Abraham Yehoshua, il sionismo e la vocazione totalitaria dell'antisemitismo

     In Totem e tabù Sigmund Freud sosteneva di avere in sé molti tratti caratteristici dell’ebraismo, e soprattutto “il principio fondamentale”. Pur non riuscendo a formularlo a parole, confidava però che un giorno la ricerca scientifica lo avrebbe chiarito. Per comprendere questo “principio fondamentale”, in Antisemitismo e sionismo Abraham Yehoshua - il grande scrittore israeliano autore di alcuni capolavori della letteratura di ogni tempo, come per esempio L’amante, Il signor Mani e Ritorno dall’India - sostiene che può rivelarsi utile la comprensione della radice dell’antisemitismo: questa ci aiuterebbe infatti “a sciogliere in qualche modo il groviglio del «mistero» dell’identità ebraica”.

   Un testo da cui l’analisi Yehoshua prende le mosse per comprendere, mediante lo studio delle ragioni dell’antisemitismo, l’identità ebraica è il Libro di Ester, scritto da ebrei per altri ebrei in un periodo oscillante tra il IV e il II secolo a.c.. Si tratta di un testo canonico, parte integrante delle Sacre Scritture, che gli ebrei rileggono ogni anno nelle sinagoghe. In quest’opera è reperibile la tesi, enunciata per bocca di Hamam, che il popolo ebraico è diverso dagli altri fra i quali vive e che “la religione ebraica non potrà venire adottata da altre nazioni, come avviene per la greca, ad esempio, comune a molti popoli dell’epoca”.

   In realtà la religione ebraica era, al tempo in cui veniva scritto il Libro di Ester, piuttosto divisa e frammentata, tanto da essere in alcuni casi persino esente dall’implicare la fede in Dio, ma in questo testo si può già intravedere ciò che Freud definisce «una struttura dell’anima comune a tutti gli ebrei», sebbene non sia semplice comprendere come possano condividere una simile caratteristica “milioni di persone che abitano in luoghi diversi, che non parlano la stessa lingua e non mantengono alcun contatto fra loro”. Tale convinzione sarebbe secondo Yehoshua “assolutamente infondata anche se riferita a nativi di una stessa isola, irlandesi o corsi, e, a maggior ragione, lo è nel caso degli ebrei”. Ciò nonostante, Freud ha probabilmente intravisto in modo vago qualcosa che, sebbene non fosse in grado di formularlo con precisione, può aiutarci a individuare le cause dell’antisemitismo.

     Con la sola eccezione del Cantito dei cantici, l’unico libro della Bibbia in cui la parola «Dio» non viene menzionata è proprio il Libro di Ester. L’Onnipotente non vi svolge alcun ruolo e anche la salvezza che corona il finale non deriva “dal vantaggio metafisico proveniente dalla Torah o dal particolare atteggiamento di Dio nei confronti degli ebrei. Dio (che esista o meno) non salverà il suo popolo. Di questo si è avuta la prova più volte nel corso della storia”. In questo libro sacro il principale antagonista della giovane ebrea Ester è il potente e malvagio Haman, ministro del re persiano Assuero, e proprio Haman formulerà per primo il nucleo centrale dell’antisemitismo: il popolo ebraico era infatti secondo lui un popolo particolare che si rifiutava di seguire le leggi dei re e anche delle religioni, e sarebbe pertanto stato meglio sterminarlo, dato che limitarsi a cacciarlo via dalla propria terra o confiscare i suoi beni si sarebbe rivelato inutile.

    Il Libro di Ester, che può essere considerato “uno dei pilastri della teoria sionista fino ad anni recenti”, preannunciò il destino degli ebrei e se questi avessero ben compreso il suo significato non avrebbero dovuto aspettare per duemila e trecento anni per capire come stavano le cose: “si sarebbero dati da fare e si sarebbero trasferiti nella loro madrepatria, evitando così la pericolosa dispersione e la frammentazione del loro popolo”, che già al tempo della composizione del libro “non viveva più nella terra di Israele, ma era disperso in tutto il mondo antico”. Questa è in sintesi, secondo Yehoshua, “l’essenza dell’antisemitismo secondo la teoria sionista”.

    Questa teoria, che potrebbe essere definita «sionista classica», non basta però a spiegare la matrice dell’antisemitismo. Dopo la fine parziale della diaspora e la nascita d’Israele esso non sembra essersi attenuato, tanto che “il rancore abissale” che sembra generarlo impone una volta di più di cercare di comprenderne l’origine, anche perché “negli ultimi tempi persino la legittimità stessa dello stato ebraico, e non solo la sua linea politica, è stata messa in discussione dai suoi oppositori. E questo è uno sviluppo preoccupante che nemmeno i sionisti più pessimisti avevano previsto”.

