Ribelli affini e contrari
Alcune considerazioni in margine a un saggio di Paolo Buchignani sui “Ribelli d’Italia” e sul sogno della rivoluzione nel nostro paese.
I - Le contiguità ideologiche e politiche dei <<ribelli>> di destra e di sinistra in Italia
Il saggio di Paolo Buchignani Ribelli d’Italia rivela le contiguità politiche che nel nostro recente passato hanno caratterizzato i rapporti tra le varie tipologie di ribellismo rivoluzionario di destra e di sinistra, fornendoci una chiave per comprendere meglio non solo la storia italiana nell’ultimo secolo e mezzo, ma anche gli scenari politici attuali.
La battaglia politica condotta da massimalisti e comunisti contro la componente riformista e socialdemocratica del socialismo italiano ha avuto un ruolo e un rilievo fondamentali per la successiva storia nazionale ed europea. Quando in Europa, all’inizio degli anni venti, i comunisti e i socialisti massimalisti volevano conquistare il potere con la violenza rivoluzionaria, i socialdemocratici e i socialisti riformisti, che i primi bollavano spesso come revisionisti o socialfascisti, accettavano la democrazia liberale e parlamentare. Ma se in Europa questi secondi ebbero ben presto la supremazia sui primi, questo non avvenne in Italia, né prima, né durante, né dopo il ventennio fascista. All’interno del Psi i massimalisti erano sempre stati in maggioranza e “la componente riformista di Turati e Matteotti uscirà soltanto nel 1922, alla vigilia della <<marcia su Roma>>, troppo tardi per incidere positivamente sulla crisi politica e impedire l’avvento del fascismo”.[1]
Il trattamento sprezzante riservato ai riformisti dalla componente maggioritaria e massimalista del Psi sarà adottato anche da Gramsci all’interno del suo partito: “<<I riformisti e gli opportunisti – scriveva su L’ordine nuovo – nonostante la loro pretenziosa fraseologia scientifica, sono completamente usciti dalla tradizione della dottrina marxista e rappresentano, nel campo della lotta operaia organizzata, un’infiltrazione di agenti ideologici del capitale>>”.[2]
Le ideologie rivoluzionarie che costituiscono la matrice comune da cui, durante i primi decenni del Novecento, prenderanno spunto in Italia le posizioni politiche di comunisti e fascisti sono (oltre al già sedimentato pensiero di Mazzini, Marx, e poi Lenin e Bakunin) il pensiero e l’iniziativa politica di Alfredo Oriani, le opere di Gobetti, dei vociani e dei futuristi, dei sindacalisti rivoluzionari e dei socialisti massimalisti. Le loro analisi teoriche e i loro programmi politici dettero vita ad un humus culturale fecondo e inquieto, fervido di concezioni della società e della storia che hanno spesso diversi elementi in comune e che hanno anche reso possibili collaborazioni e amicizie tra personalità politiche assai diverse.
Il libro di Paolo Buchignani - docente du Storia Contemporanea presso l'Università per stranieri "Dante Alighieri" di Reggio Calabria - ha il grande merito di fornirci un quadro dettagliato di questi rapporti, evidenziando elementi utili, quando non decisivi, per un riesame critico di questo periodo storico, delle sue temperie culturali e dei legami ideologici che hanno caratterizzato i rapporti tra opposte formazioni di <<rivoluzionari>>, soffermandosi spesso su dettagli e aspetti poco noti anche ad appassionati lettori o studiosi di storia contemporanea.
