Il "letteralismo", l'Islam e la "palestinizzazione" dell'Occidente

 Parte prima - Il «letteralismo» e l’Islam

 

Per lo psicoanalista americano James Hillman, allievo di Carl Gustav Jung, “la più grave delle malattie di cui soffre la psicoanalisi è il «letteralismo». La cura di questa malattia consisterebbe nel riorganizzare il materiale clinico mediante l’arte narrativa e l’esercizio nell’uso di metafore: l’obiettivo dell’analisi infatti non consiste tanto nel “conoscere se stessi”, quanto nel cercare se stessi nel mito, là “dove gli dei e gli uomini si incontrano”. Il «letteralismo» sarebbe in questo senso una malattia che affligge un’attività che, come la psicoanalisi, era nata per curare. Ma se questo è possibile, ciò dipende dal fatto che il «letteralismo» può, in linea più generale, essere considerato come una malattia dello spirito anche in altre sue manifestazioni.

In ambito religioso, per esempio, il «letteralismo» ha caratterizzato a lungo, e in buona parte caratterizza ancora, la religione cristiana. Galileo, per esempio, per difendersi dalle accuse che gli erano mosse di fare nelle sue opere affermazioni contrarie alle sacre scritture, sosteneva che queste, essendo testi di carattere religioso, non dovessero essere interpretate alla lettera per quanto riguardava le loro implicazioni conoscitive. Il vero senso della Scrittura non corrisponde infatti secondo Galileo al senso immediato delle parole, o al loro significato letterale. Infatti, chi si limitasse ad una interpretazione «letteralistica» della Scrittura dovrebbe poi accettare “non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poiché sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anche talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future”. Una simile opzione può però non essere quella prescelta, perché le proposizioni dettate dallo Spirito santo, “furono in tal guisa profferite dagli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato”.

Circa un millennio e messo prima di Galileo, Origene (Alessandria d’Egitto, 185 – Tiro, 254) aveva già distinto possibili approcci diversi alla Sacra Scrittura: quello fisico o letterale, quello psichico o morale, quello spirituale o mistico. Si trattava di tre modi per esprimere il senso degli scritti sacri. Il primo e più semplice era quello letterale; il secondo, più complesso, comportava una riflessione sul senso che i passi di un testo sacro potevano avere per l’anima umana; e infine il terzo, quello ideale, si fondava sulla legge spirituale che contiene “l’ombra dei beni futuri”, e cioè sapeva indicare in modo intimamene persuasivo la strada giusta per raggiungerli in questa e nell’altra vita.

 Per secoli la teologia cristiana ha cercato di andare oltre le proprie concezioni «letteraliste» e in parte sta ancora cercando di farlo, perché queste costringono ancora molti a una scelta difficile: o credere, rinunziando a ciò che la scienza, oltre che la logica, insegnano, o buttare a mare le sacre scritture, salvando però la propria integrità intellettuale dal naufragio. In questo contesto, «de-letteralizzare» l’Antico Testamento non è stato facile, ma   è stato forse anche più difficile farlo con il Nuovo, a causa delle scelte interpretative razionali o paradossali che tale operazione imponeva. Certo, tutta la storia del cristianesimo - da S. Paolo a S. Agostino, da Lutero ad Erasmo, da Pascal e Kierkegaard, da una lunga serie di santi a una non meno lunga scia di teologi e filosofi - reca testimonianza delle domande irrisolte e dei dubbi spesso laceranti che hanno accompagnato ogni fede autentica.  

 Nel corso di questi secoli, il cristianesimo si è progressivamente emancipato dalle sue interpretazioni più «letteraliste» per confrontarsi con visioni del mondo e del sacro anche molto diverse, se non persino antitetiche, partendo per lo più dal presupposto che nessuna fede può essere considerata autentica se non affonda le sue radici in una coscienza libera, se non è cioè una libera scelta. Il cristianesimo ha cioè progressivamente introiettato le domande di Giobbe e le confessioni di Sant’Agostino e si è confrontato con la filosofia classica greca e con quella romana, filosofie precristiane da cui si è lasciato impregnare e che stanno ancora alla base della cultura laica dell’umanità; ha poi attraversato i lavacri del Rinascimento, della Riforma e dell’Illuminismo, senza mai rinunciare a fare i conti con la «ragione», in tutte le accezioni di questo termine che la storia della filosofia e della teologia hanno saputo declinare.

 Anche l’ebraismo, per rimanere nell’ambito delle religioni monoteiste occidentali, ebbe un suo impatto con l’illuminismo che non fu privo di conseguenze rilevanti e in parte vi svolse un ruolo significativo. La Haskalah, l’illuminismo ebraico, si sviluppò in Germania e poi in buona parte d’Europa grazie in particolare a Moses Mendelssohn e Gotthlold Ephraim Lessing, che ebbe il merito d’introdurre il primo nel mondo degli intellettuali berlinesi. Gli illuministi ebrei, detti maskilim, di cui Mendelssohn fu il primo rappresentante, ritenevano necessario introdurre modifiche nel proprio modo di vita, in vista dell'incontro con le società europee.

