L'imperialismo atavico di Vladimir Putin
In un saggio del 1920, Sociologia dell'imperialismo, Joseph Schumpeter - che fino all'anno prima era stato ministro delle finanze nella prima repubblica austriaca e che concluse la sua prestigiosa carriera di economista come docente all'università di Harvard nel 1950 - sostiene che nella storia del genere umano hanno un ruolo fondamentale tendenze all'espansione violenta anche indipendentemente del fatto che abbiano finalità utili. Ci sono cioè inclinazioni irrazionali alla guerra e alla conquista e per quanto possa sembrare un paradosso innumerevoli guerre sono state scatenate e sostenute senza motivi ragionevoli, ovvero senza interessi razionalmente comprensibili.
L'imperialismo è essenzialmente riconducibile a queste tendenze ed è in questo senso una forma di "atavismo". Esso risale a epoche remote, ma costituisce ancora oggi una tendenza che può condizionare in maniera esiziale la nostra società e la nostra storia. Se per un verso può essere ritenuto un'espressione della pulsione di morte cui fa riferimento Freud, per altro verso costituisce un'opzione politica sempre attuale e concreta. È un atavismo della struttura sociale, ma anche d'inveterate abitudini e di disposizioni d'animo arcaiche, di cui è difficile predire un giorno la scomparsa.
Al contrario dell'imperialismo, secondo Schumpeter il capitalismo è, almeno in linea di principio, contrario alla guerra e all'espansione violenta: "il capitalismo è per essenza antimperialistico" e le tendenze imperialistiche che effettivamente oggi persistono possono essere intese "soltanto come elementi estranei, introdotti nel suo mondo dall'esterno, poggianti su fattori non-capitalistici della vita moderna".
Com'è evidente, la tesi di Schumpeter si contrappone a quelle di Vladimir Ilijč Lenin, secondo cui l'imperialismo è "la fase suprema del capitalismo", ma non è incompatibile con quella di John Aktinson Hobson, di poco antecedente, (L'imperialismo, 1902), per il quale la forza motrice dell'imperialismo non è principalmente economica e finanziaria: "la finanza è piuttosto il guidatore del motore imperiale, capace di dirigerne le energie e di determinarne il funzionamento, ma non è il carburante del motore, né è essa che ne sprigiona la forza meccanica: "la finanza manipola le forze patriottiche dei politici: l'entusiasmo per l'espansione che proviene da queste fonti, per quanto forte e genuino, è anormale e cieco; mentre l'interesse finanziario ha quelle qualità di concentrazione e di previsione di calcolo che sono necessarie per far funzionare l'imperialismo".
Schumpeter tuttavia non si limita a sostenere che la finanza, e più in generale il capitalismo, non sono il motore dell'imperialismo; ma afferma che il capitalismo è "per essenza anti-imperialistico". Anche il pacifismo moderno è per lui "un fenomeno tipico del mondo capitalistico". Non solo infatti il capitalismo non produce le disposizioni che gli sono abitualmente imputate in base al modello interpretativo leninista, ma "tende a reprimerle. Certo, tutti gli interessi all'espansionismo presenti nel suo seno si alleeranno con tendenze imperialistiche emanate da settori non capitalistici, e le sfrutteranno, a propria volta servendo loro di rincalzo, razionalizzandole, e dando loro le necessarie direttive di azione. Dalla loro sintesi emergerà il quadro dell'imperialismo moderno; ma appunto perciò non un quadro di fattori puramente capitalistici".
Nonostante l'esistenza, da circa un secolo, di letture così diverse del rapporto tra capitalismo e imperialismo, anche in ambito marxista oltre che in quello liberale, il modello interpretativo leninista continua ad essere da noi, nelle nostre scuole e nella società civile, di gran lunga il più diffuso, e i suoi paradigmi sono spesso adottati anche ignorandone la provenienza. La conseguenza più immediata di questo retaggio è che si tende a considerare tutte le guerre parimenti effetto degli interessi capitalisti, tutti tendenti, in modo più o meno diretti, a produrre guerre imperialistiche. Ma in realtà il capitalismo non ha, e oggi dovrebbe essere a tutti evidente, alcun interesse sistematico a produrre guerre di conquista: può avere interesse a che alcune zone siano rese disponibili alla partecipazione al mercato globale, ma possibilmente non attraverso la guerra, che ha sempre effetti economici e politici deleteri sulle economie delle società capitalistiche. Ciò che interessa a queste ultime è che si possa operare in regime di libero mercato ovunque, che si possa cioè produrre, comprare e vendere dove più conviene, circostanza questa che non comporta alcuna guerra di conquista, ma che anzi è favorita dalla pace.
Non è necessario nemmeno far parte del novero dei paesi liberaldemocratici per avere interesse a operare in condizioni di libero mercato, come a tutti è noto da quando la Cina - un paese nominalmente comunista, ma sostanzialmente più simile ad un governo oligarchico, con un'economia mista più simile a quella in vigore nei regimi fascisti - ha iniziato a partecipare con crescente intensità a un'economia che si stava globalizzando.
