La vocazione di chi pensa senza esistere? Non scrivere!
La letteratura del <<No>> e il fantasma dell’inazione.
L’idea di scrivere un libro su Bartleby e i suoi ideali compagni di viaggio nella storia della letteratura nacque nella fantasia di Enrique Vila-Matas un martedì in ufficio, quando a un certo punto ebbe l’impressione che la segretaria del capo dicesse al telefono: “Il signor Bartleby è in riunione”. Poiché gli risultò difficile immaginare Bartleby in riunione con qualcuno, “immerso nell’atmosfera tesa di un consiglio d’amministrazione”, al solo pensiero si mise a ridere da solo.
Sul tema della sindrome di Bartleby – scrive Vila-Matas - “ci sono due racconti fondamentali, inventori oltretutto della sindrome e della sua possibile poetica. Si tratta di Wakefield di Nathaniel Hawthorne e Bartleby lo scrivano di Herman Melville. In questi due racconti compaiono delle rinunce (alla vita coniugale nel primo, e alla vita in generale nel secondo), e, sebbene tali rinunce non siano in rapporto con la letteratura, il comportamento dei protagonisti prefigura i futuri libri fantasma e altri ripudi della scrittura che non tardarono poi a inondare la scena letteraria”.
Bartleby non è però solo il precursore di un determinato atteggiamento resistente o sfuggente verso la vita, ma anche uno dei fondatori della letteratura del <<No>>, cioè un personaggio che prelude a tutti quegli scrittori che a un certo punto della vita si sono rifiutati di scrivere. Alcuni, come per esempio Robert Walser, lo fecero probabilmente perché, considerandosi delle nullità, volevano essere dimenticati, dato che il presumere di non esserlo poteva distrarli dall’abbandonarsi completamente alle loro attività preferite, come il contemplare “le case illuminate del sole e le bandiere ondeggianti al vento”. In altre parole, Walser voleva essere una nullità per potersi dedicare alle vanità dell’esistenza, e in questo aveva qualche affinità con Fernando Pessoa, il quale arrivò a considerarsi una nullità al punto “che una volta, mentre gettava per terra la carta stagnola di un cioccolatino, disse che così, in quel modo, aveva buttato via la sua vita”.
In realtà entrambi scrissero, e non poco. In effetti, nella storia della letteratura, la rinuncia alla scrittura - che può, come suggerisce Vila-Matas “rappresentare una modalità per rendersi invisibili e percepire il nulla che ci pervade e in cui in definitiva si consiste” - non può essere ricondotta a Bartleby. Il personaggio di Melville non può essere considerato come il fondatore o il precursore della letteratura del <<No>> sia perché non manifestò mai chiaramente il proposito di scrivere qualcosa di letterario sia perché un primo caso esemplare del rifiuto di scrivere, quando lui nacque nel racconto di Melville, c’era già. La scelta di non scrivere da parte di Socrate era infatti già nota da tempo, anche perché l’inventore della maieutica non mancò di giustificarla in termini filosofici lasciando tracce consistenti delle sue motivazioni. Ciò nonostante, è pur vero che Bartleby sembra costituire l’antenato ideale, il padre putativo e l’ispiratore di tante altre figure, di scrittori o personaggi che verso il <<No>> manifestarono una spiccata inclinazione.
Ci si può accostare all’esperienza del <<No>> in modi diversi: mentre alcuni, come Bartleby, sembrano ritrarsi con discrezione da qualsiasi partecipazione attiva alla vita, e quindi anche dallo scrivere, altri cercano di trasformarsi nel proprio sogno per viverlo, rinunciando comunque per questo a scrivere. Ad esempio, “Petronio rinunciò per sempre alla scrittura dal preciso momento in cui cominciò a vivere la vita che aveva immaginato”, azzardandosi a vivere quel che aveva scritto, Rimbaud abbandonò la scrittura per intraprendere una vita totalmente diversa da quella che con la scrittura aveva suggerito di desiderare.
Qualcuno trovò poi un modo per trasfigurarsi ancor più radicale, arrivando a considerarsi solo come “una voce scritta, senza quasi vita privata o pubblica”, una voce capace di scagliare parole evocative “dell’ombra di Bartleby sulle letterature contemporanee”. Così il QuasiWatt beckettiano non si proponeva di risvegliare passioni di sorta ed era solo una voce che rivelava l’inconsistenza di chi la emetteva. Lasciava dire le sue parole, che poi sue non erano, e che dicevano invano tutto quel che dicevano. Nella vita di QuasiWatt, infatti, ci furono solo tre cose: l’impossibilità di scrivere, la possibilità di farlo, e la propria solitudine, o forse il proprio smarrimento.