 Nel 1781 Mendelssohn sostenne in un suo saggio, (Jerusalem oder über religiöse Macht und Judenthum) la tesi che il giudaismo non era d’ostacolo alla partecipazione degli ebrei alla società tedesca, dato che esso non ha alcuna pretesa di dichiarare “false” le altre credenze, e quella sua posizione non passò inosservata: Immanuel Kant, per esempio, colse subito in quell’opera di Mendelssohn un atteggiamento liberale e ne fece le lodi pubbliche, considerandola “come l’annuncio d’una grande riforma”, in grado di congiungere la religione ebraica con la libertà di coscienza, come nessun’altra religione era fino a quel momento riuscita a fare. La strada di un rapporto aperto, libero, dialogico e critico, e quindi tendenzialmente poco «letteralista», tra l’Ebraismo e la storia della cultura occidentale e del suo razionalismo era aperta e non si sarebbe più richiusa.

 A differenza di quanto però è successo con il cristianesimo e l’ebraismo, il «letteralismo» islamico non ha mai scelto di confrontarsi apertamente con l’illuminismo né si è posto in condizione, negli ultimi due secoli, di dialogare proficuamente con i valori civili e politici che gli sono propri. Anzi, la teologia islamica sembra essersi sempre più confermata nella convinzione che quanto è rivelato da Allah dev’essere rispettato alla lettera e non dev’essere interpretato alla luce di un confronto con argomenti o dubbi di tipo razionale. Le ipotesi interpretative basate sull’uso sistematico della ragione non hanno mai smesso di risultare ai suoi occhi fuorvianti, e cioè possibili fonti di peccati gravi, esattamente com’è accaduto per secoli anche nell’ambito della tradizione cristiana.

 Sebbene nel Corano si affermi che “non vi è coercizione nella religione”, il «letteralismo» di quella islamica ne impone ancora oggi molte particolarmente rigide. Questa circostanza non può dipendere dal fatto che il Corano è, come del resto la Bibbia, ricco di contraddizioni difficilmente risolubili, come per esempio quella per cui Dio è nel contempo misericordioso e vendicativo. Tutte le “religioni del libro” hanno dovuto, e in effetti ancora devono, fare i conti con le contraddizioni reali o apparenti contenute nei testi sacri, e per evitare l’impatto con tali contraddizioni il metodo più semplice e radicale è l’ignorarle.

 La vera differenza è che l’Islam ha avuto, rispetto alle altre religioni monoteiste d’occidente, un’evoluzione bloccata dalla sua vocazione eminentemente «letteralista», che è indirettamente all’origine anche delle difficoltà incontrate dalle popolazioni di religione islamica quando hanno cercato d’integrarsi nella civiltà democratica occidentale. Tale vocazione è a sua volta alla base dell’islamismo più violento e aggressivo verso gli altri popoli e ogni altra religione. Quanto infatti evidenzia lo storico rumeno, ma israeliano di adozione, Élie Barnavi, è sotto gli occhi di tutti: il “fondamentalismo rivoluzionario” è oggi, salvo poche eccezioni (nello Sri Lanka o nell’Irlanda del Nord) “alla radice di tutti i conflitti del pianeta in cui la religione gioca un ruolo, dall’Africa al Sud Est asiatico passando per il Vicino e il Medio Oriente”.

 Questo predominio del «letteralismo» ebbe inizio probabilmente intorno al XIII secolo, quando la corrente ash’arita cominciò ad avere la meglio su quella mo’tazilita. La corrente ash’arita sosteneva infatti la coesistenza del Corano con Dio, ossia che il Corano fosse increato, mentre quella mo’tazilitapartiva dal presupposto che il Corano fosse creato da Dio e non coesistente con lui ab aeterno. Ai mo’tazilitii fu relativamente più vicino Averroé, che prese le difese della filosofia contro le critiche dei teologi ash’ariti, come per esempio Al-Ghazali, e sostenne che anche per la religione islamica era necessario confrontarsi con quell’imperativo di razionalità e di coerenza che ci era stato tramandato da Aristotele, tanto da ritenere che i testi sacri dovessero essere interpretati in modo metaforico ogni volta che il loro significato letterale contraddiceva le conclusioni cui si poteva pervenire per via razionale.

 Sebbene Averroè contestasse a entrambe le correnti di avvalersi di argomenti dialettici per deformare il pensiero dei filosofi cui facevano riferimento, finendo poi col disorientare quelle masse incolte cui sarebbe invece convenuto attenersi alla lettera del Corano, egli fu uno strenuo difensore del ruolo della filosofia e considerava chi, temendo che potesse allontanare dalla retta fede, ne proibiva lo studio simile “a colui che impedisce a un assetato di bere dell’acqua fresca, fino a farlo morire, con la scusa che avrebbe potuto rimanere soffocato”.