Un paese che abbia sviluppato un capitalismo maturo può essere motivato a intraprendere una guerra o da una strategia difensiva a livello geopolitico o per tutelare uno scenario di libero mercato che considera vitale per la propria economia; tuttavia, come Schumpeter sottolinea con chiarezza, non è l'interesse delle multinazionali e dei grandi gruppi finanziari a provocare le guerre offensive, ma sono i contro-poteri atavici, eredi di politiche di potenza precapitalistiche, che per sopravvivere in un simile contesto oppongono ai sistemi-paese più efficienti e competitivi sotto il profilo economico la forza delle armi e, in ultima istanza, persino le minacce nucleari.
Anche quando la Russia stava timidamente manifestando i primi segni d'industrializzazione, ovvero poco prima della sua rivoluzione, gli zar, sia Alessandro III che Nicola II, tendevano a conservare la politica autocratica dei loro predecessori, riducevano i poteri delle assemblee locali (gli zemstvo), sopprimevano la figura del giudice di pace elettivo e accentuavano il processo di "russificazione" coattiva nei confronti delle numerose minoranze (polacchi, ucraini, armeni, georgiani, tartari, finlandesi, musulmani, ebrei) cui venivano imposte la religione ortodossa e la lingua russa.
Oggi questa dinamica sembra ripetersi inesorabilmente, ma con due varianti decisive. La prima: l'interprete di questo schema conservatore tende oggi a incarnare in maniera esasperata una contrapposizione secolare, un ritardo che la società russa ha accumulato, sotto il profilo civile, culturale e politico, durante l'epoca sovietica e che non ha mai davvero avuto modo di colmare a causa della politica più o meno apertamente autocratica del suo leader attuale, che oggi può dunque proporsi come interprete d'ultima istanza di questa frattura, ovvero come colui che è in grado di mantenere la promessa fatta ai russi fin dal tempo del suo insediamento: quella di riportare la Russia alla splendida potenza imperiale d'un tempo.
La seconda: anche per la miopia dell'occidente Putin dispone oggi di micidiali armi nucleari, il che rende estremamente delicata e opinabile ogni reazione dello stesso Occidente, dato che si è ormai sospesi tra il pericolo che implica il non voler sottostare al suo ricatto e quello che potrebbe derivare dal rafforzamento della sua potenza e pericolosità nel caso che invece si decida di accettare le sue condizioni e di permanere sotto tale ricatto.
Quando ha deciso d'invadere l'Ucraina, Putin contava probabilmente sulla divisione dell'Europa, e magari anche sul fatto che l'Italia potesse costituire un suo anello debole. Forse non ha ancora perso le speranze che questa circostanza possa verificarsi. In molti da noi stentano a capirlo, o fingono di non saperlo, e tra questi, oltre a molti opportunisti della politica, ci sono anche diversi sedicenti marxisti e post-marxisti; eppure Marx e Lenin avrebbero avuto ben chiaro il carattere regressivo e conservatore del progetto di Putin, perché per entrambi il sistema capitalistico costitutiva una fase di sviluppo più evoluta rispetto all'imperialismo atavico e pre-capitalista. Invece, nella presente e tragica circostanza storica i nemici rituali della democrazia presenti in Italia hanno a più riprese avanzato analisi e proposte tese ad assecondare di fatto le strategie di un autocrate criminale, cercando nel contempo di cogliere l'occasione per sbarazzarsi definitivamente della tradizione atlantista e democratica dell'Italia repubblicana.
Le loro argomentazioni tendono a mettere sullo stesso piano le guerre fatte dagli Stati uniti e dall'Occidente con quelle fatte da Putin. Ora, sebbene sotto un certo profilo lo siano davvero, perché ogni guerra provoca sempre tragedie e stragi, anche fra i civili, le rispettive motivazioni non possono essere equiparate. Tanto per fare un raffronto significativo, una cosa è fare una guerra contro un dittatore come Saddam Hussein, che aveva già provocato due guerre, lanciato missili su Israele nel tentativo di provocarne la reazione, sterminato il popolo curdo usando il gas nervino, e un conto è invadere un paese che non ha provocato nessuna guerra e con un governo democraticamente eletto perché aspira a entrare in Europa e a poter essere difeso dalla Nato dopo che, otto anni prima, lo stesso invasore gli aveva sottratto una parte significativa del territorio facendosi beffa di trattati internazionali. Sono due tipi di motivazione radicalmente diverse che non possono essere equiparate, così come non possono essere equiparate la guerra condotta dagli alleati durante il secondo conflitto mondiale e quella provocata e iniziata da Hitler. Il fatto che oggi, sulla maggior parte dei media nazionali e da diverse parti politiche, si tenda invece a farlo con grande disinvoltura, forse significa che Putin non ha sbagliato i suoi conti quando ha visto nell'Italia, per ragioni politiche e culturali, un anello debole dell'alleanza occidentale e dell'Europa.