La fenomenologia della vocazione pro Hamas e la terza opzione di Netanyahu

 

Al contrario di quanto molti pensano sia nella comunità internazionale sia nello stesso Israele, dopo il 7 0ttobre 2023 Netanyahu non aveva probabilmente molte valide alternative a quanto sta facendo, a parte una, che però era difficilmente percorribile. Di certo, quella adottata ha provocato nell’opinione pubblica occidentale, in particolare tra i giovani e in certi ambienti universitari, una forma di adesione, talora implicita ma ancor più spesso esplicita, a narrative che giustificano o addirittura esaltano l'operato di organizzazioni come Hamas. Tale adesione non nasce tanto da una reale condivisione del progetto politico o religioso dell'organizzazione terrorista che ha a lungo preparato e poi realizzato l’eccidio e il rapimento di civili israeliani il 7 ottobre 2023, quanto da una propensione, ben radicata da decenni nella cultura della sinistra occidentale e in particolare europea, a schierarsi con coloro che sembrano più deboli, specialmente quando questi sembrano anche in grado di scardinare le fondamenta della democrazia liberale, ovvero di ciò che, sulla scia della tradizione del pensiero di derivazione marxista, viene solitamente definito “il sistema capitalistico”.

 Ma qual era l’unica soluzione che avrebbe forse potuto rivelarsi complessivamente migliore, cioè a un tempo e “più umana” e meno carica di effetti controproducenti di quella attuale?  Sebbene ci siano molte possibili perplessità e riserve che si possono avere sulla politica di Netanyahu prima del 7 ottobre 2023, e sebbene si possa persino avere l’impressione che abbia fatto tutto l’opposto di quello che sarebbe stato razionale e saggio fare, come cercare d’instaurare rapporti di costruttiva fiducia con l’autorità palestinese, avere un atteggiamento ben più intransigente con certi coloni israeliani in Cisgiordania, adottare più stringenti misure cautelari lungo il confine con Gaza, dopo il 7/10 le opzioni possibili a sua disposizione si restringevano sostanzialmente a tre soltanto.

La questione decisiva per individuarle, che bisognerebbe avere ancora oggi l’onestà intellettuale di porsi, può essere posta attraverso domande come le seguenti: “cosa avrebbe dovuto fare un qualsiasi capo di governo che si fosse trovato in una situazione analoga a quella del premier israeliano, a prescindere da eventuali errori commessi in passato e dalla lungimiranza o miopia della sua precedente politica? Come avrebbe dovuto reagire al ricatto capitale di Hamas, che intende usare il sangue palestinese, come suoi esponenti hanno esplicitamente ammesso, per giustificare il suo tentativo di sopprimere lo Stato ebraico?

Il non porsi domande come queste rischia di confinare qualsiasi analisi della situazione entro soluzioni demagogiche e ideologiche, probabilmente foriere di strategie che, invece di ridurre le proporzioni della tragedia in corso e il numero di vittime innocenti, correrebbero il serio rischio d’incrementarne le dimensioni in un futuro non remoto.   

Cercando di rispondere a queste domande non si possono che individuare tre tipi di soluzioni possibili: la prima è quella che Netanyahu sta in effetti portando avanti con costi umani e politici altissimi; la seconda sarebbe potuta consistere in una “reazione proporzionata”, una specie di “punizione ragionevole”, per poi risolversi ad intavolare un trattativa con Hamas con il fine di arrivare a uno scambio tra prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani; mentre la terza tipologia di reazione che si poteva scegliere di adottare consisteva nel “non reagire”, e cioè nell’accettare subito lo scambio tra prigionieri e ostaggi rafforzando immediatamente le protezioni lungo il confine violato e facendo conoscere, durante i mesi e gli anni successivi, l’entità e le modalità della strage compiuta di Hamas al fine, se non altro, di incoraggiare una maggiore solidarietà politica internazionale in caso di un ulteriore attacco futuro.

