Il fascino indiscreto di "Non dire piacere"
Da quando è uscito nelle librerie italiane il libro di Sibilla della Gherardesca Non si dice <<piacere>> (Sperling & Kupfer editore, Milano, 2000, pp. 225) capita sempre più spesso di sentir ripetere da amici e conoscenti che sarebbe una buona abitudine non usare questa espressione quando ci si presenta o si è presentati a qualcuno, specialmente se si tratta di un colloquio di lavoro. Su alcuni social networks capita persino di leggere la testimonianza di molte persone che, avendo preso molto sul serio il suggerimento dell’autrice, dichiarano di essersi morse la lingua dopo aver usato tale espressione, o di essersi comunque rammaricati. Ma per quali ragioni essa dovrebbe essere esclusa dal novero di quelle previste dalla buona educazione? Su questo, non pare che siano in molti ad essersi interrogati, forse preferendo, visto che l’indicazione viene da una nobile fiorentina, prenderla per buona.
Il brano in cui l’autrice sostiene questa tesi – usando, come del resto in tutto il libro, un tono garbato, ancorché lievemente ironico e perentorio - è il seguente: dopo esservi presentati dicendo semplicemente il vostro nome e cognome, “chi vi è di fronte vi risponderà con un <<Buongiorno>> o un <<Buonasera>> seguito dal suo nome e cognome, e vi tenderà la mano. Eviterà però il classico <<Piacere>>, che, pur diffusissimo, sa molto di adulazione e indulge eccessivamente verso la piaggeria (parente lontana e degenerata della buona educazione), che sarebbe sempre meglio evitare. Anche se si tratta solo di formalità, il <<piacere>> di conoscere quella persona poi, in questa fase iniziale del rapporto, è ancora tutto da verificare e questa formula racchiude quindi spesso il massimo dell’insincerità. Dunque niente <<Piacere, dottor Rossi>> (troppo compiacente), ma nemmeno <<Onoratissimo>>, <<Fortunatissimo>>, <<Felicissimo>> (troppo entusiastici), e tanto meno <<Salve>> o <<Buondì>> (troppo informali e sbrigativi): è sufficiente e più diretto un bel <<Buongiorno, Mario Rossi, con un quasi impercettibile inchino della testa. Se invece è una terza persona a presentarvi, alzatevi (se per caso siete seduti), porgete la mano e accompagnate il tutto con un <<Buon giorno>>, aggiungendo magari anche <<Come sta?>>” (pp. 3-4).
A questo punto, l’autrice si raccomanda di non rispondere a quest’ultima domanda con frasi del tipo: “<<male, non ho chiuso occhio tutta la notte>>, che non fa parte del gioco, a meno che non conosciate già questa persona ed essendo in confidenza possiate quindi andare oltre il piano della formalità” (ivi, p. 4).
A parte il fatto che questo caso non si pone nemmeno, perché se così fosse non si tratterebbe di una <<presentazione>>, è interessante soffermarsi sull’argomento principale avanzato da Sibilla della Gherardesca: quello per cui il dire <<Piacere>> sarebbe un atto di “piaggeria” e un sintomo della massima “insincerità” in quanto, nella fase iniziale di un rapporto, non si può essere certi che il fare quella nuova conoscenza possa in effetti costituire un <<piacere>>, dato che, ripensandoci il giorno dopo, potremmo non considerarlo tale.
Il fatto che nella maggior parte delle lingue del mondo – come per esempio in inglese (Nice to meet you); in tedesco (Freut mich, dich kennenzulern); in francese (Enchanté) e in spagnolo (Encatado/a) – esistano espressioni che hanno un significato analogo dovrebbe però già farci venire qualche dubbio sulle ragioni che hanno ispirato l’autrice. In effetti, quando si usa una simile espressione – così come quando si dice <<Nice to meet you>> - non si vuole annunciare che all’indomani ricorderemo con piacere l’incontro con quella persona, né che ci impegniamo a farcene un’opinione positiva, ma solo che in quel preciso momento ci fa piacere fare la sua conoscenza. Si tratta cioè di un’espressione che rivela una disposizione d’animo positiva, che si ritiene cortese comunicare all’altro anche per favorire un buon avvio della conversazione. Nessun impegno, quindi, nessuna piaggeria e nessuna ipocrisia, sebbene sia possibile usare tale espressione anche in assenza di uno stato d’animo corrispondente a quanto intende comunicare. Essa palesa solo la disposizione favorevole del momento, una certa curiosità e magari il desiderio di avviare un cordiale scambio d’idee. Non solo non c’è nulla che possa indurre ad escluderla dal novero delle buone maniere, ma, anzi, essa rivela uno stato d’animo antico quanto il mondo, nonché propizio all’instaurazione di buoni e amichevoli rapporti sin dal primo momento.