Del resto, i personaggi di Beckett sono maestri nell’arte di smarrirsi, e lo smarrirsi nelle proprie parole, che <<proprie>> non sono mai, ne costituisce un caso limite esemplare. Ma nell’arte dello smarrirsi in generale, dello smarrirsi per così dire <<esistenziale>>, in questa Beckett non è stato il primo: un simile primato pare infatti debba essere riconosciuto, secondo Vila-Matas, a Joseph Joubert, che, appunto, “conobbe la felicità nell’arte di smarrirsi, della quale fu probabilmente il fondatore”.
A Bartleby possono essere ricondotte però anche altre sindromi, come per esempio quella che consiste nell’essere colti da un dubbio repentino e annichilente su tutta la propria esistenza o sulla propria produzione scientifica o letteraria. Anche chi ha prodotto ponderosi volumi di fini meditazioni sugli argomenti più svariati ne può essere afflitto, finendo così con l’alludere involontariamente alla lungimiranza di Bartleby. Un caso esemplare fu quello di György Lukács, al quale un giorno capitò, dopo aver ascoltato una sequela di elogi della propria opera da parte dei suoi discepoli, di manifestare il suo disagio con il seguente commento: “Sì, sì, ma ora capisco di non aver compreso l’essenziale”. “E che cos’è l’essenziale?” gli domandarono i discepoli sorpresi. Al che lui rispose: “Il problema è che non lo so”.
Ancora oggi la letteratura ci “permette di riscattare dall’oblio tutto ciò su cui lo sguardo contemporaneo, sempre più immorale, pretende di scivolare con la più assoluta indifferenza”. E ancora oggi probabilmente si scrive, in fin dei conti, semplicemente per trovare qualcuno che ascolti, un grande orecchio, l’ascoltatore assoluto, il grande padiglione-specchio in grado di depurare ogni pensiero in ogni istante. Melville ipotizzò che un simile ascoltatore potesse essere meglio evocato da un personaggio che, oltre a rinunciare a scrivere, praticasse assiduamente e con gentilezza l’esercizio del silenzio e del rifiuto.
Ma un risultato per certi simile può essere conseguito anche tramite una sorta di frammentazione dell’io, frantumando la propria presunta personalità nella sua eco polifonica. Per creare un tale effetto bisogna cioè scomporre la propria identità nelle sue venature, il che impone di dar vita a diverse figure e a diverse voci che siano in grado di produrre un’eco variegata e composita. Alcuni degli autori che hanno intrapreso questa strada hanno palesato la loro spiccata vocazione filosofica negando l’univocità della propria identità: basti pensare, tanto per fare alcuni esempi, a Kierkegaard, a Pessoa o ad Antonio Machado.
Tali identità possono anche acquisire consistenze apparentemente non umane, come nello scarafaggio delle Metamorfosi, sul quale aleggia il fantasma dell’inazione, dell’immobilità e dell’inutilità. La presenza assidua di quel fantasma nella vita di Kafka è attestata in particolare in una pagina dei Diari, in cui descrive come, durante una domenica piovosa, scopra di essere prigioniero del Male, di essere cioè, in certo modo, attraversato dalla sindrome di Bartleby: “così mi scorre tranquilla la domenica, così scorre la domenica piovosa. Sto seduto in camera da letto e dispongo di silenzio, ma al posto di decidermi a scrivere, attività nella quale l’altro ieri, ad esempio, avrei voluto immergermi con tutto me stesso, ora sono rimasto a lungo a fissare le mie dita. Credo di essere stato totalmente influenzato da Goethe questa settimana, credo di aver appena esaurito il vigore di tale influsso e pertanto di essere diventato inutile”.
In Bartleby o la formula della creazione, Gilles Deleuze sostiene “che lo scrivano di Melville è il vivo ritratto del Celibe, scritto con la maiuscola, che appare nei Diari di Kafka, quel Celibe per cui “la felicità è comprendere che il suolo su cui si è fermato non può essere maggiore dell’estensione coperta dai suoi piedi’, quel Celibe che sa rassegnarsi a uno spazio per lui sempre più ridotto”.
Ma Kafka costituisce solo una delle molteplici trasfigurazioni di Bartleby. La sindrome che porta il suo nome si manifestò in modi molto diversi: in De Quincey, ad esempio, si palesò “sotto forma di oppio”, mentre in Luigi XVI come un’invincibile predisposizione alla quiete e a un certo distacco dalle vicende del mondo, almeno se corrisponde al vero l’aver annotato nel suo diario, proprio nel giorno della presa della Bastiglia, una sola parola: “Rien”.