La prima risoluzione, quella attualmente in corso, sta comportando la peggiore forma d’isolamento internazionale in cui Israele sia mai incorso nella sua storia, ma sebbene possa condurre a una sconfitta politica dagli effetti difficilmente reversibili è anche in grado, una volta portata a termine, di togliere ad Hamas il controllo della striscia di Gaza. Sebbene delle tre sia quella destinata a fare il maggior numero di vittime tra i civili di Gaza, e sebbene essa configuri la peggior sconfitta politica e mediatica nella storia d’Israele, crea anche la possibilità oggettiva di non avere più quasi due milioni di persone ai propri confini nella piena disponibilità di un’organizzazione terrorista che ha come obiettivo fondamentale del proprio statuto la distruzione dello stesso Israele.

La seconda soluzione, che è poi quella che ancora oggi viene auspicata da molti governi occidentali e dalle Nazioni Unite, oltre a determinare comunque un elevato numero di vittime civili avrebbe anche comportato una vittoria sostanziale di Hamas e il persistere di una situazione di grande pericolo e crescente insicurezza per la popolazione israeliana.

La terza soluzione sarebbe stata invece quella che avrebbe fatto di gran lunga meno vittime innocenti evitando nel contempo d’indebolire drasticamente la posizione d’Israele nello scenario geopolitico internazionale, oltre ad essere la meno auspicata da Hamas, sebbene potesse assumere, di primo acchito, il sapore di una sua schiacciante vittoria. Certo, dato che lo scopo della strage del 7/10 era in fondo quello di costringere Israele a reagire per arrivare al suo isolamento politico, Hamas avrebbe fatto di tutto per evitare la sua attuazione, anche se, probabilmente, in questo caso, la sua cinica strategia sarebbe stata smascherata.

Calcolati tutti i pro e i contro politici ed etici, alla luce del minor numero di vittime che avrebbe implicato la soluzione migliore sarebbe stata, appunto, la terza, e cioè quella che prevedeva la “non reazione”, sebbene di certo non scongiurasse successive azioni terroristiche come quelle del 7/10. La sua adozione, infatti, oltre a evitare il quasi totale isolamento politico d’Israele, avrebbe almeno consentito di sperare che l’opinione pubblica internazionale e la maggior parte dei governi democratici avrebbero finito col giudicare non più tollerabili altri episodi del genere.

Certamente la seconda soluzione, quella della “reazione proporzionata”, quale era auspicata dalla maggior parte dei governi e delle forze politiche occidentali, invece non solo non avrebbe determinato la sottrazione ad Hamas del controllo di Gaza, ma sarebbe anche risultata alla fine una sorta di punizione, o di vendetta più o meno commisurata all’offesa, qualcosa del tipo “occhio per occhio dente per dente”, assecondando una logica che avrebbe comportato molte morti utili solo ad esasperare il risentimento antiebraico, rafforzando Hamas e continuando a lasciagli la piena disponibilità di Gaza.

Ma se alla luce di queste considerazioni la soluzione migliore, o almeno quella meno ricca di conseguenze negative, sarebbe stata la terza, questa conclusione non può esimerci dal porci un’altra domanda cruciale: quale capo di governo, di qualsiasi paese democratico, ovvero di un paese il cui parlamento fosse in condizione di sfiduciarlo, avrebbe potuto prendere questa decisione di “non reagire” senza essere costretto a rassegnare le dimissioni qualche giorno dopo?

Obiettivamente, è molto difficile immaginare un capo di governo di un paese democratico in grado d’intraprendere una simile strategia della “non reazione” senza pagarne a stretto giro le conseguenze politiche. L’unico che nella storia riuscì probabilmente a realizzare una strategia simile fu il generale Kutuzov, ma non era un politico, e poteva contare sulla fiducia quasi incondizionata di uno Zar plenipotenziario.

