Il fascismo delocalizzato e l'autodenigrazione dell'occidente

   Solitamente si definiscono società autocratiche quelle non pienamente democratiche, ovvero quelle più o meno compiutamente totalitarie. Tra queste se ne possono distinguere due tipi: quelle che, pur ammettendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, anche quando con la partecipazione o la supervisione dello Stato, non sono annoverabili tra le liberaldemocrazie; e quelle comuniste.

   Le prime, pur consentendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, non garantiscono a tutti i loro cittadini l’esercizio di quelle fondamentali libertà e di quei diritti civili e politici che sono loro riconosciuti come inalienabili in ogni Stato autenticamente democratico. Una simile combinazione di queste due caratteristiche si è verificata in passato solo nei regimi di tipo fascista. Nelle società comuniste invece la proprietà privata dei mezzi di produzione non è ammessa e su questo punto sia Marx sia i marxisti ortodossi successivi sono stati chiari e perentori. L’esistenza delle classi sociali dipende infatti proprio da questa prerogativa e il comunismo è la società per definizione senza classi.

    La Cina di oggi, al contrario di quella maoista precedente, non può pertanto essere considerata una società comunista, ma assomiglia di gran lunga di più - almeno a livello strutturale, ovvero per quanto riguarda i rapporti tra politica ed economia e prescindendo da fattori di ordine storico-culturale - ad una di tipo fascista, dato che questo tipo di società è caratterizzate da una libertà d’impresa paragonabile, anche per il ruolo dello Stato,  a quella che c’è in Cina oggi e nel contempo dall’assenza dei fondamentali diritti civili e politici previsti e tutelati in ogni liberaldemocrazia.

   Il fatto che la Cina continui a professarsi comunista dipende da due vantaggi che la conservazione di questa denominazione garantisce alla sua nomenclatura: da un lato non rompere con la tradizione e con decenni di propaganda politica, ovvero il non dover rinnegare la propria storia; dall’altro, l’essere comunista almeno di nome suscita in occidente meno riserve che l’essere catalogabili come uno Stato assimilabile a quello fascista. Poiché è proprio su l’interscambio con l’occidente che la Cina ha fondato e ancora basa le sue fortune economiche, si può facilmente comprendere come al governo cinese non convenga riconoscere i tratti salienti della propria trasformazione politica.

   Dopo la svolta di Deng Xiaoping la Cina si è infatti aperta all’economia di mercato diventando una società capitalistica, fino a poter essere considerata, dopo circa una trentina d’anni, la seconda potenza economica al mondo; ma essa ha potuto conseguire un simile risultato godendo degli enormi vantaggi e privilegi che l’occidente gli ha concesso per incoraggiare il suo passaggio al libero mercato. Tra questi, spicca sicuramente l’aver rinunciato a porre dazi doganali sui prodotti cinesi, pur sapendo che la Cina praticava di fatto – sia per un costo del lavoro molto più basso, sia per una diversa normativa sull’inquinamento, sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori – una concorrenza sleale. Nonostante si potessero prevedere gli effetti controproducenti di una simile concorrenza, si sono concessi tali vantaggi accettando nel contempo che la Cina mettesse dei dazi su diversi prodotti occidentali.

   Il motivo di una simile scelta di politica economica è probabilmente riconducibile alla convinzione che una crescita dell’economia cinese, il suo ingresso nell’economia globale con il suo miliardo e mezzo di consumatori, fosse un’occasione imperdibile per sviluppare il mercato mondiale dando anche l’opportunità ai cittadini di quel paese di uscire da una condizione di estrema povertà, così da indurli in prospettiva anche ad optare per un tipo di governo non autocratico.

   Con la Russia post comunista l’occidente ha fatto qualcosa di simile, ma in questo caso privilegiando le importazioni dei suoi idrocarburi, fino al punto che per molti paesi si è creata una sostanziale dipendenza dal gas e dal petrolio russi. La convinzione da cui sembrano prendere le mosse queste scelte è che l’economia di mercato, con il benessere che avrebbe determinato in quei paesi, li avrebbe anche portati ad un’evoluzione politica in senso democratico. Questa trasformazione, tuttavia, non è avvenuta, anzi: le due superpotenze hanno conservato - e semmai, almeno nel caso della Russia, persino accresciuto - la loro struttura di potere autocratico.

