La posta in gioco e la sonnolenza delle democrazie

 

    Una ventina di giorni dopo l’attacco sanguinario del 7 ottobre 2023 in Israele, Mousa Mohamed Abu Marzouk, considerato il numero due di Hamas, ha incontrato a Moscail viceministro degli esteri iraniano Ali Bagheri Kani. La posta in gioco era probabilmente la più alta dall’inizio del secondo conflitto mondiale e lo scenario geopolitico non era poi molto diverso. I più pericolosi regimi politici del pianeta sapevano bene di trovarsi di fronte a un’occasione preziosa per infliggere una ferita profonda alle democrazie occidentali.

   Lo stretto legame che sussiste oggi tra Hamas, l’Iran e la Russia, con la Cina nel ruolo di spettatore interessato all’evoluzione degli eventi e incline ad assecondare i loro piani, pone in discussione l’intero ordine mondiale. L’alternativa non è tuttavia, come Mosca e Pechino vorrebbero far credere, tra un mondo unipolare e un mondo multipolare, ma tra un mondo organizzato sotto la supervisione dei paesi democratici, ovvero i cui i popoli sono in condizione di controllare l’operato dei rispettivi governi e d’influenzarne le decisioni, e uno gestito da dittature in cui questo controllo non è possibile.

    Qualora queste ultime dovessero uscire rafforzate da questa fase storica e dai conflitti in corso in medio oriente e in Ucraina la loro influenza geopolitica aumenterebbe in modo decisivo e forse irreversibile: la dittatura oligarchica cinese, certamente non comunista nonostante il nome, cercherebbe da un lato, come già sta facendo, di trarre il maggior vantaggio politico dallo scenario presente, utilizzandolo per cercare di appropriarsi di Taiwan, e dall’altro di assumere stabilmente il controllo economico del nuovo ordine mondiale.

    Non si vuole qui riproporre il solito sterile panegirico delle democrazie: ormai è chiaro che sono sensibili ai valori liberali e democratici solo coloro che non hanno bisogno di alcun chiarimento in merito; ma forse può ancora essere utile ricordare ai suoi denigratori più o meno consapevoli che la democrazia non ha mai preteso di essere una forma di governo perfetta, né di garantire una classe politica competente, onesta e lungimirante.

    Nulla di tutto questo. E nemmeno ha mai preteso di rinunciare a fare delle guerre, sebbene le concepisca solo in chiave difensiva alla luce di ciò che potrebbe rendere lo scenario geopolitico più ricco d’insidie e foriero virtuale di guerre ancora più estese e con effetti ancor più imprevedibili. I paesi democratici infatti non si fanno tra loro la guerra, ma la intraprendono solo verso le dittature quando le iniziative politiche di queste ultime sono ritenute, a torto o a ragione, pericolose per la propria sicurezza. E non hanno nemmeno mai vantato la capacità, in guerra, di non fare vittime innocenti, dato che nessun paese è mai riuscito in una simile nobile impresa. In definitiva, le democrazie non hanno mai rivendicato a proprio titolo le prerogative che di solito gli attribuiscono con finalità retoriche coloro che le svalutano. Cionondimeno, le si può considerare sistemi di governo di gran lunga preferibili a qualsiasi tipo di dittatura.

    Ma quali sono le regioni per cui si può ancora considerare la democrazia, nonostante le sue inefficienze e le sue contraddizioni, come la forma di governo più auspicabile? Se si rende responsabile di molte delle cose che fanno le dittature (i suoi denigratori dicono tutte), perché mai dovremmo cercare di difenderla dai suoi nemici ovunque si trovino? Ebbene, queste ragioni sono essenzialmente due: la prima è che nelle democrazie tutti i cittadini, a qualsiasi maggioranza o minoranza appartengano, godono degli stessi diritti civili e politici; e la seconda è che, grazie a questa loro prerogativa, i cittadini hanno la possibilità di controllare i rispettivi governi e di sostituirli qualora non siano soddisfatti della loro azione.

    Si tratta, a ben vedere, di piccole cose, o almeno di cose che sembrano tali rispetto alle grandi tragedie del nostro tempo: rispetto al riscaldamento globale e alle sue nefaste conseguenze, alle guerre che sono tornate protagoniste in Europa e in Medio Oriente, agli imponenti fenomeni migratori e più in generale rispetto al disagio crescente che sembra, per vari motivi che sarebbe troppo lungo enumerare qui, caratterizzare la presenza degli esseri umani sul nostro pianeta.

    Eppure, da queste due “cose” apparentemente poco rilevanti perché prive, quando sono presenti, di effetti degni di nota nella nostra vita quotidiana, ne dipendono molte altre che sono invece ben visibili e concrete in loro assenza. Queste due “cose” si rendono infatti distintamente percepibili nella coscienza di ogni singolo suddito di ogni dittatura, nel suo stato d’animo di ogni giorno, tanto nella sua paura quanto nel suo desiderio di potersi esprimere liberamente, di poter comunicare con chi vuole nel modo che vuole, di poter fare delle libere scelte e di poter manifestare le proprie opinioni in qualsiasi campo e a qualsiasi proposito senza essere arrestato. Tutte queste possibilità sono infatti dirette conseguenze di quelle due piccole “cose” che le forme liberaldemocratiche di governo ci garantiscono, ma che ci sembrano ormai così normali e scontate da indurre molti a ritenere che siano persino un po’ noiose e marginali, tanto che non vale nemmeno molto la pena di darsene pensiero.