Per fornire qualche esempio dei rapporti di contiguità tra concezioni della società apparentemente opposte, si potrebbe iniziare con l’epoca in cui Mussolini era ancora un giovane direttore dell’<<Avanti>> e di <<Utopia>>. A questa seconda rivista collaboravano anche Amedeo Bordiga e Angelo Tasca, che erano considerati, come lo stesso Mussolini, degli eretici. Del resto i comunisti, compreso Antonio Gramsci, condividono con “l’agitatore di Predappio” la comune discendenza da Oriani e dal sindacalismo rivoluzionario e mutuano anche da lui alcuni tratti significativi, quali “il giacobinismo, il volontarismo, le argomentazioni con le quali viene attaccato il Psi, tanto nella componente riformista (accusata di parlamentarismo, di gretto economicismo, di collusione con la borghesia) quanto in quella massimalista, a cui si imputa di predicare la rivoluzione , ma di essere incapace di farla, perché prigioniera, come i riformisti, della cultura positivistica, deterministica, borghese”.[3]
Non deve quindi sorprendere anche la relazione contraria, e cioè che molti fascisti rivoluzionari abbiano simpatia per il comunismo e per Lenin, considerato “della stessa tempra di Mussolini”.[4] Alcuni di quei giovani si erano formati nella <<Legione garibaldina>>, che era composta da sindacalisti e anarchici, e che per alcuni di loro, come Curzio Malaparte, era stata l’anticamera del fascismo.[5]
La contiguità ideologica tra il comunismo e il fascismo, specialmente quello delle origini, può riscontrarsi anche durante gli anni trenta, quando “il partito comunista dichiara di far proprio […] <<il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori>> e invita il popolo e tutte le formazioni politiche a lottare <<uniti per la realizzazione di questo programma>> che il regime avrebbe disatteso e tradito”.[6] Ancora in quegli anni, i comunisti si sentivano più vicini al fascismo di Sansepolcro che non alle posizioni dei giellisti, che erano considerate invece espressioni della piccola e media borghesia e spesso bollate come socialfasciste e revisioniste.
Questa relazione di contiguità ideologica non è dunque marginale, e può risultare paradossale solo in una ricostruzione superficiale. Essa rimarrà sempre viva, anche durante il secondo dopoguerra. Già nel 1945, Giancarlo Paietta, in un editoriale sull’Unità del 28 Ottobre, nel tentativo di reclutare nuove adesioni al partito parlava degli ex fascisti come di virtuali <<compagni di lotta>> da redimere attraverso il lavoro e l’impegno sociale, mentre cinque anni dopo, in occasione di un discorso che tenne al cinema Splendore di Roma, il 10 Dicembre del 1950, l’allora segretario della Fgci Enrico Berlinguer così si rivolgeva ai giovani reduci della Rsi: “<<Noi e voi siamo più vicini di quel che sembra. Questo qualcosa di comune che ci unisce vi è stato anche quando si combatteva al Nord. Ambedue lottiamo per l’Italia e le riforme sociali e non per i vecchi gerarchi riaffiorati o per la classe dirigente dc […]. Anche i giovani neofascisti, i quali sognano una grande Italia, sanno che tutte le vecchie classi dirigenti tradiscono ancora la gioventù. Questa classi dirigenti sono le uniche nemiche>>. [7]
