Spensierarsi... come una pietruzza insignificante
Un’apertura sul pensiero di Raimon Panikkar e sull’ethos dell’infinitamente accanto.
Ciò che si sbriciola si sbriciola, ma non può essere distrutto (Franz Kafka).
Che cos’è la vita individuale? Una goccia d’acqua. E l’eternità? Lo sciogliersi di quella goccia d’acqua, lo straripare dai suoi temporanei limiti, la sua dissoluzione nel tempo e nello spazio. Paulo Barone – filosofo, psichiatra e psicoanalista di formazione junghiana - ci offre un ampio resoconto di questa metafora riproposta da Raimon Panikkar, teologo e filosofo tra i più originali del Novecento che, come racconta di sé, partì cristiano per l’India nel 1954, si ritrovò hindu e ritornò buddista senza aver per questo mai cessato di essere cristiano.
Quella della goccia d’acqua è una metafora presente in molte tradizioni religiose, orientali e occidentali, e nella versione di Pannikar, riportataci da Barone, recita così: “Noi siamo gocce d’acqua. Che cosa ne è della goccia d’acqua quando muoio? La goccia scompare. Cade nel pélago infinito. Scompari? Ma cosa sei tu, in realtà, la goccia d’acqua oppure l’acqua della goccia? Durante la nostra vita mortale, noi dobbiamo realizzarci come acqua, e non soltanto come goccia. La goccia è il luogo delle mie lotte, delle mie cadute e delle mie vittorie – di tutto ciò che mi causa gioia e sofferenza in forma immediata. Ma se mi realizzo in maniera autentica, se sono all’ascolto della realtà che sono in profondità, io sono acqua. Che cosa accade dell’acqua quando la goccia cessa di esistere? Niente. Essa non cessa di essere quello che è. La goccia cade nel mare, ma l’acqua tuttavia non scompare. Quest’acqua, certo, non posso più differenziarla dall’esterno; ma, vissuta dal di dentro, se così posso dire, quest’acqua non cessa di essere acqua – la ‘mia’ acqua, l’acqua che io sono. Quest’acqua è unica. Nessun pericolo può dissolvermi. È qui il mistero della personalità, che non va confusa con l’individualità”.
Questa metafora – chiosa e spiega Barone – “esemplifica magistralmente l’onnipresente qualità advaita, a-dualistica, della posizione panikkariana”. Posizione a-dualistica, appunto, come in ogni mistica che si rispetti, perché il teologo e filosofo in questione è anche un mistico, o perlomeno condivide con la mistica la tensione verso l’unità, la semplicità e la perspicuità della “spiegazione” e del “significato” dell’esistenza. Come in molti mistici, la sua fede ha un alone ateo: essendo stato, in gioventù, anche un chimico, egli immagina che Dio possa sublimarsi, ovvero che Dio, “inteso come Altro, come Sostanza permanente, come Fondamento di tutto, o, meglio, come lo Stabile, il Solido, l’Essere, si sublima, si volatilizza, passa allo stato gassoso”. Alla fine di una simile processo il nostro tempo potrebbe risultare vaporizzato e trasfigurato in una dimensione a-cosmica, a-tea e a-soggettiva, come nel silenzio del Buddha e nel dharma induista. In questo senso, anche il cristianesimo si ritroverebbe “connesso con - almeno - queste due tradizioni orientali”, e ciò senza subire, secondo Panikkar, alcun travisamento da un simile processo “chimico”, perché a ben vedere – osserva Barone - esso è solo l’eco della stessa kenosis cristiana, di quel “processo di ‘svuotamento’, di ‘spoliazione’ divina che porta il Cristo ad incarnarsi”.