 Purtroppo, l’Islam non intraprese la strada indicata da Averroè, ma quella da lui più distante. Come spiega in maniera molto efficace e sintetica Mircea Eliade, facendo più volte riferimento all’opera di Henry Corbin, che può forse essere considerato il più importante studioso di religione islamica dell’ultimo secolo, “«secondo il Corano, alla vita religiosa è indispensabile la fede nel ghayb (l’invisibile, il soprasensibile, il mistero) – e il ghayb trascende la dimostrazione razionale”. Come fa osservare lo stesso Corbin, secondo la dottrina di al-Ash’arì, sebbene non si debba disdegnare il valore delle dimostrazioni razionali, come invece fanno i «letteralisti», non si deve tuttavia arrivare al punto di considerare “la ragione come un criterio assoluto davanti alla fede e ai dati religiosi fondamentali”. Secondo lui, “attribuendo un valore assoluto alla ragione, invece di arrivare a rafforzare la religione, come sostengono i Mo’taziliti, si arriva a sopprimerla, semplicemente sostituendo la ragione alla fede. A qual fine aver fede in Dio e nelle sue rivelazioni, se la mia ragione è superiore ai dati stessi della religione?” In realtà, il Corano ribadisce a più riprese che la fede si fonda sul ghayb, che costituisce il principio essenziale della vita religiosa e che sta al di là di ogni principio razionale, anche di quello di non contraddizione. Senza rinunciare all’applicazione sistematica di tale principio la fede musulmana risulta impossibile, perché prendere la ragione come criterio assoluto nel campo del dogma è “incompatibile con il principio della fede nel ghayb”.

 Corbin spiega anche che la tesi centrale di Abu’l-Hasan al-Ash’ari è proprio quella per cui bisogna avere fede «senza domandare come». Da questa convinzione cruciale derivano le differenze fondamentali sia rispetto ai Mo’taziliti che rispetto ai «letteralisti». Se i primi considerano il Corano come parola divina creata, i secondi oppongono un categorico rifiuto a questa concezione. Per i primi, “non solo l’uomo è libero e responsabile, ma possiede anche la qodra, cioè la potenza creatrice, la facoltà di creare le proprie opere”. In contrapposizione a questa tesi, “per sfuggire al rischio di porre un’altra potenza creatrice a fianco di quella divina, Ash’ari, pur lasciando all’uomo una libertà che lo rende responsabile dei suoi atti, attribuisce all’uomo non la qodra, la creazione delle sue opere, bensì il kash, la loro acquisizione”.

 Nel considerare i rapporti di forza tra queste diverse scuole teologiche, bisogna tener presente però che “per molti secoli la scuola ash’arita ha dominato quasi totalmente l’Islam sunnita; in certi periodi e in certe regioni, l’ash’arismo è stato addirittura identificato con il sunnismo”. In ogni caso, sebbene la scuola Mu’tazinita abbia saputo in passato fornire una valida alternativa, anch’essa si avvale di una distinzione tra tipologie di peccati che non è priva di conseguenze rilevanti. Ci sono infatti i peccati più veniali, “che non comportano l’esclusione della cerchia dei credenti, purché il peccatore non vi ricada”; e quelli più gravi, che si dividono a loro volta in due specie: “kofr (l’infedeltà), e gli altri. Questi ultimi, secondo i Mo’taziliti, escludono il musulmano dalla comunità, senza tuttavia che egli debba essere considerato un kafir (infedele in senso assoluto)”.

 Anche se in tutto l’Islam non è mai venuta meno la battaglia contro la religione «letteralista» della «Legge» - battaglia che è stata condotta, oltre che dai Mo’taziliti, anche dagli sciiti minoritari, dai falasifa e dai sufi, in nome di una versione più spirituale dell’Islam - in ogni caso, anche nella prospettiva Mo’tazilita, il peccato di gran lunga più grave, il peccato che non può essere emendato, è quello dell’infedeltà (kafir). E poiché non c’è modo più oggettivo di accertare l’infedeltà che valutarla rispetto alla «lettera della Legge», questa continua comunque a costituire un riferimento centrale, specialmente per le tipologie di fede spiritualmente meno elevate, che hanno cioè bisogno di segni tangibili e che riguardano la massa dei fedeli. Se l’islam spirituale ne ha avuto infatti sempre meno bisogno, quello «letteralista» non ha mai cessato di farvi riferimento.

 Alla luce di questo scenario si può ben comprendere che, quando oggi operiamo la distinzione tra un Islam moderato e uno radicale, siamo probabilmente vittime di un’illusione provocata da diversi comportamenti rispetto alla «lettera della Legge», ma poco cambia rispetto al peccato che non può essere redento, quello dell’infedeltà al libro, sempre evidente quando ci si schiera dalla parte degli infedeli. Per questo, nel caso di uno scontro con altre religioni o altri sistemi di valori, di un impatto violento con i miscredenti, l’appartenenza alla religione che fa riferimento al Corano prevale sua qualsiasi altra ragione.

