Fabrizio Puccinelli e le radici del raccontare
In alcuni di questi racconti di Fabrizio Puccinelli (Il Ritorno, Aracne editrice, Roma, 2014) c’è il piacere di un raccontare antico, per certi versi ancora ottocentesco, che scivola nell’animo dei personaggi e li accompagna come una postuma rivisitazione della loro esistenza, fino a produrre il rendiconto di un destino, di una sorte immacolata, di un’esistenza comunque integra e trasparente. In altri, per lo più successivi, chi narra si fa testimone defilato di novecentesche esasperazioni od ossessioni, d’impasse che hanno risonanze kafkiane o beckettiane (come ha messo ben in evidenza Franco Petroni nella prefazione al volume), ch’emanano un senso d’oscura prigionia, di un arcano isolamento che si sublima però in una solitudine accettata che non rinuncia mai a cercare di cogliere al volo la vita di passaggio, a provare il gusto di trasfigurarla in virtù di un’indole narrativa pacificata e sincera, scevra d’ogni sorta di arroganza o pretesa verso l’esistenza. Questi diversi scenari e questi modi di narrare, sempre aderenti a un universo interiore che si sprigiona dai personaggi all’unisono con quello dello stesso narratore, non sono mai forzati, non accondiscendono ad artifici o invenzioni. Anzi, si potrebbe dire che nella prosa di Puccinelli nulla sembra mai inventato, creato da chi racconta, ma che tutto, ogni piega che la vita ha voluto assumere su di sé, ogni gioia terrena e ogni dolore, è stato trovato, accolto e assaporato senza fatica, in una maniera naturale, senza rimpianti e spesso con un’implicita e spontanea consapevolezza filosofica.
Il neorealismo di Puccinelli non sfocia però mai nel naturalismo, lo sguardo dei personaggi sul mondo è sempre al centro, fedelmente raccolto, riflesso e irradiato dalla narrazione. I fatti e le circostanze della guerra e del secondo dopoguerra, come altri ancora successivi, contano quel che devono contare, sono importanti non più di tanti altri mai da alcuno registrati: son quel che sono solo dentro quello sguardo, dentro lo specifico sentimento della vita che scandiscono. Non sono mai loro a decidere, a determinare. Se ne stanno quieti sullo sfondo, dove sono nati, si ripercuotono sul futuro senza implicarlo e sembrano produrre piuttosto un’eco, il riverbero d’un suono o di un rumore famigliare, quasi avessero già iscritto nella loro origine il compito di permettere a quello sguardo che il narratore raccoglie di nascere come da un nulla, di germogliare per una sua inerzia nell’interno celata, come una pianta, come gli alberi che sul limitare di un bosco stormiscono alla fine dell’estate per annunciare l’inverno, come il profumo dell’erba bagnata o quello della legna che brucia in un camino.
La nostalgia che alcuni di tali personaggi provano per il passato – in particolare di Simona, la narratrice in La Raccolta – non si trasforma in recriminazione verso il presente, nel rifiuto di assecondare in qualche modo lo scorrere del tempo. I suoi ricordi si fondono con le impressioni più vive dell’ora e la melanconia traspare dal paesaggio delle prime colline apuane nelle solitudini di una campagna ombrosa. La fatica del lavoro è accennata, suggerita, talora con parsimonia enumerata. L’anima di Simona pare esente da qualsiasi sorta di enfasi: pare sapere bene, forse ancor di più di altri personaggi di queste storie, che la vita non cerca alibi e non può trovarne, che tutto l’essenziale accade semplicemente, senza intenzione di alcun Dio, o per quella di un Dio che coincide con la vita stessa.
In un altro racconto (Marì, un bambino e le radici del raccontare) l’origine della vocazione a raccontare viene individuata nel vuoto che si sente intorno, nella mancanza delle persone, nel nulla che sente ognuno che scrive, sul quale si stagliano le immagini e che “chiede di essere popolato da personaggi, situazioni, storie”. Così il narratore dice di aver iniziato a scrivere in certi pomeriggi in cui la luce finiva, lasciando cadere parole su un foglio di carta, accompagnato dal rumore della pioggia o da un albero mosso dal vento, dal grido di un uccello o dai passi di sua madre sulle scale. I dialoghi con suo padre gli fornirono poi le coordinate per meglio orientarsi in questo mare: in questo secolo – diceva al figlio – la letteratura civetta con la sociologia e con le scienze e tende a riempirsi di molte cose che letteratura non sono, perdendo i contatti con la narrazione orale, con l’eco di un raccontare più lontano, più organico e non meccanico, con la cerimonia e il rituale, e ciò perché è “morto e rescisso alla base il fatto sacro e quotidiano su cui il narrare si fondava”.
