Il sogno di una società più giusta non è solo comunista.
Una risposta ad Alessandro Barbero
Il saper narrare un’epoca, i suoi aspetti più caratteristici e concreti insieme a quelli più problematici e generali, è senza dubbio il segnale che si possiede una visione organica e viva della storia. Come accade con tutti i grandi storici anche Alessandro Barbero sa narrarne le vicende in modo coinvolgente: le sue lezioni, in particolare, risultano spesso in grado di proiettare una luce nuova e viva su tutta un’epoca.
Pur essendo un medievista, negli ultimi anni Alessandro Barbero ha tenuto diverse lezioni anche di storia contemporanea, alcune delle quali illuminanti. Quelle sul totalitarismo, in particolare, sono capaci di chiarire al grande pubblico molti passaggi oscuri o delicati, come per esempio la genesi del patto Molotov-Ribbentrop, e possono contribuire, oltre che a fare chiarezza su alcuni snodi cruciali nella storia del 900, anche ad agevolare o riattivare un confronto tra diverse prospettive storiografiche che negli ultimi anni hanno fatto una certa fatica a comunicare tra loro.
Ora, una tesi abbastanza ricorrente in queste lezioni (e in particolare in una tenuta il 30 Ottobre 2019 sulle differenze tra vari tipi di totalitarismo) è, in sintesi, la seguente: tutti i totalitarismi del Novecento hanno commesso crimini e stragi con modalità disumane e terribili, ma c’è almeno una differenza fondamentale: mentre il fascismo e il nazismo hanno avuto una genesi che non era ispirata da alcun ideale positivo di giustizia o di solidarietà fra gli uomini, il comunismo al contrario è stato ispirato per secoli da questi ideali e valori. In particolare, nella lezione, ora on line, cui si fa qui riferimento sui diversi tipi di totalitarismo Barbero sostiene la tesi seguente: Stalin ha messo in piedi un regime omicida e assassino, ma “essere comunista per la stragrande maggioranza della gente che per 150 anni è stata comunista ha voluto dire sognare un mondo migliore”. Nei vent’anni in cui è stato al potere Stalin ha fatto più morti di quelli che ha fatto Hitler: “certo, ma dopo di che il comunismo è quello? Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia unita di Vittorio Emanuele II ... che il comunismo sono i campi di concentramento…”. Per questo non si può dire che essere comunista è come essere fascista o nazista: la differenza è evidente; e negarla significa negare la verità.
In effetti Barbero ha ragione: la differenza è evidente. Chi era comunista nell’800 o ai primi del 900 lottava per un mondo migliore, per un mondo più giusto in cui fosse pienamente tutelata la piena dignità di ogni essere umano, anche se questo sogno comportava in effetti, e già in linea di principio, la negazione di qualche libertà che, dal punto di vista liberale, è assolutamente irrinunciabile, come ad esempio la possibilità di fare impresa e di possedere dei mezzi di produzione, ovvero di avere diritto di godere dei frutti del proprio lavoro sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo, ossia anche della propria intelligenza e della propria creatività.
Prescindendo da quest’aspetto non trascurabile, Barbero osserva comunque che forse il comunismo è stato un’illusione, ma un’illusione che aveva un intento positivo: si voleva realizzare un mondo dove la fratellanza e la solidarietà fossero i valori di riferimento fondamentali. Il comunismo non è stato quindi un errore della volontà: le sue intenzioni erano buone, a differenza per esempio di quelle del nazismo e del fascismo, che invece non lo erano affatto.
Ora, anche volendo trascurare qui le differenze non marginali tra fascismo e nazismo (sarebbe qui impossibile esporle in maniera articolata, molto se n’è scritto e comunque per almeno i primi due anni il programma del primo era mutuato per lo più da quello del partito socialista), se l’errore del comunismo non può essere considerato un errore della volontà, o delle intenzioni, che tipo di errore ha potuto rendere possibili i regimi totalitari che ha di fatto ispirato? Qualche errore ci dev’essere stato se, invece di dar vita a società libere e giuste, com’era negli auspici dei suoi ideatori, la sua attuazione più longeva e imponente ha prodotto più morti tra i propri cittadini di qualsiasi altro regime politico, e se anche le altre nazioni che hanno in passato adottato questo modello, come per esempio la Cina, hanno comunque provocato milioni di morti e privato a lungo i loro cittadini di alcuni diritti civili e politici fondamentali in ogni società democratica.