 Ma anche l’altra differenza cui si è fatto cenno tra la concezione ash’arita della religione islamica e la tesi mo’tazilita ha una conseguenza rilevante, e consiste nel fatto che secondo quest’ultima il Corano sarebbe creato, e cioè ispirato da Dio in un certo momento in una lingua umana: questa circostanza consente infatti a sua volta d’interpretarlo come un evento storico, e cioè di storicizzarlo e quindi, almeno virtualmente, di renderlo compatibile con la storia dei costumi e delle convinzioni etiche e scientifiche dell’epoca in corso, o almeno sarebbe possibile tentare una sorta di mediazione culturale tra le sue interpretazioni letterali e quelle compatibili con i tempi. Potrebbe cioè ripetersi in quest’ottica, anche per la religione islamica, ciò che è già avvenuto per quella cristiana. Anche la sharia cesserebbe pertanto di essere qualcosa di eterno, d’indifferente allo scorrere del tempo, e potrebbe dunque essere liberata dalla sua rigidità, adattandosi progressivamente a un contesto storico e culturale in perpetuo mutamento.

 Viceversa, nella prospettiva che in modo più generico potremmo definire «letteralista» la ragione umana è vista più come un nemico che come un alleato e per questo bisogna imparare a rispettare la lettera del libro sacro «senza chiedersi il come», o «senza conoscere il perché» di ciò che vi si afferma. Questo è il modo in cui si possono infatti risolvere problemi che la fede islamica può sollevare senza correre il rischio di riscontrare delle contraddizioni tra diversi versetti coranici. L’espressione bi-lā kayfa indica proprio la convinzione che questi debbano essere presi alla lettera, «senza chiedersi perché», ed è usata fin dal decimo secolo dopo Cristo per marcare la differenza con la scuola mo’tazilita, secondo la quale il confronto tra fede e ragione era invece opportuno e appropriato.

 In realtà, quando si evita di affrontare per via razionale i paradossi e le contraddizioni che qualsiasi fede ci pone di fronte, questa si riduce a una superstizione «letteralista». Un simile confronto con la ragione implica infatti non solo che ci si debba interrogare sul significato dei testi sacri di riferimento, ma anche sulle conseguenze di ogni loro interpretazione sulla propria vita e più in generale sui riflessi etici della propria fede. Nel cercare d’interpretare in modo plausibile ogni passo per comprenderne le implicazioni è allora inevitabile che si debba abbandonare la «lettera» e avvelarsi di metafore. Senza ricorrere a metafore, paragoni o similitudini è impossibile traslare l’ipotetico significato di un passo in altri contesti e senza l’esame delle conseguenze di ciascuna ipotesi interpretativa è impossibile capire non solo il senso di ciò che si legge o si studia, ma anche educarsi ad avvertire la risonanza emotiva di quanto si è compreso o si ritiene di aver compreso, rischiando così di abituarsi a una sostanziale mancanza di empatia verso tutto ciò che non rispetta la «lettera», abitudine da cui possono derivare le più deleterie forme d’intolleranza, di odio e di fanatismo.

 

 

 

Parte seconda – Il «letteralismo», il male e la mancanza di empatia

 

 Nel Corano si trovano delle rappresentazioni antropomorfiche di Dio: per esempio, Dio è seduto sul Trono, ha un viso e delle mani. Per i mo’taziliti si tratta di metafore: la mano – ci spiega ancora Corbin – “designa metaforicamente la potenza; il viso l’essenza; il fatto che Dio sia assiso in Trono è un’immagine metaforica del regno divino”. Al contrario di quanto pensano i mo’taziliti, per i «letteralisti» questi sono fenomeni reali concernenti Dio e devono essere considerati come tali. Su questo punto, Ash’ari è d’accordo con i «letteralisti» e ogni musulmano dovrebbe credere che Dio ha realmente le mani e il viso, ma senza «domandarsi come». Per lui la fede può fare a meno della ragione e quindi non ha nemmeno bisogno di ricorrere a delle metafore per spiegare quanto si trova nei sacri testi islamici e che sia con essa in contrasto. Ragione e fede possono procedere appaiate, senza interferire una con l’altra, senza bisogno di alcuna mediazione.

Ma senza ricorrere all’uso di metafore e di altre figure retoriche anche il tentativo di sciogliere le contraddizioni che affiorano da una interpretazione letterale dei testi sacri non può avere successo. Se poi intendiamo rispettare anche la regola del «non cercare di capire», allora qualsiasi comprensione di un testo non potrà che rivelarsi, da un lato, una rigida fonte d’implicazioni anche contraddittorie, e dunque anche capace di indurre comportamenti di qualsiasi tipo, e dall’altro, quando cioè potrebbe fornire indicazioni spiritualmente significative e compatibili con un’etica razionale, incapace di toccare l’anima e di persuadere, inefficace tanto sotto il profilo psicologico quanto sotto quello conoscitivo.

