere e di non capire? Per quanto tempo si potrà continuare ad ignorare le provocazioni di Putin, che si fanno sempre più frequenti e clamorose? Fino a quando sarà possibile ignorare, almeno pubblicamente, il disegno imperialista che muove la sua politica, che mira in maniera abbastanza esplicita a riprofilare il suo paese lungo i vecchi confini sovietici, mentre al suo interno - così come in Turchia, che potrebbe diventare in un futuro non remoto un suo nuovo alleato - le opposizioni sono sempre meno in grado di far sentire la loro voce?
Giova forse ricordare qui che il sacrosanto desiderio di evitare un conflitto e l’incauto auspicio di poter utilizzare Hitler in funzione antisovietica determinarono un ritardo dell’inizio della seconda guerra mondiale che dette allo stesso Hitler un notevole vantaggio, che comportò diversi milioni di morti in più e che rischiò di fargli vincere la guerra, con le conseguenze tragiche che non è difficile immaginare.
Attualmente, in occidente, e in Italia in particolare, c’è chi attribuisce l’attuale stato di tensione con la Russia alle sanzioni contro questo paese che fecero seguito all’occupazione della Crimea. Un fronte ampio e variegato, che va da Salvini fino alla sinistra estrema, imputa l’errore all’Occidente, così come, per motivi analoghi, un crescente numero di commentatori politici in Italia imputa agli Stati Uniti e all’alleato europeo la responsabilità di aver reso tanto tragicamente critica la situazione in Medio-Oriente.
Una delle accuse che vengono più spesso rivolte agli Stati Uniti e ai paesi europei è quello di aver voluto esportare con la forza la Democrazia dove la Democrazia non è possibile realizzare, perché non voluta dagli stessi popoli e dalle loro classi dirigenti. Ma nessuno dei paesi democratici dell’occidente ha mai inteso esportare la Democrazia con la forza, sia perché sarebbe impossibile farlo sia perché sarebbe comunque inopportuno e sbagliato. I motivi che hanno originato l’intervento degli Stati Uniti prima in Afghanistan, poi in Iraq e successivamente in Libia sono diversi, ma nessuno riconducibile ad una simile motivazione, che dalle nostre parti sembra essere ormai divenuto una sorta di mantra.
Questo mantra può forse essere stato utilizzato in qualche comunicato o conferenza stampa prebellica per giustificare in maniera demagogicamente efficace una guerra agli occhi dell’opinione pubblica mondiale; ma certo non dovrebbe essere preso per buono da politologi e storici professionisti.
In effetti, la politica degli Stati Uniti e dei suoi alleati è stata sempre improntata al criterio di un presunto “male minore”, nel senso che si è di volta in volta optato per la soluzione che sembrava, se non quella ottimale, almeno la meno pericolosa e nociva per gli interessi nazionali e occidentali.
Per questo, dopo che alcuni dittatori sono stati per decenni considerati, nonostante tutte le riserve sul loro operato, come preziosi alleati, non appena le loro iniziative hanno lasciato sorgere il sospetto, più o meno fondato, che non costituissero più il male minore sono stati rapidamente scaricati.
Le ragioni di tali interventi sono state altre. Così, il primo di quelli menzionati fu motivato dalla necessità di far mancare ad Al qaeda una base organizzativa e logistica per organizzare i suoi attentati e il secondo dal sospetto – forse non adeguatamente fondato per informazioni errate da parte dei “Servizi - che Saddam fosse in condizione di munire i suoi vecchi missili di fabbricazione sovietica, che aveva già usato in precedenza contro Israele, di testate contenenti armi di distruzione di massa (letali, ma di dimensioni abbastanza ridotte da poter essere abbastanza facilmente nascoste o trasportate), di cui risultava, almeno a chi di dovere, essere in possesso. Poiché le conseguenze di una simile azione, a partire dalla inevitabile e immediata reazione di Israele, sarebbero state devastanti e incontrollabili, in grado cioè di provocare un conflitto di matrice religiosa su scala mondiale, si preferì abbandonare l’antico alleato, che per diversi decenni si era rivelato il male minore nella regione, e destituirlo con la forza.
Nel caso poi della Libia, si nutrirono fondate speranze che il processo innescato da una parte del popolo libico potesse andare a costituire una situazione politicamente più stabile e meno dipendente dagli umori di un dittatore piuttosto feroce, dimenticando quanto lo stesso Gheddafi aveva anticipato (“Dopo di me sarà il caos”) e soprattutto trascurando il fatto che, dopo un simile intervento, quel territorio non poteva essere lasciato da solo, nelle mani di tribù che aspettavano da anni di potersi massacrare liberamente e reciprocamente.