Per questo la ricostruzione del nostro presente operata da Panikkar può essere definita kenotica: perché concerne la storia “del ‘non essere’ di Dio (dell’Io e del Cosmo), che più si nebulizza e più si ritrova, a differenza di quella, ormai disperante, del Dio dell’essere e del pensiero, che vive il passaggio allo stato gassoso come il risultato di un’esplosione nucleare”. Come per il buddismo, l’essere può tornare così a farsi verbo transitivo e ritrovare la propria consistenza transeunte. Grazie all’incessante nebulizzazione della propria unità sostanziale l’essere si manifesta come dissoluzione di tutto ciò che siamo e con cui ci identifichiamo, fino all’illuminazione finale, in cui risulta evidente che non è possibile distinguerci da alcunché e non possiamo differenziarci dal nulla, se non come catalizzatori passeggeri e sospesi del flusso d’essere che ad ogni istante ci attraversa. Si tratta di quella esperienza che ha poi disegnato un sorriso permanente sul volto del Buddha, quello stesso sorriso che può essere prodotto dallo spensierarsi, dalla macchina per cinguettare immaginata da Paul Klee, dall’avvento di una coscienza involontaria e a-intenzionale che ha rinunciato per sempre a produrre visioni esclusive di essenze privilegiate, “di un sapere supremo e perenne”.
Spensierandosi è possibile ritrovarsi “circondati dalle cose di sempre, sbalzate però dal loro contesto ordinario quel tanto che basta da richiamare ancora una volta la nostra attenzione”; è possibile cioè calarsi in un nuovo “ethos dell’infinitamente accanto”, in cui potremo imparare – come Proust suggeriva - ad arrestare il nostro flusso verbale, la catena significante che ci percuote e ci pervade, per usare la parola “come una conchiglia di mare cui appoggiare l’orecchio”. L’esperienza del bianco abbacinante dell’India sembra sovrapporsi – tanto per Panikkar quanto per Barone - all’Essere quale è stato concepito nella tradizione del pensiero metafisico occidentale, e la metafora del punto può prendere il posto di quella più nota di Parmenide, secondo il quale l’Essere sarebbe “la sfera della ben rotonda verità”.
A evocare questa sovrapposizione è una circostanza apparentemente marginale, in cui venne a trovarsi lo stesso Paulo Barone a Benares: in una giornata di pioggia, riparato sotto una pensilina, scorge un uomo indaffarato a raccogliere con pazienza delle “pietruzze grigie assolutamente anonime”, controllandole una per una sotto l’acqua scrosciante: “in posizione accovacciata, senza frenesia ma ben concentrato nell’operazione, le saggia, le tasta, se le rigira tra le mani, qualcuna ne scarta, e poi se le mette in uno straccio con l’intenzione evidente di portarsele via”. Quel mucchietto di pietre raccolte nello straccio diviene per l’autore l’incarnazione di tutti gli eventi, delle storie e dei pensieri presenti nel mondo “sotto forma del poco, dell’insignificante. Un insieme povero, ma non ulteriormente riducibile; anzi, a dire il vero, dotato di sicura consistenza”, e in grado di evocare l’evanescenza di ogni punto insieme alla pienezza fugace dell’Essere, quasi a ricordarci che, se il punto, nell’indefinibilità della sua dimensione, esiste, allora anche Dio, in un senso non dissimile, esiste.
“Ciò che si sbriciola si sbriciola – scrive Kafka – ma non può essere distrutto”. L’insignificante, così come le “briciole” di cui parla Kafka, si rivela altrettanto indistruttibile, ma la sua fievole luce è in grado di segnalare un’uscita dalla catena karmica, che è anche, e non per via accessoria, una catena significante, una catena di ombre che scandisce il tempo di ogni esistenza individuale, di ogni bìos. L’amore e la cura per l’insignificante costituisce invece l’indizio di una possibile dispersione nella zoè, nella vita che continua, nell’acqua della stessa goccia che si disperde, perché, come scrive Panikkar, “si vive questa vita nella misura in cui si va morendo a questo sé-stesso che non sono io-stesso”.
Paulo Barone, Spensierarsi. Raimon Panikkar e la macchina per cinguettare, Diabasis, Reggio Emilia, 2007.