   Per comprenderne le ragioni di un simile inatteso sviluppo è quindi necessario discendere fino alle radici dell’identità ebraica, e per farlo bisogna cercare di capire la pericolosa reazione patologica che la presenza degli ebrei ha provocato tanto spesso nei loro vicini. Fra tutti i tentativi di comprensione dell’antisemitismo, la tesi di Leo Pinsker è secondo Yehoshua “quella che si avvicina di più alla verità”. In base a questa tesi, l’odio per gli ebrei sarebbe determinato dalla «paura». Prima che motivazioni di tipo religioso, Pinsker riconosceva infatti, tra i fattori scatenanti dell’antisemitismo, “i sintomi di una malattia mentale del singolo”.

   Sebbene in una società possano sussistere circostanze socio-economiche e culturali in grado di favorire la crescita di questo sentimento irrazionalmente ostile, “vi sono sempre individui animati da sentimenti più antisemiti di altri”, tanto che, persino nella Germania nazista, nonostante la ferrea e costante propaganda antisemita e pur non ammettendolo apertamente, molti cittadini disapprovavano e rifiutavano quest’ideologia. Per ragioni analoghe, per secoli anche i cristiani più devoti e osservanti “sono rimasti immuni dal virus dell’antisemitismo, mentre altri loro correligionari, altrettanto devoti e osservanti, ne sono stati contagiati”, attestando così che non è il cristianesimo in quanto tale a poter essere considerato in sé una causa della diffusione del virus antisemita.

   Per comprendere la vera ragione dell’origine e della diffusione di questo fenomeno bisogna invece appurare come si è creata quell’identificazione tra religione e nazionalità che, durante la diaspora, è stata frutto di una proiezione dei gentili piuttosto che un aspetto reale della percezione che gli ebrei avevano di sé. Per venire a capo dei motivi di questa proiezione, può essere utile ricordare che Dio non ha mai nascosto al popolo ebraico il suo destino di sventura e che esso non ha mai cercato in Dio una facile consolazione. Per questo motivo, “lo sforzo spirituale che un ebreo deve fare per esistere come popolo dev'essere superiore a quello di qualsiasi altro popolo e anche questo contribuisce probabilmente a creare paura”.

   Un simile sforzo caratterizza la doppia vocazione a restare fedele tanto alla propria nazionalità quanto alla propria religione, pur mantenendo da entrambe una distanza che gli consenta di tutelare le prerogative della libertà di coscienza individuale. In fondo, fu anche per preservare questa libertà che il popolo ebraico “preferì sopravvivere in luoghi dove non godeva di una sovranità indipendente, ovvero dove nessun ebreo poteva esercitare un potere effettivo su un altro”.

   A questo riguardo Yehoshua menziona la posizione di George Steiner, il quale era convinto che il ruolo dell’ebreo fosse quello di errare, facendosi custode, col suo continuo peregrinare e la sua peculiare distanza dalle società in cui viveva, di valori razionali che facessero da anticorpi a un nazionalismo esasperato, tipico di molti popoli. In questo senso, il ruolo degli ebrei nella diaspora sarebbe stato quello di salvaguardare valori spirituali e culturali atti a immunizzare le società che li ospitavano rispetto a queste loro tendenze sempre latenti e pronte ad esplodere in eccessi irrazionali, anche in virtù di frettolose identificazioni di religione e nazionalità. Si tratta di uno scenario ben noto, che contrassegnò non solo il fascismo maturo e il comunismo sovietico, ma che ancora oggi caratterizza, solo per fare alcuni esempi, anche la chiesa ortodossa russa e certa destra politica, tanto in Europa quanto in Israele.

   Grazie alla diaspora, l’insieme di questi aspetti della coscienza ebraica, tra loro strettamente connessi, poterono perdurare e irrobustirsi, fino a fornire l’impressione di formare un tratto unico e irriducibile, che anche in virtù di quest’irriducibilità tendeva a incutere diffidenza e paura, tanto da poter essere percepito come un elemento pericolosamente contaminante. C’era infatti il rischio che esso potesse risvegliare anche l'ebreo che può celarsi in ciascuno, “quel qualcosa di amorfo che può dall'interno destrutturare ogni costruzione culturale e religiosa fino a far perdere ogni certezza”, e che avrebbe potuto farsi strada anche rispetto alle convinzioni politiche e religiose diffuse nei paesi ospitanti.

   Se gli ebrei sono un popolo di fedeli che non cercano in Dio una consolazione, sanno però di poterla trovare nella propria fedeltà a un Dio che sa punirli e, almeno per lunghi lassi di tempo, anche abbandonarli. Per questo sono sempre stati percepiti come un popolo pericoloso: perché chi è in grado di sopportare tante volte l’evidenza di quest’abbandono è predisposto a confidare pienamente nella libertà della propria coscienza, assumendosi la piena responsabilità individuale del rapporto con la propria fede. Ma questo significa anche essere capaci di contagiare la coscienza di ogni componente di ogni altro popolo. In questa prospettiva, non è forse un caso che i pensatori che hanno forse più di altri saputo destrutturare precedenti visioni del mondo incidendo radicalmente sulla concezione che l’umanità aveva di se stessa, e cioè Marx, Freud e Einstein, per citare solo i più famosi ed influenti, fossero tutti ebrei.