Non trattandosi di un errore della volontà, non può che trattarsi di un errore teorico contenuto in quella particolare concezione del socialismo, di gran lunga la più influente, che è il marxismo. Già, perché il comunismo quale è progettato da Carl Marx e Friedrich Engels fin dal 1848 non è l’unica teoria politica che auspichi una società più giusta e più umana: sia prima che dopo di loro c’è una lunga scia di teorie socialiste che avevano esattamente lo stesso obiettivo, alcune delle quali ancora oggi vive e vegete.
La lunga storia del sogno di una società più giusta e rispettosa della dignità di ogni essere umano inizia comunque molto prima, tanto che sarebbe troppo lunga la lista dei pensatori che lo condivisero. In occidente inizia già con lo stoicismo e poi con il cristianesimo (in oriente ancora prima), riprende vigore, dopo una fase di appannamento, durante l’età moderna e poi, in maniera ancora più evidente, durante l’illuminismo, per avere infine un nuovo decisivo slancio durante l’800. Quegli idali sono presenti, con modalità anche molto diverse, nella Fabian Society, nel pensiero e nell’opera di Robert Owen, Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Henri de Saint-Simon, Pierre-Joseph Proudhon, John Stuart Mill, Charles Fourier, Auguste Blanqui e Louis Blanc, tanto per citare solo alcuni dei nomi più noti. Ma essi sono stati coltivati con tenacia anche dopo Marx: Eduard Bernstein ne mise in discussione alcune capisaldi teorici fondamentali, come la teoria del valore-lavoro, avanzando la tesi che la società capitalistica potesse essere progressivamente riformata in senso socialista.
Una riforma del capitalismo fu poi riproposta anche da alcuni illustri economisti liberali del 900, il più noto dei quali è sicuramente John Maynard Keynes. Secondo Keynes l’errore fondamentale del marxismo era stato quello di voler sostituire la proprietà collettiva dei mezzi di produzione a quella privata: secondo Keynes non ce n’era bisogno, nessun sistema era efficiente come quello capitalista per produrre ricchezza e benessere, si trattava piuttosto d’integrarlo con una più equa distribuzione del reddito complessivo, obiettivo che si poteva raggiungere con una adeguata politica economica e fiscale. In pratica, non è importante di chi siano i mezzi di produzione, ma come viene distribuita tra le varie classi la ricchezza prodotta.
E poi ci sono i socialisti liberali e gli azionisti in Italia, come Gaetano Salvemini, Aldo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Guido Calogero. Tutti questi, e molti altri, dedicarono la loro vita a realizzare il sogno di una società più giusta, in cui l’ideale della libertà si coniugasse con quello della giustizia. I comunisti li definivano spesso, sprezzantemente, revisionisti, o anche socialfascisti. Dopo essersi a lungo tenuti a distanza da simili forme di revisionismo del marxismo ortodosso e vincente, alla fine anche i partiti comunisti più importanti dell’Europa occidentale, come quello italiano e quello francese, decisero di unire le loro sorti a quelle della tradizione socialdemocratica, intraprendendo con quasi un secolo di ritardo la via già proposta da Bernstein.
Se il sogno di una società più equa e più giusta non è riducibile solo al marxismo, è chiaro tuttavia che l’importanza di quest’ultimo nella storia del socialismo è cruciale: già dal 1864, anno in cui si tenne a Londra la Prima Internazionale Socialista, la teoria di Marx si mostra, rispetto a tutte le altre, come la più organica e coerente, come quella meglio strutturata e fondata. Oltre ad avere questi meriti, rivelatisi poi decisivi, il marxismo era una teoria che sapeva infondere entusiasmo e fiducia: la società senza classi si profilava all’orizzonte come una società ideale, in cui ciascuno avrebbe potuto dare alla collettività quanto poteva e avere in cambio tutto quanto di cui aveva bisogno; ma anche come un ineluttabile destino, che poteva però essere realizzato solo attraverso una trasformazione complessiva e olistica della società capitalistica.