 Può essere a questo riguardo interessante ricordare quanto Sigmund Freud sostiene in Analisi terminabile e interminabile, dove afferma che non si può avanzare di un passo nella comprensione di qualsiasi fenomeno tipico della vita psicologica, come per esempio il contenuto «manifesto» e «letterale» di un sogno, se non “speculando”, “teorizzando” e persino “fantasticando”. In effetti, nessun tipo di comprensione di un testo può fare a meno di ricorrere ad analogie e trasposizioni semantiche che vadano oltre la sua lettera, come chi conosce la difficile arte del tradurre sa bene. Senza saper giocare con le figure retoriche, ogni traduzione rischia infatti di rivelarsi piatta e priva di quelle risonanze di senso che potrebbero non far rimpiangere l’originale, precludendo così anche una reale comprensione del testo. Il «letteralismo», quindi, non costituisce solo l’opposto di un atteggiamento razionale, ma è anche il più acerrimo nemico di ogni riverbero emotivo ed empatico di un testo. E non solo di un testo: i suoi effetti deleteri si ripercuotono anche sulla capacità di un essere umano di comprenderne altri, di mettersi nei panni di altri, di ascoltare ciò che sentono altri.

Durante il bel film di Yves Simoneau sul processo di Norimberga, quando il protagonista si chiede cosa possa aver permesso tante crudeltà ed efferatezze da parte dei gerarchi nazisti, egli finisce poi con l’interrogarsi su quale sia più in generale l’origine del male e a un certo punto dice di aver finalmente compreso che si tratta proprio di una “mancanza di empatia”. Tale mancanza caratterizza in genere chi non è capace di una vera simbolizzazione del proprio vissuto, che resta così schiacciato sulla «lettera» della legge, di una «lettera» che non riesce però a sostituire la pienezza di un’esperienza propriamente simbolica. Il proprio mondo interiore, e dunque anche la propria fede, possono infatti accedere a un simile esperienza solo attraverso l’esercizio di una «parola piena», percorsa dalle sue risonanze «de-letteralizzate», e solo mediante quest’esercizio il soggetto può imparare a traslare i propri stati d’animo sugli altri e a simulare quelli degli altri dentro di sé, così da provare empatia per loro.

 Com’è possibile allora che nazisti e criminali assassini di ogni epoca, inclusa quella in corso, abbiano potuto compiere efferati delitti senza provare nulla che gli impedisse di compierli, d’immaginare cioè cosa le loro vittime stavano provando? Una risposta potrebbe essere la seguente: perché rispondevano a una propria etica a suo modo «letteralista», e cioè commisuravano il loro vissuto a una legge codificata in modo tale da escludere qualsiasi riferimento al dolore altrui e alla sua simulazione interiore. Cercando d’incarnare alla «lettera» le idee di «forza» e di «potenza» che contrassegnavano la loro fede nel nazismo e nel Fuhrer, nonché una certa idea di purezza ariana, si condannavano così a rimanere sordi a qualsiasi rimostranza della propria coscienza, a qualsiasi stato d’animo che potesse insorgere simulando in sé ciò che le loro vittime potevano provare.

 In virtù di un’analoga dinamica psicologica, i criminali che il 7 ottobre 2023 hanno massacrato, rapito, stuprato e torturato in nome di Allah cittadini israeliani cogliendoli di sorpresa mentre partecipavano a una festa o si trovavano nelle loro case, e i soldati russi hanno compiuto gesta simili verso i civili ucraini dopo il febbraio del 2022, dando prova di una mancanza di empatia che ha dei precedenti analoghi solo in coloro che poterono compiere gli efferati crimini nazisti. Certo, si potrebbe sostenere che chiunque si trovi a combattere una guerra debba per forza praticare una simile assenza di empatia, ma non sarebbe esatto: un conto è infatti torturare e massacrare qualcuno che è davanti a noi senza che ciò abbia qualche utilità per conseguire la vittoria, altra cosa uccidere per vincere una guerra e per evitare nel contempo di essere uccisi.

 In una situazione simile a quella in cui hanno operato o continuano ad operare i criminali nazisti, russi e islamisti doveva invece trovarsi S. Paolo quando perseguitava i cristiani, dato che rispondeva anche allora alla stessa dimensione letterale della «legge» da cui nasce il peccato, senza la quale non v’è peccato. Come poi evidenzierà infatti Jacques Lacan, in particolare nel suo commento alla Lettera ai romani, sarà proprio San Paolo a sostenere, dopo la sua illuminazione sulla via di Damasco, che è soltanto per la «legge» che è possibile peccare, perché senza le sue proibizioni non potrebbe sussistere una loro infrazione. Per peccare non ci si può astrarre dalla «legge» e si deve passare attraverso la sua interdizione, con la quale ci si può tuttavia anche identificare, arrivando a punire in suo nome e a poterlo fare con una spietatezza sorprendente e terribile.