Nonostante questi errori, presunti o reali, i paesi che hanno da tempo adottato un tipo di governo democratico, almeno dopo l’ultima guerra mondiale, non si sono mai fatti la guerra tra loro mentre guerre tra paesi privi d’istituzioni democratiche ve ne sono state molte, come ve ne sono state tra i primi e i secondi. Questa circostanza dovrebbe indurre a compiere qualche riflessione ulteriore, fino a suggerire che tali guerre siano state intraprese per considerazioni, magari errate, ma essenzialmente di tipo difensivo. Quest’ipotesi potrebbe non risultare affrettata considerando che i cittadini votanti, quelli che godono dei loro fondamentali diritti politici e civili di solito non vogliono la guerra, mentre questa ha costituito spesso un’opzione prediletta da monarchi poco illuminati e da dittatori che non dovevano rendere conto al popolo delle loro decisioni, ma che potevano convincerlo ad assecondare le proprie volontà con vari sistemi, tutti molto efficaci.
Questo dell’esportazione forzata della Democrazia non è però l’unico mantra in circolazione: ve ne sono molti altri, tra i quali spicca quello secondo cui molte delle guerre intraprese dai paesi occidentali sarebbero state fatte per occupare dei pozzi petroliferi. Certo, gli interessi petroliferi ci sono e hanno giocato in certe circostanze un ruolo anche importante, ma di qui a presumere che siano stati una costante causale dominante ce ne corre. E questo per un duplice motivo: perché il petrolio può tranquillamente essere comprato a prezzi che risultano spesso vantaggiosi, dato che qualsiasi produttore ha comunque interesse a venderlo e che deve adeguarsi al mercato, e perché una guerra e l’occupazione militare di un paese corrono il rischio di rivelarsi più costosi di quanto potrebbe far guadagnare la gestione diretta di pozzi per disporre di un petrolio che dovrebbe poi, comunque, essere sempre venduto al prezzo di mercato.
A parte questi mantra circolanti su media che li ripropongono in maniera compulsiva, resta il fatto che la circostanza politica da guerra fredda che si sta delineando rischia di tramutarsi in una guerra che, già incandescente ad Aleppo e dintorni, rischia di divenire calda molto presto su vasta scala. Riusciranno gli Stati Uniti, i loro alleati e in particolare quel che resta dell’Europa a fronteggiarla con saggezza e lungimiranza? C’è da dubitarne: perché l’Europa è ormai divisa e perché la popolazione dell’occidente è poco disposta a correre il rischio di una guerra, mentre i paesi caratterizzati da un sistema di potere asiatico sono tradizionalmente molto più ubbidienti e devoti al loro leader politico, che può quindi muoversi con una autonomia decisionale decisamente più ampia.
Ma il sapere che si sta correndo questo rischio è fondamentale per avere qualche possibilità di evitarla, la guerra, così come l’essere realmente disposti a farla può essere l’unico modo per non doverla poi fare davvero, come in effetti si riuscì a non fare all’inizio degli anni sessanta. A differenza di quanto si verificò allora, nella seconda metà degli anni trenta si era invece cercato di evitare in ogni modo una guerra che si annunciava caldissima. A tal proposito, tornano in mente le parole di Churchill dopo la conferenza di Monaco, quando, mentre Mussolini, Chamberlain e Daladier erano acclamati in tutto il mondo come i salvatori della pace, ebbe profeticamente a dire: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore: avranno la guerra”.
Poi si sa come andò a finire: dopo essersi preso i Sudeti, Hitler strinse il patto con Stalin, ciò che gli evitò per un po' di doversi preoccupare del fronte orientale e gli consentì, oltre che di prendersi mezza Polonia, di concentrare le sue truppe su quello occidentale. L'impatto del suo esercito su quel fronte fu devastante e se non fosse stato per la resistenza inglese avrebbe vinto la guerra. Se fosse stato affrontato prima, il numero dei morti e il rischio di una sua vittoria finale sarebbero stati minori. La Storia, si sa, pone spesso di fronte a scelti gravi e le opzioni che mette a disposizione possono essere comunque tragiche, ma se è sempre giusto cercare di evitare in tutti i modi un conflitto (specialmente quando potrebbe avere un esito infausto per l'umanità intera), non bisogna dimenticare che il tempo può giocare a favore di chi ha meno scrupoli a provocarlo.