Al cospetto di questa società senza classi e pressoché perfetta, quella storica e reale non poteva che rivelarsi piena di tragici difetti e contraddizioni. Sarà Benedetto Croce a mettere bene in luce questo aspetto parlando dell’implicito paragone ellittico proposto dal marxismo come chiave per comprendere il suo successo. Alla luce di un simile paragone, l’uso della violenza per sovvertire la società capitalistica risultava perfettamente legittimo, sia sotto il profilo politico sia sotto quello morale. Anche se una rivoluzione socialista volta a realizzare una dittatura del proletariato avesse dovuto comportare la morte di alcune migliaia, o anche decine o centinaia di migliaia di persone, cosa mai sarebbero queste morti di fronte agli effetti tragici dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che la società capitalistica avrebbe potuto provocare per secoli nel mondo?
Non è un caso che obiettivi così alti e condivisibili abbiano potuto dare vita a regimi politici totalitari: la trasformazione sarebbe appunto dovuta essere totale, integrale, e non sarebbe che potuta passare da una dittatura del proletariato. Quello che Croce definiva un paragone ellittico era in grado di rendere intollerabile e ingiustificabile la persistenza della società capitalistica come modello dominante nel mondo. Quando poi un simile paragone fu interpretato alla luce del concetto di alienazione quale era stato rivisitato da Herbert Marcuse, la nuova miscela teorica divenne ulteriormente esplosiva: il livello di “reificazione” cui il capitalismo era stato capace di ridurre interi popoli li rendeva incapaci di qualsiasi reazione consapevolmente rivoluzionaria, per cui alcune frange del marxismo europeo e nostrano si sentirono autorizzate, dopo la rivoluzione culturale e sociale della fine degli anni 60, a intraprendere la via del terrorismo per mettere in evidenza l’intrinseca fragilità dello Stato capitalistico-borghese e risvegliare così la coscienza delle masse.
A questo punto, potremmo riproporre la domanda di Barbero da cui siamo partiti: “ma dopo di che il comunismo è quello? Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia unita di Vittorio Emanuele II ... che il comunismo sono i campi di concentramento…”. Certo, il comunismo non era solo quello, ma era ed è anche quello; e tuttavia Marx, che ha dato vita alla più organica, articolata, coerente e al tempo stesso suggestiva teoria economico-politica della storia non era tenuto a saperlo. E come lui non erano tenuti a saperlo i primi marxisti dell’800 o dei primi del 900. Nemmeno forse Lenin e Trotskij erano tenuti a cogliere tutte le conseguenze che potevano scaturire dal progetto politico che avevano abbracciato e in alcuni aspetti anche radicalmente modificato, nonostante che ai loro tempi qualche incongruenza tra la teoria di Marx e le sue realizzazioni storiche avessero iniziato a manifestarsi, e nonostante che alcuni illustri esponenti della Seconda Internazionale, come Bernstein, avessero indicato, per realizzare quegli stessi valori di equità e di giustizia, una via alternativa.
In ogni grande teoria di tipo conoscitivo può bastare anche il prendere le mosse da una o due premesse errate e si può giungere, proprio in virtù della coerenza della teoria, ad alcune conclusioni errate, come si rivelarono appunto alcune delle previsioni fatte da Marx. Ma il pensiero comporta sempre di questi rischi: anche Albert Einstein sosteneva di aver formulato centinaia di teorie sbagliate, e questo di certo nulla toglie alla straordinaria importanza delle quattro o cinque che si dimostrarono giuste, né all’assoluto rilievo del suo contributo alla storia della fisica.