E tuttavia, non per tutti gli autori o i personaggi che hanno rilevanti affinità con Bartleby il dire <<No>> alla scrittura costituisce una soluzione allettante. Se per Oscar Wilde “l’operosità è il germe di ogni bruttezza” e lo scrivere, se ha un senso finché non si conosce la vita, quando se ne è compreso il significato non ne ha più alcuno; per Kafka, che pur condivide con Bartleby una certa inettitudine verso la vita, oltre che una modalità analoga di guadagnarsi il pane, “uno scrittore che non scrive è un mostro che incita alla follia”.
Certo, l’esistenza di simili cultori della filosofia del <<No>> – sia che venga applicata alla vita sia che venga riferita alla letteratura – può costituire uno stimolo prezioso per la formazione dello spirito critico necessario a non restare fagocitati dalle mode letterarie e, più in generale, dai libri cattivi.
Per Schopenhauer, “i libri cattivi sono un veleno intellettuale che distrugge lo spirito. E siccome la maggior parte delle persone, invece di leggere il meglio di quanto è stato prodotto nelle varie epoche, si limita a leggere le ultime novità, gli scrittori si riducono all’angusto ambito delle idee in circolazione, e il pubblico sprofonda ancora più giù nel proprio fango”. Anche per questo, la cultura del <<No>> dovrebbe godere del massimo rispetto. Nemmeno la poesia potrebbe ergersi a forma d’arte senza la sua mediazione, dato che, come osserva Marcelle Maniére, “la parola ‘no’ è consustanziale al paesaggio della poesia”.
Nel saggio di Vila-Matas vi sono anche alcune poesie, ma esso contiene al suo interno soprattutto molti mini racconti, alcuni dei quali esilaranti, come quando ci parla del Paranoico Pérez, o commoventi, come quando descrive il rapporto tra Juan Ramón Jiménez e sua moglie Zenobia. Tra quelli più divertenti e letterariamente più riusciti spicca la cronaca dettagliata del suo incontro con Salinger a New York.
Inizia così: “Ho visto Salinger su un autobus della Quinta strada di New York. L’ho visto, sono sicuro che era lui. È accaduto tra anni fa quando, proprio come adesso, simulai una depressione e riuscii a ottenere l’aspettativa del lavoro per un certo periodo. (…) Jerome David Salinger. Era lì in fondo all’autobus. Ogni tanto sbatteva le palpebre. Se non fosse stato per questo, mi sarebbe sembrato più una statua che un uomo. Era lui”.
Ora, si dà il caso che per l’autore di Bartleby e compagnia (Feltrinelli, 2002) Jerome David Salinger sia un riferimento imprescindibile in qualunque storia dell’arte del <<No>>. L’averlo riconosciuto per caso su un autobus nella Quinta strada, unitamente al fatto che fosse seduto in fondo, accanto a una ragazza di cui l’autore stesso istantaneamente s’innamorò, costituirono una concomitanza carica di presagi e virtualmente destabilizzante.
Quella ragazza “teneva la bocca aperta in modo molto curioso” e stava leggendo “una pubblicità di cosmetici su un manifesto affisso alla parete dell’autobus. A quanto pare, leggendo le si afflosciava leggermente la mandibola”. Ebbene, “durante il breve istante in cui la bocca della ragazza rimase aperta e le labbra rimasero separate” Vila-Matas s’innamorò. Pur considerandosi “un povero spagnolo vecchio e ingobbito, senza alcuna speranza di essere corrisposto”, s’innamorò perdutamente e decise all’istante di agire senza complessi, di comportarsi come avrebbe fatto qualsiasi innamorato, e quindi di controllare se colei per la quale aveva appena iniziato a spasimare fosse accompagnata da qualcuno.
Fu allora che vide Salinger, rimanendo di sasso. Di colpo, si trovò diviso tra l’innamoramento subitaneo che aveva provato per una ragazza sconosciuta e la scoperta che stava viaggiando con Salinger: “mi trovai diviso – scrive Vila-Matas - tra le donne e la letteratura, tra l’amore repentino e la possibilità di parlare a Salinger e scoprire con astuzia, in anteprima mondiale, perché aveva smesso di pubblicare libri e perché si nascondeva al mondo. Dovevo scegliere tra la ragazza e Salinger. Dato che i due non si parlavano e quindi non sembrava che si conoscessero, mi resi conto che non avevo molto tempo per scegliere tra l’una e l’altro. Dovevo agire velocemente. Decisi che l’amore deve sempre avere la precedenza sulla letteratura, e quindi progettai di avvicinarmi alla ragazza, inchinarmi davanti a lei e dirle in tutta sincerità: ‘Mi scusi, lei mi piace molto e credo che la sua bocca sia la cosa più incantevole che abbia mai visto. E credo anche che, così come mi vede, ingobbito e vecchio, io potrei, nonostante tutto, renderla molto felice. Dio, come la amo! Cosa fa stasera?