   Questa circostanza ha loro consentito non solo di arricchirsi, ma anche di dotarsi di armi sempre più sofisticate sia sotto il profilo strettamente militare che sotto quello mediatico, così da rafforzare la loro posizione sullo scacchiere geopolitico, tanto che oggi sono in grado di minacciare l’occidente contemporaneamente su più scenari fino al punto di mettere in serio pericolo non solo la sicurezza, ma anche la stabilità democratica di alcuni paesi.

   Lo stesso occidente aveva ritenuto, peccando di presunzione, che il proprio modello politico-economico sarebbe stato in grado d’imporsi in modo spontaneo, destituendo di fatto i poteri autocratici di una funzione politica determinante. Ma così non è accaduto. Il liberoscambismo, pur essendo uno strumento più capace, almeno rispetto al protezionismo, di attenuare i contrasti economici internazionali e favorire una pace duratura, non si è rivelato in grado di operare alcuna profonda trasformazione politica delle dittature in senso democratico, ma ha piuttosto favorito una sorta di “fascistizzazione” di due superpotenze ex comuniste, quasi che l’occidente avesse optato per delocalizzare in oriente le vocazioni autocratiche del suo passato considerando il modello “fascista” preferibile a quello “comunista”

   La sua presunzione si è manifestata nel non tenere conto che qualsiasi politica liberoscambista dovrebbe sempre essere modulata alla luce di almeno due fattori: in primo luogo, dell’esigenza di una più equa distribuzione della ricchezza e delle risorse su scala mondale; e poi della necessità di non sottovalutare il ruolo destabilizzante che possono avere le autocrazie quando troppo a lungo assecondate.

   Gli effetti di questi errori di presunzione sono sotto gli occhi di tutti: la Cina di Xi Jinping si presenta oggi come una potenza pragmatica, che investe in infrastrutture nei paesi poveri senza interferire nei loro affari interni, ormai padrona di mezza Africa, ma anche attraversata da un razzismo più o meno esplicito, che tende a considerare altri popoli come inferiori. Condivide quest’aspetto con la Russia di Putin, anch’essa critica verso l’individualismo tipico delle società occidentali. Entrambe queste superpotenze sembrano volte a sviluppare un’obbedienza cieca alla gerarchia al potere e considerano i principi stessi su cui si fondano le democrazie destinati in tempi brevi a una crisi irreversibile. In particolare, il disprezzo manifestato da Putin per la liberaldemocrazia occidentale, la sua convinzione che si tratti di un sistema politico fragile e vulnerabile lo ha indotto a credere di poter fare un po’ tutto ciò che voleva sullo scacchiere internazionale e l’invasione russa dell’Ucraina è la prova che era pienamente convinto della bontà di questa sua analisi.

   Ma se si è arrivati a questo punto è anche per un’altra ragione, probabilmente già ben nota allo stesso Putin e messa bene in evidenza da Federico Rampini nel suo recente saggio: Suicidio occidentale. Se infatti “un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione. Il disarmo strategico dell’Occidente era stato preceduto per anni da un disarmo culturale. L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale. L’aggressione di Putin all’Ucraina, spalleggiato da Xi Jinping, è anche la conseguenza di questo: gli autocrati delle nuove potenze imperiali sanno che ci sabotiamo da soli”.

   Non solo: in questo scenario, secondo Rampini le giovani generazioni sono sempre più “schiavizzate dai social media” e “manipolate dai miliardari del capitalismo digitale. Il vero potere forte del nostro tempo, questo establishment radical chic, si purifica con la catarsi del politically correct. È il modo per cancellare le proprie responsabilità: l’alleanza fra il capitalismo finanziario e Big Tech ha pianificato una globalizzazione che ha sventrato la classe operaia e impoverito il ceto medio, ha creato eserciti di decaduti. Ora quel mondo impunito si allea con le élite intellettuali e si rifà una coscienza: abbracciando la crociata per le minoranze e per l’ambiente”.

   Proprio facendo leva su dinamiche e circostanze da tempo in corso come queste Putin e Xi Jinping hanno potuto sempre più confidare nella debolezza dell’occidente.Forse questi due autocrati e i loro quartier generali saranno presto smentiti dalla storia, o almeno è auspicabile che lo siano quanto prima, ma ciò potrà ormai avvenire solo correndo un rischio enorme, che sarebbe stato possibile evitare, o almeno ridurre, se non si fosse confidato ciecamente nelle capacità del libero mercato di redimere antiche vocazioni imperiali e se non si fossero sempre più diffusi in occidente disistima o indifferenza verso i valori fondanti della nostra civiltà politica.

 

Federico Rampini, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori; Mondadori, Strade blu, 19 euro, 252 pagine.