Realisticamente, non rimanevano dunque a Netanyahu che due strategie possibili: quella adottata attualmente e la seconda, cioè quella della “reazione proporzionata” oggi auspicata dall’Onu e dalla maggior parte dei governi occidentali, sebbene sia chiaro che l’adozione di questa opzione avrebbe come conseguenza inevitabile la permanenza di Hamas a Gaza e la possibilità per quest’organizzazione terroristica di tornare pienamente efficiente nel giro di pochi anni, ricreando rapidamente le circostanze idonee per programmare e attuare altri 7/10 anche in virtù dell’accresciuto odio che la reazione israeliana, ancorché “proporzionata”, avrebbe comunque provocato.

In quest’ipotesi, essendo accertata l’impossibilità di una trattativa seria che porti a una pace duratura tra lo Stato ebraico e Hamas, essenzialmente perché nessuno può fare la pace con chi continua ad avere come principale obiettivo quello di distruggerlo, Israele avrebbe dovuto rassegnarsi a vivere ancora a lungo in una costante situazione di guerra con un‘organizzazione militare e terroristica ai suoi confini, sempre meglio armata dall’Iran e ben finanziata da varie organizzazioni internazionali; ma non solo, poiché la rinuncia a liberare completamente Gaza dalla presenza di Hamas avrebbe significato che si era inteso infliggere una punizione che comportava comunque troppi morti con una finalità essenzialmente punitiva, tale soluzione avrebbe potuto condurre solo a un ulteriore inasprimento della situazione e a un accrescimento dell’odio antisemita senza nessun reale vantaggio per la ripresa di un realistico processo di pace.

Questo, viceversa, potrebbe essere rilanciato se, una volta tolto ad Hamas il pieno controllo di Gaza, nuove guide politiche sia in Israele sia presso l’ANP si sedessero ad un tavolo per riprendere a progettare insieme la coesistenza di due Stati che si riconoscano reciprocamente il diritto di esistere. Inutile nascondersi che, dopo quanto accaduto e ancora potrebbe accadere, una simile ripresa di un dialogo costruttivo sarebbe, almeno all’inizio, lenta e faticosa, ma è comunque l’unico sviluppo che è realistico sperare.

Quello che è certo, è che fino a quando Hamas sarà padrone di Gaza una pace duratura sarà impossibile, perché nessun Paese è in grado di addivenire a una pace con un’organizzazione politica che è nata ed esiste semplicemente per sopprimerlo, tanto più se per farlo usa in modo cinico i propri cittadini come scudi umani. Se infatti dopo il 7/10 c’è stato un “genocidio” – cosa che non c’è stata, sia perché si può parlare di “genocidio” solo quando lo scopo è quello di sterminare un popolo senza che le morti provocate siano motivate dall’esigenza di sconfiggere militarmente un nemico che risulterebbe altrimenti vittorioso, sia perché cercare di sterminare il popolo palestinese costituirebbe un proposito impossibile e suicidario, oltre che scellerato – tale “genocidio” sarebbe stato ordito e realizzato da Hamas, dato che le due possibili risposte non irrealistiche a disposizione del governo israeliano avrebbero comunque entrambe comportato - alla luce del fatto che si trattava di combattere contro dei terroristi mimetizzati tra i civili - migliaia di morti innocenti, che poi è in effetti lo scopo principale che Hamas si proponeva di conseguire con l’eccidio del 7/10, poiché aveva bisogno, come in diverse occasioni da suoi autorevoli rappresentanti compiutamente spiegato, proprio di quei morti per cercare d’isolare politicamente Israele.