Tra le fila degli ex fascisti i cosiddetti <<fascisti rossi>> costituirono poi una sorta di testa di ponte atta a favorire l’azione di recupero da parte del Pci di qualche consenso in quell’area politica. I <<fascisti rossi>> erano gli “eredi di quella componente movimentista del fascismo storico (rivoluzionario, totalitario, mussoliniano) che non rinnegano affatto. Il loro bersaglio polemico (anche nel periodo 1947-53, nel quale fiancheggiano il Pci) non è Mussolini, ma la borghesia capitalistica che <<lo ha tradito>> il 25 Luglio 1943, dopo aver insabbiato la rivoluzione fascista; quella stessa borghesia i cui referenti politici sono divenuti sia la dc e i partiti satelliti, sia il gruppo dirigente del Msi (restauratore, monarchico, filocapitalista, filoamericano) retaggio, ai loro occhi, del peggiore fascismo, quello conservatore e borghese”.[8]
L’espressione, certo, potrebbe suonare per qualcuno quasi come un insulto, dato che in effetti costituisce, almeno in apparenza, un ossimoro, ma tale era l’appellativo che veniva usato, tra gli anni quaranta e cinquanta, dalla stampa governativa e di destra: “<<fascisti rossi>>, ma anche <<fascisti-comunisti>>, <<comun-fascisti>>, <<para-comunisti>>, <<cripto-comunisti>>, <<camicie nere di Togliatti>>. Agli esordi della guerra fredda, nel clima della montante durissima contrapposizione tra comunisti e anticomunisti, sulle labbra di democristiani e missini, di liberali e socialdemocratici fiorivano i più fantasiosi epiteti all’indirizzo di quell’arrabbiata pattuglia di rivoluzionari mussoliniani che tra il 1947 e il 1953 operò attivamente a fianco del Pci. Essi, viceversa, si definivano <<ex fascisti di sinistra della corrente di ‘Pensiero Nazionale’>>”.[9]
Il loro capo era “uno scrittore e giornalista sassarese, nato a Usini nel 1899. Si chiamava Giovanni Antonio De Rosas, ma fin dagli venti, al tempo della collaborazione al quotidiano <<L’Impero>>, si firma come Stanis Ruinas, il dinamitardo pseudonimo col quale soltanto è noto e che ben si addice alla sua indole ribelle e ai suoi propositi sovversivi di <<fascista rivoluzionario>>”.[10] Nel 1947, dopo l’esperienza di Salò, fondò a Roma la rivista <<Il pensiero Nazionale>>, che divenne all’inizio degli anni cinquanta l’organo politico dei <<fascisti rossi>>: a questa, che venne finanziata dal Pci, collaborarono anche alcuni giovani provenienti dalla x Mas di Junio Valerio Borghese.
Se nei primi anni del dopoguerra si era creata in Italia una situazione favorevole all’avvicinamento di alcune frange del fascismo al partito comunista, questo era anche perché era sorto un clima politico che sembrava propizio alla rivoluzione. Una simile circostanza, tuttavia, invece di rallegrare Stalin e i dirigenti sovietici, li preoccupava non poco. Dopo la conferenza di Teheran, infatti, l’Italia era stata assegnata al blocco occidentale, e anche la famosa <<Svolta di Salerno>> di Togliatti deve essere letta in questo contesto. Quando Molotov lo incontrò alla vigilia del suo ritorno in Italia dalla Russia, gli impose “un rovesciamento della linea politica perseguita fino a quel momento: non promuovere l’insurrezione, ma impedirla, non chiedere l’abdicazione del re né le dimissioni del governo Badoglio, ma entrare a farne parte”.[11]
Per il Migliore e il gruppo dirigente del Pci la meta finale rimarrà comunque la stessa: la realizzazione del regime comunista non solo attraverso la cosiddetta <<democrazia progressiva>> ma, se necessario, anche “<<attraverso urti violenti e anche armati>>”.[12] Questa possibilità non verrà mai completamente esclusa non solo dal contesto generale della sinistra italiana, ma anche dagli organi dirigenti del Pci, almeno fino alla segreteria Berlinguer.