Dopo che aveva parlato con suo padre qualcosa rimaneva lì seduto, come un angelo dietro le sue spalle, mentre lui, davanti a quei fogli bianchi, si accingeva a ritrovare lo stupore che provava da bambino di poter significare, ora attraverso lo scrivere, qualcosa che gli era sconosciuto.
Come da bambino anche ora si faceva domande e si dava risposte: il mondo – dice il narratore de La Cripta – era sempre lo stesso, anche se ogni tanto qualcosa sembrava sparire. La conoscenza dipendeva dalle domande che uno si faceva, come Gotamo, il Buddho, aveva mostrato. Così il bambino rievocato in questo racconto si rigirava di notte sotto le coperte, ragionava, approfondiva, cercava le domande giuste.
I personaggi di questi racconti di Puccinelli hanno in effetti spesso il desiderio di capire, non sono mai indifferenti all’esigenza di farsi una ragione, ma questa non diventa mai un’ossessione, sebbene il domandare continui a interrogare il passato e si ostini a volerlo interpretare. Passarono gli anni e il narratore de La Cripta imparò a starsene riparato: faceva le sue cose, si accudiva. Aveva voglia d’inseguire una donna e ogni tanto in effetti la inseguiva per i boschi, dove stava nascosto il matto di cui si sentiva parlare, che quei boschi fortificava e rendeva in qualche modo più arcani.
In Fabulator qualis humanus il narratore ogni tanto traduce qualche frase in latino, tra parentesi, per dare retroterra temporale, per arcaizzare e prolungare il respiro, ma lo fa in modo anche qui del tutto naturale, senza sentore di artificio. Si commisura alla grande macchina dell’istituzione, del mondo presente, che procede implacabile per conto suo, assumendo anche lavoratori come lui, forse per infondergli coraggio a continuare e partecipare. Frequentava allora “l’archivio generale delle cose scritte” e si rammaricava di non poter scrivere cose grandi come nel passato. Ma perché poi scrivere? “A qual fine? Cos’è esso stesso, il racconto (fabula)?”.
Capita di guardarsi intorno, di fare attenzione alle cose che vediamo: “ad esempio il sole va sotto o un albero si muove al vento o dei bambini si chiamano nell’ombra che scende prolungando i loro giochi nella sera. Accade che vediamo tutto in un altro modo (ut ab alio oculo propterea visio). Par già di essere stati lì, o di essere in un altro tempo. Prende una specie di angoscia. Prende la fretta di tornare ai nostri compiti. Si vuole andar via. Ma non dimentichiamo che è proprio allora che si intuisce il mondo della narrazione, ci si sente sospesi in un vuoto, fatti accaduti tornano alla mente e la nostra infanzia e l’amore; e ci si ricorda. È allora che scendono su di noi gli uccelli fatati della quiete e cercano l’uovo delle storie”.
Queste prose raccolte ne Il Ritorno (dal titolo del primo dei racconti) furono apprezzate da scrittori e critici quali, tra gli altri, Pasolini (che annoverò Il Supplente tra i romanzi più pregevoli della generazione di Puccinelli), Tobino, Mariotti, Pannunzio, Cancogni, e furono pubblicate per la prima volta in riviste quali Il Mondo, La fiera letteraria, Nuovi argomenti. Se ne può tuttavia ricavare un ritratto umano del suo autore in misura solo parziale, perché Puccinelli era anche altro. La sera in cui ebbi l’occasione di conoscerlo, ad un cena di amici, parlò quasi sempre lui, anche al cospetto di conversatori indefessi che rimasero a lungo ad ascoltarlo un po’ a bocca aperta, e lo fece inframezzando i suoi racconti e le sue riflessioni con aperte risate o fugaci espressioni assenti. Disse - ricordo, tra l’altro - che stava leggendo L’enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, e che tale lettura gli serviva per “strutturarsi”. Il suo senso dell’ironia e del paradosso erano spiccati e facevano da contrasto con la malinconia che lo attraversava come un balsamo quando scriveva. Gli piaceva dare un nome alle cose e ascoltare quel nome ritornagli in mente come nuovo quando era immerso nelle pagine di un libro, scritto da lui o da altri. Poiché non voleva sembrare null’altro da quel che era, dissimulava, e a volte sembrava che giocasse con il pensiero, che era tuttavia per lui una cosa molto seria. Ne ho bel ricordo, e allegro, e provo ancora gratitudine rileggendolo.
Fabrizio Puccinelli, Il Ritorno, Aracne editrice, Roma, 2014.