Perché si possa andare oltre questo rapporto letterale con la «legge», perché questa possa farsi ispiratrice di empatia verso altri esseri umani fino al punto da trasformarsi in agape, è necessario che con la «legge» si sia prima instaurato un rapporto dialogico in grado di evidenziare le contraddizioni che sussistono tra la sua «lettera» e le proprie convinzioni razionali, fino ad avvertire le conseguenze di tali contraddizioni sul piano morale, esattamente come è avvenuto nella vita di molti santi e teologi che hanno sentito l’esigenza di dischiudere sinceramente la propria anima a Dio, o a illustri filosofi atei che hanno nondimeno saputo intraprendere un dialogo non meno sincero con la propria coscienza.

Una simile esperienza, se può sembrare eccessivamente appiattita sulla dimensione religiosa o su quella filosofica, è tuttavia molto simile a ciò che in ambito psicoanalitico è rappresentato dal transfert, e non è un caso che per alcuni grandi filosofi cristiani, come per esempio Søren Kierkegaard, si sia potuto parlare della sua «analisi con Dio». Insomma, perché la propria fede, così come la propria «analisi», non siano esperienze incapaci di trasformare e condurre verso un perfezionamento spirituale, per usare un’espressione particolarmente cara ai mistici di ogni religione, è necessario che con la «lettera» della «legge», così come con la «lettera» di un testo sacro, si sia instaurato una relazione «de-letteralizzante».

Il lavoro interpretativo svolto sulla «lettera» di un testo, con tutti i dubbi più o meno felicemente risolubili da cui è contraddistinto, non costituisce infatti un aspetto marginale del suo significato, ma un suo riflesso essenziale proprio in quanto implica una continua auto-revisione, un dialogo critico col proprio vissuto alle prese con il testo, da cui potrà poi scaturire un’introiezione consapevole e articolata della «legge». Il rapporto che è possibile instaurare con essa ha in questo senso qualche somiglianza con quello che è possibile instaurare con l’inconscio, che può rivelarsi fecondo e capace di trasformare solo procedendo attraverso un’analoga «de-letteralizzazione». Come infatti Lacan ha evidenziato fin dalla metà del secolo scorso, l’inconscio utilizza una sua retorica e in questa non è possibile addentrarsi senza porsi in ascolto di ciò che va oltre la «lettera». Figure retoriche come la metafora e la metonimia, riconducibili in un’ottica lacaniana a ciò che nell’Interpretazione dei sogni Freud definiva condensazione e spostamento, giocano nell’inconscio un ruolo decisivo nel rivelare il desiderio che vi è celato.

Sempre grosso modo in quel periodo del secolo scorso, grazie a un articolo Max Black del 1954, alla metafora venivano poi riconosciute delle qualità cognitive, tanto da paragonare il suo funzionamento a quello di modelli scientifici. Il significato di un testo religioso o letterario non è quindi scorporabile dalle sue risonanze metaforiche. Anche da un punto di vista junghiano, le immagini che possono essere suggerite dalla sua lettura sono imprescindibili affinché esso possa assumere un significato capace di produrre un riverbero di senso nel soggetto, e il potere delle immagini, la loro capacità di trasformarsi e trasformare, è riconducibile alla loro valenza metaforica. Quando questa è bloccata, interdetta, ogni simbolo per Jung si svuota e «letteralizza», fino a diventare, appunto, «lettera morta».

La religione, il mito, così come la letteratura, sono invece grandi esempi della tensione viva che sussiste in ogni testo tra la sua energia figurale e la sua «lettera». Questa tensione, sempre aperta, è in grado di alimentare il senso polifonico di ogni testo, storia o mito, e al tempo stesso di sviluppare le capacità empatiche del soggetto, che diviene ad ogni passo di quest’esercizio più capace di adottare il punto di vista dell’altro e di simulare dentro di sé il suo vissuto, come avviene spontaneamente durante la lettura di un romanzo o la visione di un film che sappia coinvolgerci.

Ma se per esercitare l'empatia è necessaria una sorta di simulazione interna alla propria coscienza di ciò che l'altro sta vivendo, per sviluppare questa capacità di simulare bisogna svincolare il proprio vissuto dal compulsivo desiderio di rispettare la «lettera della legge», dato che tale desiderio rende empaticamente ottusi. L’assenza dell’empatia potrebbe in questo senso essere spiegata con una sorta di sordità emotiva nell’uso stesso del linguaggio.  Se infatti le parole usate per descrivere o immaginare la situazione in cui l'altro si trova non risuonano anche nel nostro vissuto, ovvero se formano semplicemente pensieri sordi (come li chiamava Leibniz) esse non possono provocare alcuna reazione empatica. Questo tipo di pensieri sono infatti caratterizzati dal fatto di essere privi di qualsiasi capacità psicagogica sul soggetto: essi non sono empatici perché sono soltanto letterali, formulati uti psictacus, a pappagallo. La simbolizzazione che li caratterizza non riesce a produrre alcuna simulazione interiore del vissuto dell'altro, il che impedisce di provare empatia e sospinge in una condizione di alessitimia, ovvero in una condizione in cui si è stabilmente incapaci di provare emozioni.