Anche il movimento protestatario del 68 dovrebbe essere ricondotto a questa circostanza storica, che fu rafforzata dalla critica totalizzante mossa alla società capitalistica dalla scuola di Francoforte. In particolare, come osserva Luciano Gallino – l’insistenza con cui Marcuse, ne L’uomo a una dimensione – si sofferma “<<sulla impossibilità di contrastare il sistema dominante con qualsiasi tipo di argomentazione>> suggerì “<<indirettamente alla sinistra le strade della violenza>>”.[13]
Come ebbe ad osservare Adriano Sofri, i militanti di Lotta Continua e di altri gruppi della sinistra extraparlamentare si riempivano la bocca di esortazioni alla violenza già molto prima della strage di Piazza Fontana del 12 Dicembre 1969: noi “<<eravamo soltanto epigoni di una lunghissima tradizione [di] cui il culto della violenza ribelle e liberatrice era una parte assolutamente essenziale […].Un’idea della violenza come passaggio decisivo e costitutivo dell’uomo nuovo: la violenza emancipatrice, la violenza come levatrice della storia>>”.[14]
Più in generale, l’idea che i livelli di alienazione prodotti dalla società capitalistica avessero reso parti considerevoli del proletariato, oltre che della piccola e media borghesia, sorde a ogni sorta di analisi critica verso il consumismo in cui queste classi erano ormai immerse fornirà a una parte della sinistra contestataria un alibi perfetto: là dove il capitalismo ha confiscato all’uomo reificato ogni forma di consapevolezza critica, solo la violenza potrà ridestarlo e permettergli di sottrarsi agli effetti di quel sordido ingranaggio di sfruttamento e consumo in cui è stato coinvolto e alienato.
Ormai, dopo la destalinizzazione, per molti giovani comunisti e socialisti la rivoluzione avrebbe dovuto prendere le mosse da prima di Stalin e andare oltre Stalin. Ciò che si proponevano era l’abbandono di una prospettiva politica liberale e parlamentare per procedere – come sostiene Danilo Breschi - a passi spediti verso “<<la democrazia diretta, sostanziale perché ‘proletaria’>>” la quale appariva loro come “<<la nuova meta di un comunismo tornato alla purezza delle origini>>[15].
Proprio quella democrazia diretta che oggi sta tornando ad essere considerata come un orizzonte politico e un fine plausibile, quella democrazia diretta che aveva costituito un punto fermo persino nella Repubblica del Carnaro di dannunziana memoria, veniva allora recuperata da chi vedeva nel superamento rivoluzionario del sistema capitalistico e nella realizzazione della società senza classi la possibilità di realizzarla in via definitiva. Essa era vagheggiata dai giovani che dettero vita all’ondata protestataria della fine degli anni sessanta, da quegli stessi giovani che – come spiega Buchignani – guardavano “alla Cina maoista, alla Cuba castrista, al Vietnam, a tutta una cultura terzomondista, da Che Guevara ai Dannati della terra di Frantz Fanon”,[16] prendendoli spesso come riferimenti cruciali in maniera acritica. Questi giovani, infatti, per un verso rifacendosi al vecchio massimalismo socialista e al leninismo, per altro all’anarchismo e alle altre matrici ideologiche sopra elencate, avviarono un laboratorio politico che avrà una notevole influenza sulla storia italiana fino agli anni di piombo.
In particolare, il paradigma leninista che tendeva a equiparare il capitalismo e le liberaldemocrazie occidentali a forme edulcorate di dominio fascista, e per cui era “necessario ingaggiare, su scala mondiale, una dura lotta contro la<<piovra>> capitalista”, fu tanto efficace e pervasivo che arrivò a permeare, anche sulla spinta della teologia della liberazione, alcuni settori del mondo cattolico, fino a indurli considerare il capitalismo degli anni sessanta come “una degenerazione della cultura moderna come lo è stato il nazismo, responsabile del secondo conflitto mondiale e della Shoah”.[17]
All’egemonia esercitata in ambiti sempre più vasti della società dai paradigmi marxisti-leninisti la cultura liberaldemocratica non seppe in quegli anni opporre una valida resistenza. Molti intellettuali di sinistra giunsero spesso a liquidare qualsiasi obiezione riproponendo tali paradigmi come gli unici evidenti, fino a concludere, come in un editoriale di Potere operaio del 20 Dicembre 1967, che socialdemocrazia e fascismo apparivano chiaramente come “<<due facce della stessa medaglia, lo sfruttamento capitalista>>”. Più in generale, la democrazia parlamentare, la democrazia borghese, vengono viste in quegli anni da molti giovani appartenenti ai gruppi extraparlamentari di sinistra come maschere per coprire il sostanziale volto fascista della società capitalistica.