   È proprio questa capacità d’incidere e destrutturare, prima e più radicalmente di ogni altro aspetto del loro carattere e della loro storia, a fare paura; e questo stato d’animo ancestrale non ha cessato di prodursi quando il popolo ebraico è potuto ritornare alla terra promessa. Anzi, l’arroccamento difensivo di fronte ad una minaccia esiziale che non è mai stato in grado di eliminare non ha fatto che rendere questa sua fiducia nella libertà di ogni coscienza individuale ancor più visibile, facendolo apparire sempre più pericoloso man mano che Israele si rivelava inopinatamente capace di far fronte agli attacchi subiti.

   Non è certo un caso che il popolo israeliano si stia oggi, ancora una volta, scontrando con ideologie e culture che tendono a comprimere marcatamente lo spazio riservato alla libertà di coscienza, senza peraltro trarre da questa ostilità verso di essa qualche vantaggio concreto. Come accadde con il nazismo, che trasse dall’odio verso gli ebrei più svantaggi che vantaggi, anche oggi i seguaci di Hamas o di altre forme bellicose d’islamismo che vorrebbero cancellare Israele dalle carte geografiche sono riusciti a produrre per i loro stessi popoli solo terribili sofferenze.

    Ancor più che religiose, politiche od economiche, le loro risentite motivazioni verso Israele e il popolo ebraico sembrano dunque riconducibili proprio all’ostilità verso quest’elemento misterioso, ma cruciale, che aveva già colpito Freud, e che è in grado di suscitare una paura pressoché incontrollabile. Ciò che gli antisemiti ancora oggi temono più di ogni altra cosa è infatti l’irriducibile propensione alla libertà individuale che caratterizza comunque gli ebrei, ivi inclusa quella che li protegge dalle implicazioni della loro stessa religione o nazionalità e che li ha a lungo indotti a non identificarle una con l’altra. Anche l’aver scelto di vivere come ospiti in giro per il mondo, e in contesti spesso inospitali, è secondo Yehoshua una conseguenza di questa esigenza e di questa precauzione.

     Probabilmente, quest’aspetto è anche quello che ha sempre consentito agli ebrei di saper collaborare in modo reciprocamente proficuo con tutti i popoli e con tutti gli Stati che non si proponessero di sterminarli, senza che però questo loro tratto distintivo gli impedisse di essere perseguitati. Forse è per questo motivo non marginale che il giornalista ebreo/ucraino Vladimir Zeev Žabotinskij (Odessa 1880-New York 1940) fu indotto a formulare la sua lapidaria sentenza: «se non sconfiggerete la diaspora, la diaspora sconfiggerà voi». In questo modo, spiega Yehoshua, egli “sintetizzò l’urgenza del sionismo”, che a sua volta “si adoperò per normalizzare al più presto l’esistenza degli ebrei, tentando di creare una sovranità indipendente in una parte della terra d’Israele”.

   Di fronte ai recenti e violenti sussulti, in tutto il democratico mondo occidentale, di un sostanziale antisemitismo, pur mascherato da un pretestuoso antisionismo, risulta quindi evidente che ormai non è in gioco solo la sopravvivenza dello Stato d’Israele e del popolo ebraico, ma anche quello stesso principio di tolleranza liberale di cui lo Stato ebraico è ancora oggi l'unico avamposto in Medio Oriente; e se tale principio ha potuto trovare un terreno fertile presso il popolo ebraico è perché questo ha sempre cercato di preservare l’elasticità del vincolo tra religione e nazionalità che costituisce un elemento fondamentale per poter pervenire a una concezione laica e democratica dello Stato.

    L’antisemitismo non è dunque prevalentemente riconducibile, come alcuni ancora ritengono, a una presunta posizione di forza degli ebrei all’interno dei sistemi di potere dei paesi ospitanti, a una qualche peculiare potenza economica del popolo ebraico, ma proprio ad un elemento che, almeno ad una visione superficiale, potrebbe denotare una sua intrinseca debolezza, vale a dire quella mai compiuta saldatura tra nazionalità e religione che per Yehoshua contrassegna un tratto cruciale della sua storia. Alla mancata fusione di questi due elementi è infatti riconducibile quell’esercizio della libertà individuale che anche durante la diaspora ha sempre caratterizzato la vita dei componenti delle sue comunità. Si tratta in effetti della stessa libertà di coscienza, religiosa e politica, su cui sono imperniate le società liberaldemocratiche, e il fatto che i più accesi nemici d’Israele e degli ebrei, oggi come nel secolo scorso, siano quasi sempre anche nemici della liberaldemocrazia e che le loro iniziative politiche tendano a prefigurare nuove forme ibride di totalitarismo sembra confermare in modo inequivocabile questa relazione.

 

Abraham B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo. Una discussione, trad. it. Einaudi editore, Torino, 2004.