Empatia e «letteralismo» possono quindi essere considerati come acerrimi nemici. Il «letteralismo» - e in particolare quello che si può avere verso dei testi sacri che orientano in modo pervasivo, assiduo e capillare tutta la propria vita - da un lato è refrattario a un confronto aperto con la propria ragione, dall’altro impedisce anche uno sviluppo armonico della propria capacità di provare empatia, con tutte le conseguenze che l’assenza di questa disposizione d’animo può avere in società complesse, ricche di tensioni e conflitti più o meno latenti o esplosivi tra diverse comunità religiose e politiche.

 

 

III - L’Islam e la palestinizzazione dell’Occidente

 

Come si è visto, la disposizione «letteralista» verso il Corano caratterizza la maggior parte dei seguaci della religione islamica, e in particolare i sunniti. Il loro rapporto con gli esiti della cultura occidentale risulta sempre più insofferente ai suoi valori, sempre più complesso da gestire e sempre più caratterizzato da azioni violente. Rispetto al quadro di riferimenti «letterali» propri di un fedele islamico, certi comportamenti che caratterizzano la società occidentale suonano come delle vere e proprie bestemmie, così come suonerebbero alle orecchie di un cristiano di mille anni fa. Ma al contrario di quanto è accaduto al cristianesimo, anche in seguito al trauma ricevuto dal suo impatto con la modernità l’islam si è sempre più ancorato alla sua vocazione «letteralista», legandosi a un passato idealizzato, tanto che, come osserva ancora Élie Barnavi, “si è sclerotizzato nel Medioevo”.

La frase di San Paolo, per cui «senza la legge non v’è peccato», ci permette a questo punto di comprendere meglio perché, quando il rapporto con la legge è «letterale», non possano che essere letterali anche il peccato e la pena corrispondente. Così, se nel testo sacro è scritto che per l’infrazione di certi precetti è prevista la lapidazione, oppure il rogo, come a lungo è avvenuto nella nostra storia per estirpare il maligno da eretici e streghe, non c’è niente di cui dispiacersi, perché di fronte alla possibilità di discostarsi dalla «lettera della legge» e rispetto alla soddisfazione implicita nel suo appagamento qualsiasi altro stato d’animo risulta fuorviante ed emotivamente sordo.

E non meno «sorde», nel senso soggettivo dell’aggettivo, cioè incapaci di farsi sentire, possono risultare a riguardo le rimostranze della ragione, che per il solo fatto di rivendicare prerogative e diritti non secondari rispetto a quelle della «legge» da rispettare letteralmente costituisce già di per sé una virtuale istigazione al peccato. Così è stato per secoli nella storia del cristianesimo, e così è ancora oggi nella religione islamica, i cui seguaci, tranne poche eccezioni, non sono facilmente integrabili in una società imperniata sui valori della liberaldemocrazia, dato che questa fornisce di per sé un incessante esempio di quella trasgressione peccaminosa dei precetti coranici, tra loro spesso contraddittori, che è destinata ad essere avvertita come offensiva, pericolosa e destabilizzante, e pertanto da estirpare alla radice.

Certo, ci sono molte persone di fede islamica che sembrano perfettamente inserite nelle società occidentali, dove svolgono in pace il loro lavoro in maniera sinceramente collaborativa senza commettere reati di sorta. Si tratta di persone che spesso non hanno difficolta a integrarsi: come i seguaci di molte altre religioni, anche loro sono in grado di partire dal presupposto - dettato dal buon senso che permane sullo sfondo di molti esponenti di qualsiasi cultura o civiltà - che ogni fede religiosa riguarda essenzialmente la propria coscienza e che non ci sia quindi alcun fondato motivo per cui si debba entrare in conflitto con la mentalità di altri popoli che abbiano convinzioni diverse. Queste persone sembrano di fatto integrate, e questa circostanza sembra attestare la palese falsità della tesi che sostiene l’impossibilità di una loro integrazione sistematica.

In realtà così in effetti potrebbe essere, e in un certo senso, entro certi limiti, è davvero; ma lo è in modo effimero e precario. Infatti, coloro che invece percepiscono la cultura della società occidentale come implicitamente offensiva della propria fede «letteralista», e cioè gli islamisti, si sentono anche in dovere di estirpare e punire il male che i valori di questa società rappresentano. E gli islamisti, come è già più volte avvenuto in passato, seppur in sé minoranza sono in grado di porre tutti gli altri di fronte ad una scelta ineludibile: o con la «legge» o contro la «legge», o con l’islam o contro l’Islam.

Si tratta di un aut aut di fronte al quale qualsiasi esitazione sarebbe già di per sé peccaminosa e meritevole di una punizione esemplare per cui, dovendo scegliere, si può agevolmente prevedere il ripetersi di quanto già più volte avvenuto, e cioè lo schierarsi dei musulmani «moderati» con gli islamisti, o comunque il non opporsi in modo esplicito ed energico alle loro azioni e strategie.