All’improvviso, gli tornò in mente un racconto di Salinger, Il cuore di una storia spezzata. In questo racconto si verifica una situazione analoga a quella in cui lui si trovava in quel momento: “qualcuno, su un autobus, dopo aver visto la ragazza dei suoi sogni, architetta una domanda quasi identica” a quella che lui aveva appena escogitato in segreto. Si ricordò il nome della ragazza: Shirley Lester; e decise che la sua ragazza si sarebbe chiamata così: Shirley.
La circostanza era comunque decisamente imbarazzante e imponeva la scelta rapida di una strategia precisa. Si rendeva conto che avvicinarsi a Shirley e dirle che l’amava enormemente era una scempiaggine. Ma una scempiaggine forse maggiore fu quella che gli venne in mente subito dopo. Infatti pensò di avvicinarsi a Salinger e dirgli: “Dio, come la amo, Salinger! Potrebbe dirmi perché sono così tanti anni che non pubblica niente? Esiste un motivo essenziale per cui si debba smettere di scrivere?”
Per fortuna, non si avvicinò a Salinger per dirgli una cosa simile ma, se possibile, ipotizzò qualcosa di peggio. Pensò di avvicinarsi a Shirley e dirle: “Per favore, non mi fraintenda, signorina. Ecco il mio biglietto da visita. Vivo a Bercellona e ho un buon lavoro, anche se adesso sono in aspettativa, che è ciò che mi ha permesso di venire a New York. Mi permette di telefonarle questo pomeriggio o in un futuro molto vicino, per esempio questa stessa sera? Spero di non sembrare troppo disperato. A dire il vero suppongo di esserlo”.
Ma anche questa fantasia cadde nel vuoto e così tornò ad architettare un altro assalto a Salinger: “Signor Salinger – pensò di dirgli - sono un suo ammiratore, ma non sono venuto a chiederle perché non pubblica niente da oltre trent’anni. Mi piacerebbe invece conoscere la sua opinione riguardo al giorno in cui Lord Chandos si rese conto che l’infinito insieme cosmico di cui facciamo parte non poteva essere descritto a parole. Vorrei sapere se a lei è successa la stessa cosa e per questo ha smesso di scrivere”.
Lasciò tuttavia cadere quasi subito anche quest’ipotesi, arguendo che Salinger lo avrebbe mandato a farsi friggere immediatamente, in piena Quinta strada. Senza darsi per vinto, immaginò tuttavia di chiedergli un autografo: “Signor Salinger, sarebbe così cortese da apporre la sua leggendaria firma su questo foglietto? Dio, come l’ammiro!”, ma escluse immediatamente anche questa strategia, pensando che non gli avrebbe nemmeno risposto.
Era sempre più disperato quando all’improvviso vide che Salinger e Shirley si conoscevano: “Lui le diede un fugace bacio sulla guancia mentre le segnalava che dovevano scendere alla fermata successiva. Si alzarono all’unisono, parlando tranquillamente fra di loro. Sicuramente Shirley era l’amante di Salinger. La vita è orribile – si disse Vila-Matas, e poiché nessuno poteva farci niente, decise che era meglio non perdere altro tempo a cercare ulteriori aggettivi da abbinarle; ma poiché “bisogna sempre cercare di ricavare qualche vantaggio dai contrattempi”, pensò anche che, in mancanza di nuovi romanzi e racconti di Salinger, avrebbe potuto “intrepretare le parole da lui dette su quell’autobus come un nuovo parto letterario dello scrittore”.
Un nuovo parto letterario?! Ma perché poi?! Qui, in un certo senso, il suo desiderio più autentico e profondo si tradisce. Sorge infatti il sospetto, a lettura terminata, che il sogno riposto dell’autore sia proprio quello di andare oltre la letteratura del <<No>> e che in fondo la sua speranza segreta sia che tutti i suoi amati scrittori ed eroi, anche quelli già morti, possano ricominciare presto a scrivere.
Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia, Feltrinelli, 2002.