L’argomentazione dell’autrice non è del resto esente da alcuni riflessi abbastanza comici e paradossali. Per esempio, l’indicazione di presentarsi con un semplice <<Buon giorno, come sta?>> potrebbe innescare una risposta insidiosa - specialmente alla luce del menzionato parametro sincerità/insincerità - come per esempio quella da lei stessa ventilata: “<<Male, non ho chiuso occhio tutta la notte>>”. Si tratterebbe, in effetti, di una risposta che non sta alle regole del gioco, ma sarebbe senza dubbio, se fosse vero, una risposta sincera. Ma di fronte a una domanda di questo genere (<<Come sta?>>) da parte di una persona appena conosciuta potrebbe anche venir voglia di rispondere: <<Bene, grazie, ma a lei cosa gliene importa?>>. Certo, sarebbe una risposta maleducata, ma avrebbe almeno il merito di rivelare una certa indelicatezza della domanda, visto che non siamo diventati ancora assidui frequentatori reciproci.
Il dire semplicemente <<Buongiorno>>, poi, sarebbe il segno d’un approccio generico e di uno scarso interesse specifico, dato che lo stesso augurio può essere rivolto anche a persone che si conoscono già da tempo e verso le quali non si nutre una spiccata simpatia: in questo caso, inoltre, tale espressione non risulterebbe in potenza meno insincera di quell’incriminato <<Piacere>>.
Nel libro in questione si esiliano dall’albo delle buone maniere anche tante altre locuzioni di uso comune, con argomenti che non solo non risultano più felici, ma che costituiscono indizi piuttosto inquietanti di una visione alquanto asfittica delle relazioni umane. Il dire <<Buon appetito>> all’inizio di un pasto è, per esempio, considerato “poco elegante: una volta che tutti sono serviti, basta un sorriso ai propri vicini di tavola. Per essere sicuri di poter iniziare a mangiare dovete solo sincerarvi che tutti siano stati serviti e che le signore abbiano iniziato, oppure, in mancanza di signore al vostro tavolo, che l’abbia fatto l’ospite più importante” (ivi, p. 169). La scena, piuttosto divertente, che potrebbe seguirne se questa indicazione fosse presa alla lettera potrebbe essere la seguente: tutti i commensali, a un certo punto, cominciano a sorridere ai propri vicini, dando luogo ad una catena di sorrisi poco motivati. Qualcuno, poi, in assenza di signore, potrebbe assumere un’espressione particolarmente preoccupata e concentrata nel tentativo di stabilire chi sia la persona più importante al proprio tavolo. Se si trattasse di nobili (ai più non capita di frequente di averli come ospiti a cena) potrebbe essere facile individuarla, ma se fossero semplici borghesi? Forse l’avvocato tal dei tali dovrebbe essere considerato più importante dell’ingegnere tal dei tal altri? Chi dovesse trovarsi in questa situazione imbarazzante potrebbe decidere di aspettare che qualcuno inizi a mangiare, perché colui che si auto-autorizzasse a farlo potrebbe essere il “più importante” tra i commensali, ma anche in questo caso può sorgere il dubbio che si tratti di un segno di auto-sopravvalutazione, per cui, per fare le cose fatte bene, sarebbe molto meglio aspettare ancora, pur correndo così il rischio che, al sommo della buona educazione, nessuno incominci per un bel po’, facendo registrare una diffusa esitazione ancor più imbarazzante.
Eppure, il dire <<Buon appetito>> è un bell’augurio e un bell’inizio per un pasto: significa auspicare implicitamente che tutti godano della buona salute che è necessaria per avere, appunto, un buon appetito, ma anche augurare a tutti i partecipanti al desco di sapersi godere i piaceri della vita, i quali, d’altra parte, non dovrebbero mai essere disprezzati, specialmente quando possono essere condivisi e il goderne non reca nocumento ad altri.
Dopo la pubblicazione di questo libro – che è uscito in libreria circa tredici anni fa – dobbiamo dunque, a quanto pare, fare a meno di troppo espliciti riferimenti a piaceri sensoriali e a espressioni in grado di evocare spontanei moti dell’anima, che possiamo tuttavia sostituire con flebili sorrisi mentre ripassiamo frettolosamente le gerarchie d’importanza delle persone che siedono al nostro tavolo, per poi iniziare a mangiare in un algido silenzio, con la recondita preoccupazione che un frammento d’insalata o di un ripieno di spinaci ci rimanga sovra-esposto indebitamente sopra il bianco di un dente, il che dovrebbe indurci, se non riusciamo a rimuoverlo in fretta e in gran segreto, a evitare di sorridere per il resto della serata (cfr., ivi, p. 172), col rischio che gli astanti ci trovino noiosi o torvamente depressi. Naturalmente, si può sempre sperare che anche gli altri siano afflitti dalle stessa cattiva sorte e che, non sorridendo più nessuno e mettendosi ognuno nei panni altrui, alla fine possiamo risultare almeno solidali, e ritenerci virtualmente tutti abbastanza allegri da poterci vicendevolmente attribuire la capacità di divertirci un mondo in un’altra vita e ad un’altra mensa, dove un moto d’animo che traspaia da una frase o una macchia verde che faccia capolino da un sorriso non possano mettere a repentaglio la nostra onorabilità e le nostre buone maniere.