Il Pci prenderà da loro le distanze con una certa energia nella seconda metà degli anni settanta, quando la stagione del terrorismo era già iniziata: Renato Zangheri, sindaco comunista di Bologna, li definì <<teppisti>>, Lucio Lombardo Radice <<nuovi squadristi>>. Per Enrico Berlinguer con costoro non era <<possibile stabilire un dialogo>>, in quanto “<<lucidi organizzatori di un nuovo squadrismo>>, essi <<non sono definibili con altro termine se non quello di nuovi fascisti>>”.[18]
Eppure il Pci, rispetto a questa situazione da cui ora prendeva le distanze, non era esente da responsabilità. Alberto Ronchey, al riguardo, “non manca di osservare come <<nella base militante del Pci, malgrado il costituzionalismo dello stesso Togliatti, l’attesa dell’ora X e la doppiezza dei tempi di Pietro Secchia hanno avuto conseguenze prolungate, fino alle Br>>,” mentre “secondo Enzo Bettizza <<le ragioni, seppure distorte, dei brigatisti, hanno una radice duplice nel millenarismo di due chiese, nel terzomondismo palingenetico, nel leninismo di guerra, nel maostalinismo quale fu praticato dai guerriglieri vietnamiti sul fronte e nelle retrovie: tutti spezzoni di fedi rivoluzionarie <<liberatrici>> che per anni videro concordi pietisti cattolici e stalinisti, e che ora ritroviamo, come raffreddati e stravolti, nell’ideologia di guerriglia delle Br>>”.[19]
Tuttavia, durante tutto l’arco di tempo preso in esame dal saggio di Buchignani la tanto auspicata rivoluzione socialista in Italia non si realizzò. Come “ebbe a rilevare in un’interessante autocritica il primo pentito delle Br, Patrizio Peci, per fare la rivoluzione, nell’Italia del capitalismo avanzato, <<mancava la fame>>, elemento fondamentale che l’aveva resa possibile altrove, in paesi arretrati”, e cioè esattamente dove Marx pensava che non si sarebbe mai verificata. La fame non era mancata né durante la rivoluzione di Ottobre nel 1917 né in tutte le altre rivoluzioni socialiste andate a buon fine. Il famigerato sistema capitalistico, pur avendo contribuito a produrne in gran quantità, specialmente nel terzo mondo, al suo interno non ne aveva prodotta in quantità sufficiente per determinare risoluzioni politiche di tale portata.
Senza la fame anche l’utopia millenaristica che animò, seppur in modi diversi, comunismo, anarchismo e persino certe componenti del fascismo rivoluzionario del ventennio era destinata a rimanere tale. A questo proposito, può risultare illuminante un testo dello scrittore fascista Marcello Gallian (sul quale Buchignani ha scritto un’importante monografia), per il quale “<<il comunismo è l’avvento della gratuità, scomparsa del denaro, del valore di scambio, fine della peste mercantile che ha pervaso ogni piega dell’esistenza umana. Abolizione dell’economia con tutte le sue categorie: salario, prezzo, profitto […] soddisfazione illimitata dei desideri e dei bisogni umani, realizzazione piena della libertà di vivere secondo il proprio piacere e le proprie inclinazioni>>”.[20]
Proprio quest’immagine estrema, radiosa e quasi edonistica del comunismo può fornire le ragioni del successo della sua idea e dell’insuccesso della sua pratica, fornendoci anche l’occasione per una breve chiosa al saggio di Buchignani, che ha il grande merito di fornire un quadro articolato ed esauriente delle relazioni intercorse tra tipologie opposte di radicalismo politico e rivoluzionario in Italia.
II - La presenza attiva di un <<paragone ellittico>> e le insidie del mito della <<democrazia diretta>>.