A questo punto, è chiaro che la strategia di Hamas potrebbe non rivelarsi vincente solo nel caso che gli venga finalmente sottratto il pieno controllo sulla striscia di Gaza: qualsiasi altro esito comporterebbe infatti la sua sostanziale vittoria. Ma è altrettanto chiaro che la situazione che si è venuta a creare rischia di porre Israele per molti anni in una complicata e delicata posizione politica, avendo alimentato una vocazione antisemita rimasta a lungo latente e repressa in tutto l’occidente, specialmente tra chi ancora adotta i paradigmi teorici di confusa derivazione marxista-leninista che caratterizzano le posizioni assunte da certa sinistra tanto in Europa e quanto negli Stati U niti.

Questa “vocazione” affonda infatti le sue radici specialmente nel clima post-1968, quando la protesta contro l'Occidente imperialista e capitalista, e dunque anche contro i suoi simboli e valori di riferimento, ha prodotto un immaginario in cui ogni forma di resistenza a questo tipo di società è stata caricata di valori morali assoluti. Il “debole”, lo “sfruttato”, non importa se parte attiva o vittima di un sistema di potere totalitario e terrorista, è comunque dalla parte della ragione, così come qualsiasi efficace resistenza in grado di contrapporsi ai privilegi e alla logica del capitale.

In questo contesto culturale e sociale, Hamas viene facilmente ridotto a simbolo: non un’organizzazione fondamentalista, antisemita, teocratica e terroristica, ma un partito in grado di opporre una valida resistenza contro il regime capitalistico e contro l’imperialismo più o meno implicitamente inteso, alla maniera di Lenin, come l’ultima fase del capitalismo. La sua ideologia e i suoi crimini vengono ignorati o giustificati in nome di una causa più ampia, percepita come “lotta di liberazione”.

E qui interviene l’interazione di due fattori determinanti: il ruolo dei social network e il l’egemonia culturale conseguita in Occidente da chi adotta tali paradigmi dopo il movimento contestatario del 1968. I social network, amplificando ogni visione binaria, non tollerano infatti le ricostruzioni troppo complesse dei fatti e delle circostanze storiche e tendono a trasformare l’analisi della complessità in tradimenti virtuali di principi e valori considerati irrinunciabili. All’interno di questa logica comunicativa binaria essere pro-Palestina equivale in pratica, dato il pieno controllo che Hamas ha da almeno due decenni sulla popolazione di Gaza, a supportarne l’azione criminale e terrorista, e non perché si condivida la sharia, ma perché il contesto simbolico richiede comunque di fornire concrete prove di appartenenza mediante slogan coinvolgenti e prese di posizione intransigenti.

Il tipo di egemonia culturale che innesca questo processo non è interessata a prendere in esame la complessità storica, culturale e geopolitica del conflitto israelo-palestinese. Molti di coloro che manifestano nelle strade non conoscono la storia del conflitto arabo-israeliano, né la differenza tra Hamas e l’OLP o tra i vari governi israeliani. Quell’egemonia è infatti ancora fondata su una semplificazione rabberciata e fuorviante dei paradigmi teorici del marxismo-leninismo, per i quali in ogni conflitto ci sono oppressi e oppressori e ogni violenza dei primi è sempre giustificata in quanto segnale premonitore e forse definitivo delle contraddizioni e del tramonto del capitalismo.

Ciò è del resto in linea con le ragioni della crescita dell’antisemitismo dopo la seconda rivoluzione industriale e con la coeva progressiva internazionalizzazione del capitale finanziari: sulla scia di un “risentimento” sempre più sovraccarico d’invidia sociale si sono di volta in volta identificati gli ebrei con i ricchi, con i magnati, con gli oscuri burattinai delle “plutocrazie occidentali” (per usare un’espressione prediletta tanto dal fascismo quanto dal nazionalsocialismo, ma questo è in genere poco noto ai manifestanti), con i capitalisti sfruttatori della classe operaia e dei poveri in generale, per cui ancora oggi basta sentirsi, anche in buona fede, dalla parte dei poveri e degli sfruttati per nutrire sentimenti antisemiti e sentirsi in dovere di manifestare contro Israele e a favore di una Palestina in grado di “liberarsi” grazie alle eroiche imprese di Hamas.