Lo svantaggio di Marx rispetto ad Einstein è che però la sua teoria è organica e complessiva, cioè che è sostanzialmente “una” ed unitaria. Il partire da qualche premessa sbagliata poteva provocare in questo caso errori non marginali, in grado d’invalidare la sua visione complessiva della società e della storia, e ciò nonostante il suo fondamentale contributo alla sua comprensione. Il saper prendere atto di simili errori e delle previsioni sbagliate che resero possibili sarebbe dovuto essere compito dei marxisti successivi, ovvero di coloro che, pur potendo farlo mentre continuavano a condividere gli ideali e i valori che ispiravano il socialismo e il comunismo, non fecero quasi mai nulla di simile. Ma anche in questo caso, non si trattò di un caso: proprio in virtù della complessiva sistematicità e organicità, di stampo hegeliano, della teoria di Marx, la maggior parte dei suoi seguaci evitò di porre in discussione quelle premesse da cui poteva dipendere il successo della teoria. Questa, almeno dal loro punto di vista, o sopravviveva nella sua struttura integrale, o rischiava di essere completamente snaturata, mettendo così in discussione anche i suoi valori di riferimento.
Così i campi di concentramento sovietici e cinesi non vennero imputati alla teoria, ma a sue cattive interpretazioni e applicazioni. La teoria, in effetti, non è stata mai messa in discussione, né dai comunisti italiani né da quelli di altri paesi. Ancora oggi, pur di non metterla in discussione, un paese neocapitalista come la Cina, e con una struttura socio-politica di tipo “fascista” (il fascismo combinò insieme la proprietà privata dei mezzi di produzione con l’abolizione delle libertà politiche fondamentali, proprio come in Cina), continua a definirsi con disinvoltura “comunista”. Mettere in discussione la teoria significa infatti ancora oggi per molti marxisti mettere in discussione gli ideali che l’avevano ispirata, mentre si tratta di due cose completamente diverse. La teoria marxiana era solo una delle possibili declinazioni di quegli ideali, e non quella che poteva realizzarli meglio. Anzi, fu probabilmente quella che ne ostacolò maggiormente l’attuazione, perché attraverso il comprensibile timore delle sue conseguenze finì proprio col favorire l’ascesa al potere di Mussolini e Hitler.
Nonostante che per realizzare quegli stessi ideali un’alternativa socialdemocratica, liberale e riformista fosse stata individuata fin dall’800 questa via non venne intrapresa dai comunisti. L’identificare quindi il comunismo marxiano con quegli ideali è sbagliato, sebbene per un lungo periodo ne sia stato l’interprete più autorevole. Una simile identificazione, se poteva risultare spontanea e comprensibile un secolo fa, non lo è più oggi, quando sono state sperimentate nel mondo alternative in grado di garantire molto meglio i diritti e la dignità di ogni singolo cittadino di quanto abbia saputo fare qualsiasi regime comunista.
E allora, chi glielo dovrebbe dire, a chi oggi tende a identificare quei valori con quell’analisi storico-politica, che il rapporto tra la teoria che non hanno osato mettere in discussione e gli esiti politici ed economici delle sue attuazioni storiche non è casuale? Chi glielo va a dire che quei Gulag sovietici - per la verità programmati già da Lenin, con il “terrore rosso”, prima di Stalin - sono anch’essi una conseguenza della teoria di Marx e di Lenin, e non un semplice frutto di un’interpretazione deviata?
Probabilmente, le uniche persone in grado di dire e far capire una cosa del genere sono quelle che sanno mantenere distinte le ragioni ideali di coloro che intrapresero quelle lotte e quelli scioperi, di cui parla Barbero nella sua domanda, dalla teoria che più di ogni altra ne disegnò le strategie attuative, e cioè da quella teoria marxista che non coincide affatto con quegli ideali, ma che li fagocitò al suo interno come la loro unica e valida giustificazione scientifica. Ma forse coloro che più di altri potrebbero chiarire e far percepire certe differenze sono proprio coloro che, avendo una visione organica e viva della storia, la sanno anche magistralmente trasmettere e comunicare, come Alessandro Barbero.