    La sottile e sempre più diffusa indifferenza per queste due piccole “cose” è un tratto saliente dell’epoca in cui viviamo ed è testimoniata da molti illustri personaggi, talora anche appartenenti al mondo della cultura, che ogni giorno sui media occidentali sembrano volerne sminuire più o meno esplicitamente il valore. Le guerre in corso sono destinate tuttavia a provocare un brusco risveglio da questa indifferenza e da questa sonnolenza democratica. L’alternativa, la posta in palio, le diverse caratteristiche tra chi sta da una parte e dall’altra del fronte che sembra essersi spontaneamente scavato sono ormai evidenti, quasi che la Storia avesse di nuovo avvertito la necessità di porci di fronte alle nostre responsabilità anche a costo di farcene scontare le più atroci conseguenze. 

     Da una parte ci sono i terroristi sanguinari del 7 ottobre 2023, i loro mandanti iraniani, ovvero coloro che fustigano le donne che non portano il velo in strada e impiccano chi trasgredisce la loro idea di fede, c’è la carne da cannone inviata da Putin a massacrare, torturare, derubare e deportare la popolazione ucraina e ci sono tutti coloro, come Kim Jong-un e lo stesso governo iraniano, che gli inviano ingenti quantità di armi purtroppo abbastanza efficienti per avere effetti devastanti; e dall’altra ci sono paesi democratici che tra loro non si sono mai fatti alcuna guerra dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale e che non hanno nei loro programmi costituzionali alcun progetto che si prefigga di distruggere alcuno Stato.

    Al contrario, le dittature e i dittatori le guerre tra loro, oltre che contro le liberaldemocrazie occidentali, se le sono fatte: basti pensare, tanto per fare solo alcuni esempi in ordine sparso, a quella tra l’Iran e l’Irak che comportò la crisi energetica degli anni 70, o a quella tra l’Unione sovietica e i Talebani, o alla Siria in guerra col califfato, o a Pol Pot, uno dei più spietati dittatori del novecento, che oltre ad aver massacrato circa un quarto della popolazione del suo paese si scontrò con l’Unione sovietica e con il Vietnam, che a sua volta entrò in conflitto con la Cina maoista, oppure, tornando ai nostri giorni, potremmo far riferimento alla guerra in corso dal 2014 nel sud della penisola arabica e che coinvolge, oltre allo Yemen, anche l’Arabia Saudita e l’Iran.

    Il fronte che oggi ha preso forma dopo l’invasione dell’Ucraina e l’attacco di Hamas è dunque piuttosto ben delineato e il fatto che molti cittadini occidentali manifestino delle esitazioni nel prendere posizione può dipendere solo da ciò che già Alexis de Tocqueville aveva individuato, circa due secoli fa, come un elemento di fragilità delle democrazie: ovvero il lasciar liberi i propri nemici di operare al proprio interno con lo scopo preminente di minarne le istituzioni. Tocqueville riteneva inoltre che questa strutturale ragione di debolezza le rendesse più esposte anche in caso di conflitto, e questa caratteristica può risultare accentuata da quella sempre più diffusa indifferenza verso i loro valori fondativi che è stata a sua volta favorita, e in modo apparentemente paradossale, proprio dal lungo periodo di pace che le democrazie sono riuscite a garantire ai rispettivi popoli.

    Nonostante questa sonnolenza delle società democratiche, dovrebbe tuttavia essere ormai chiaro qual è l’alternativa che abbiamo di fronte: da un lato la possibilità di dover vivere in un mondo in cui ogni paese sarebbe destinato a sottostare ai ricatti di dittature non meno criminali di quella nazista o stalinista; dall’altro il poter continuare a far evolvere l’umanità, attraverso tentativi ed errori, verso un tipo di società gradualmente e faticosamente sempre più libera, più giusta e più pacifica, anche se, per poter mantenere viva quest’ultima possibilità, si dovrà correre il rischio di affrontare terribili conflitti.

    La consapevolezza che il percorso verso una pace duratura e un mondo sempre più libero e più giusto non sarà in ogni caso facile, ma sarà anzi ricco d’insidie e di momenti contraddittori, non dovrebbe farci perdere di vista l’obiettivo. Attraverso l’assiduo controllo dell’attività di chi governa e sapendo che sarà necessario affrontare crisi economiche severe, emergenze migratorie e ambientali, e che bisognerà combattere e superare storiche ingiustizie e atavici rancori, chiunque non abbia smarrito il senso dei principi che hanno reso possibili settant’anni di pace e di progresso in Europa dovrebbe sapere che la posta in gioco non lascia alternative e che non esistono possibilità terze: vivremo in uno dei due mondi sopra descritti e dipenderà da ogni cittadino libero stabilire in quale dovranno crescere i propri figli e nipoti.