Questo sentimento diffuso da tempo si è rafforzato proprio con la confluenza di un marxismo semplificato e sostanzialmente falsificato con un cristianesimo reso non meno semplicistico e accomodante, confluenza che ha reso possibile la trasformazione di un’autentica solidarietà con gli ultimi e gli oppressi nella vendicativa ricerca di capri espiatori e di comodi bersagli per la propria falsa sete di giustizia.

Questa visione riduzionista dimentica ciò che filosofi come Hannah Arendt avevano sottolineato: il male può essere banale, nascere dall'incapacità di pensare, dall'obbedienza cieca a ideologie semplificatrici. Nella sua lettura del totalitarismo la Arendt, ma è solo un esempio tra i molti che si potrebbero fare, invita a discernere l'azione politica autentica dalla pura violenza ideologica. Allo stesso modo, Norberto Bobbio ci ricorda che la distinzione tra democrazia e totalitarismo non sta nella bontà delle intenzioni, ma nei mezzi utilizzati e nei valori fondamentali — come la libertà, la dignità umana, il pluralismo — che non possono essere sacrificati in nome di un presunto bene futuro.

Dal punto di vista storico, l'idealizzazione del “resistente” ha radici profonde nel pensiero occidentale: dal mito del buon selvaggio di Rousseau al terzomondismo di Fanon, passando per le simpatie rivoluzionarie di Sartre. Ma ciò che oggi ne resta è spesso una caricatura: la figura dell'oppressore è fissa, così come quella dell'oppresso, in una ripetizione rituale che si disinteressa del contesto reale e dei dati di fatto. Questo processo è stato amplificato dalla frantumazione del sapere nelle istituzioni scolastiche e universitarie, dove la formazione critica ha ceduto il passo a quelli che Max Weber chiamava “specialisti senza cuore”, i quali sono poi inclini a ricercare una frettolosa caricatura di quel cuore in narrazioni identitarie e antagoniste.

Il risultato è un mondo simbolico in cui la critica razionale è vista come connivenza e l’analisi circostanziata come debolezza, ma soprattutto in cui pare vietato porre realmente in discussione i paradigmi post-1968 di partenza. Chi si permette di distinguere tra la causa palestinese e Hamas per poi constatare l’attuale subordinazione della prima alle azioni criminali del secondo viene escluso dal discorso dominante e tacciato di ambiguità o complicità. In questo contesto, aderire alla “causa” diventa anche un modo per trovare appartenenza, visibilità, approvazione, mentre la voce di chi cerca di mettersi nei panni di chi ha subito un attacco in pieno stile nazista come quello del 7/10 resta spesso isolata, senza supporto sociale, relegata a un’intellettualità senza comunità, bersaglio virtuale di un nuovo tipo di bullismo intellettuale e sociale che sembra aver eletto di nuovo l’antisemitismo a suo cuore pulsante.

La vera sfida, oggi, non è perciò soltanto quella di denunciare la manipolazione ideologica cui questa sorta di bullismo culturale e mediatico sta conferendo un grande slancio, ma anche quella di ricostruire in prospettiva un tessuto educativo e culturale che restituisca ai cittadini l’attitudine a non semplificare secondo una logica binaria e il coraggio intellettuale di procedere ad analisi non pregiudiziali di fenomeni storici estremamente complessi. E per conseguire questo fine servirebbe forse una pedagogia del dubbio, l’adozione di processi formativi che educhino a dipanare di volta in volta la matassa di ambivalenze, ipocrisie e contraddizioni che alimenta la disinformazione corrente senza cedere all’illusione salvifica di morali prefabbricate, in grado solo di strumentalizzare stragi o eccidi con la disinvoltura di chi attribuisce all’ultima causa efficiente in ordine di tempo la responsabilità delle tragedie in corso, dimostrando in questo una superficialità degna solo di un equipollente cinismo.