Può darsi che il trovarsi di fronte a simili alternative non rappresenti una condizione eterna. Può darsi che un giorno la scuola di pensiero mutazilitao un nuovoAverroèriescano ad avere il sopravvento su quellaash’arita, può darsi che un giorno ci sia davvero un «rinascimento islamico» che induca la maggioranza dei suoi seguaci ad abbandonare la versione «letteralistica» della loro fede, ma oggi una simile svolta non è all’orizzonte.

Di fronte a questa alternativa, oggi anche gli islamici che vengono definiti «moderati», e che tali effettivamente sarebbero e vorrebbero rimanere, non possono avere esitazioni di sorta, e tra chi combatte in nome della «lettera» del Corano e chi lo fa in nome di altri valori, laici o religiosi, non c’è alcun dubbio su quale sia il fronte che questi ipotetici «moderati» pensano di dover scegliere, e sebbene alcuni possano cercare di restare mimetizzati in una sorta di limbo per qualche tempo, di certo non potranno appoggiare chi osa schierarsi contro dei fratelli che impugnano la «lettera» del libro dell’Islam come una spada. Il timore di poter diventare un kafir, e cioè un infedele in senso assoluto, fa di qualsiasi normale peccatore un reietto virtuale agli occhi di Dio, e poiché la ragione umana non potrà venire in suo soccorso con alcuna mediazione, dovrà semplicemente scegliere: o con i fratelli musulmani o contro di loro e contro il Corano. Il cosiddetto islamismo moderato e quello più integralista non potranno dunque mai dividersi nel caso di uno scontro con altre religioni o altri sistemi di valori, e cioè di un impatto violento con i miscredenti, e la considerazione dell’appartenenza alla religione che fa riferimento al Corano prevarrà sempre, salvo le inevitabili eccezioni, su qualsiasi considerazione di tipo razionale o spirituale.

In questo scenario, si può forse comprendere perché qualsiasi aumento della presenza della popolazione islamica all’interno delle società occidentali non possa che determinare un aumento della loro conflittualità interna, che sarà proporzionale alla crescita della componente islamista. Il ricatto religioso esercitato da quella che è per ora solo una minoranza violenta sarà in grado di condizionare in modo decisivo il comportamento e lo stile di vita della maggioranza della popolazione musulmana, fino ad assimilarla di fatto o a sancire comunque la sua incapacità a reagire alla strategia dei gruppi più radicalizzati. Il disegno che molti di questi hanno da tempo annunciato, ovvero quello di conquistare l’occidente per assoggettarlo all’Islam, non potrà così più essere evitato senza quello scontro di civiltà paventato con largo anticipo da Oriana Fallaci, scontro che invece potrebbe ancora essere evitato se l’Europa e l’occidente democratico si assumessero la responsabilità di guardare in faccia la realtà, senza infingimenti opportunistici e senza cercare di far credere che sarebbe disumano qualsiasi filtro efficace all’immigrazione islamica, filtro che non può comunque prescindere da un serio controllo delle frontiere.

Ciò che sarebbe veramente disumano è invece il non fare quanto è ancora nelle nostre possibilità per evitare che si verifichi uno scontro di civiltà di tale portata, che potrebbe coinvolgere milioni di persone e trasformare presto l’Europa in una grande Palestina insanguinata, come purtroppo ormai da tempo sembrano auspicare molti intellettuali nostrani. Appartenenti per lo più alle ultime leve della formazione marxista in vigore nelle accademie di tutto il mondo occidentale, costoro sono infatti di solito cronici nemici della liberaldemocrazia: orfani di un proletariato pauperizzato che pare aver ormai esaurito la sua funzione rivoluzionaria, ne cercano da decenni un sostituto all’altezza e sembrano averlo finalmente trovato nelle masse di migranti islamici che per anni sono stati fatti arrivare anche sulle nostre coste confidando nella loro capacità di destabilizzare le malvagie società capitalistiche destinate a ospitarle.

L’aver riposto la loro ultima speranza di rovesciare il tanto odiato «sistema capitalistico» - espressione che storicamente ha avuto successo soprattutto per la sua capacità di designare in modo sottilmente dispregiativo le società liberaldemocratiche - proprio nell’islamismo, utilizzando dunque quell’elemento religioso che Marx definiva «oppio dei popoli» al posto della «classe operaia», in contrasto a quanto prevedeva il «materialismo storico», costituisce un’acrobazia ideologica improvvida e cinica. Se questa sta probabilmente facendo rivoltare nella tomba l’autore di Das Kapital e suoi più fedeli amici e seguaci, non scoraggia tuttavia chi ha sostituito a un’analisi seria e profonda, per quanto errata negli snodi cruciali, della società capitalistica una sua versione residuale e strumentale, essenzialmente volta al conseguimento del potere a qualsiasi prezzo, anche a costo di stipulare alleanze strategiche con movimenti e gruppi politici a forte vocazione antisemita e nazista, seppur sventolanti le insegne dei più nobili e alti valori politici e sociali come specchietti per le nuove allodole, sostanzialmente reazionarie e benpensanti.