L'orario dei treni? Un capolavoro
L’opera narrativa di Danilo Kis, scrittore e saggista jugoslavo, è strettamente aderente alla tradizione letteraria mitteleuropea. Kafka, Rilke, Walzer, Canetti traspaiono dalle pagine dei suoi romanzi, tra i quali “Giardino, Cenere” (Adelphi, pp. 187) è forse il più famoso.
Si tratta di un’opera prevalentemente autobiografica la cui trama non è particolarmente importante: il narratore, Andreas, ricorda i personaggi principali della sua infanzia trascorsa nella provincia jugoslava durante l’ultima guerra: una sorella inquieta, la madre comprensiva e sapiente, e, su tutti, il padre periodicamente folle, incombente ed arcano. Il racconto delle gesta inconsulte di tale padre, che probabilmente sarebbe stato accolto da Kafka come una liberazione, è svolto con una cadenza a tratti proustiana, con un abbandono narrativo degno di Walzer ma senza la gigioneria intellettualistica propria di alcune parti dell’opera di Canetti che pur sembrano aver influenzato l’autore.
Giocatore di scacchi, trafficante, arringatore instancabile, il padre, un ex ferroviere, lavora alla stesura di un trattato dai risvolti metafisici, un improbabile “Orario delle comunicazioni tranviarie, navali, ferroviarie ed aeree”, opera che dovrebbe costituire una sintesi dei suoi motivi di disappunto nei riguardi del mondo. Sulla figura dei padre si posa la curiosa pietà del bambino Andreas, la sua assidua riserva di comprensione ed il suo inconscio desiderio di un modello di ardore.
Misterioso viandante dei boschi, dove agitando il bastone intrattiene la natura recitando i salmi, Eduard, così si chiama questo padre spinoziano ed anarchico, è sospettato dalle beghine del paese di essere una spia occidentale che s’isola per trasmettere segreti messaggi all’aviazione alleata. Il suo vizio prevalente, lo scomparire, ad ogni autunno, senza un motivo plausibile, si rafforza col tempo. Ai suoi lascia ogni volta i soffusi aloni della sue presenza residua: colletti e polsini ingialliti dal fumo delle sigarette, redingote lise, i resti di fango delle sue passeggiate. Solo per metà reale, per altra metà ombra e vaticinio, soggiace progressivamente al suo ruolo di vittima invasata ed egotica. La moglie è la mite rassettatrice delle sue imprese irridenti, il luogo dove può appuntarsi il desiderio di Andreas di penetrare il segreto paterno, la memoria della dissoluzione che la sua assenza getta sulle cose. Il bambino giocherà a lungo con lei davanti a vecchie fotografie, di nascosto alla sorella irriverente, riordinandole ogni volta dopo l’ennesima scomparsa, fino a quella definitiva. Allora Andreas vedrà i variopinti gomitoli di lana del lavoro a maglia di sua madre rotolarle dal grembo sul pavimento e lì inseguirsi con brevi scatti felini, come animati da un’ultima volontà di stupire. Eduard, dovunque si trovi, non potrà comunque cessare di opporsi grottescamente al senso di vanità che si sprigiona dalle cose e continuerà così a sfidare la desolazione con l’alterco, pregando con indignazione e ferocia, sterile prodigio di ribellione e di magniloquente disinganno.
Danilo Kis, Giardino, Cenere, Adelphi, pp. 187.