Se confrontiamo il tipo di società descritta da Gallian con qualsiasi società storica - operando quello che Benedetto Croce ebbe a definire un <<paragone ellittico>> - quest’ultima non potrà che sembrare, al confronto, ingiusta, spaventosa e spietata. Dunque, qualsiasi azione sia volta a realizzare una civiltà alternativa a un simile orrore sociale e politico non solo è moralmente lecita, ma rischia di risultare anche moralmente e politicamente doverosa. Anche qualora dovesse determinare qualche migliaio di morti, cosa potrebbero mai rappresentare in paragone alle innumerevoli sofferenze e ai morti, computabili nell’ordine di milioni di persone, che il capitalismo produce ogni anno in tutto il mondo?
In questo senso i terroristi degli anni di piombo non furono incoerenti, come non lo furono molti <<ribelli>> nostrani del Novecento. L’errore era essenzialmente nelle premesse, e le premesse non vennero quasi mai messe in discussione non solo, com’era ovvio che fosse, dagli intellettuali della sinistra massimalista o comunista, ma nemmeno, dagli ideologi e dai leader più nascosti di quella destra neofascista che poi imboccò il percorso dello <<stragismo nero>>, semplicemente perché anch’essi partivano spesso dal presupposto – già cavalcato dalla retorica fascista del ventennio – della necessità di contrapporsi alle <<plutocrazie occidentali>>, globaliste ante litteram, e più in generale ad alcuni aspetti della <<modernità>> che erano considerati deteriori, per poter operare una rivoluzione culturale e politica che favorisse l’accesso ad una vera identità di popolo e alla conquista di un prestigio nazionale che fosse idoneo a rappresentare e promuovere proprio quei valori, spesso regressivi più che conservatori, che tale rivoluzione avrebbero ispirato.
In verità, infatti, il <<paragone ellittico>> cui la dottrina comunista surrettiziamente induce secondo Croce risulterebbe efficace anche se applicato alle ideologie neofasciste, in quanto anch’esse sono teorie palingenetiche, ovvero teorie che ipotizzarono la possibilità di realizzare in terra una società che, dal loro punto di vista, poteva risultare ideale e pressoché perfetta. Essa avrebbe infatti potuto instaurare un <<ordine nuovo>> che, come nella concezione di Julius Evola e Pino Rauti, sarebbe stato “radicalmente alternativo a quello esistente, dominato dalle forze negative del capitalismo, del comunismo, della democrazia politica, generate dalla civiltà materialistica dell’umanesimo, del rinascimento, dell’illuminismo; forze incarnate, nel presente, al massimo grado, dall’Urss e dagli Usa, responsabili della sconfitta del nazifascismo”.[21]
Per quanto ispirate a valori diversi e per molti versi opposti, a entrambe queste prospettive politiche il <<paragone ellittico>> di cui ci parla Croce (e che Gramsci commenta criticamente) sembra fornire implicitamente la giustificazione etica per passare dalla teoria alla prassi, ma in modi radicalmente diversi: nel caso dei movimenti d’ispirazione neofascista l’ideale è rappresentato da un tipo di società che è imperniata sulla forza, l’ardimento e il sacrificio, e in cui l’uso sistematico della violenza verso chi può essere considerato, a qualsiasi titolo, un corpo estraneo, è visto in maniera positiva e identitaria; nel caso invece dei movimenti rivoluzionari d’ispirazione socialista l’azione rivoluzionaria violenta, anche terroristica, rappresenta un mezzo necessario per raggiungere un fine radicalmente diverso ed opposto: quello di una società priva di violenza, da cui sia eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e regni finalmente la giustizia.
In una prospettiva socialista, l’uso della violenza può essere giustificato solo per conseguire questo fine, e non in maniera incondizionata, ma solo se l’analisi da cui l’azione politica prende le mosse induce a ritenere che tale azione sia effettivamente in grado di andare a buon fine e conseguire il suo scopo. In questo caso, si potrebbe trarre in maniera conseguenziale, dal paragone tra società ideale, ma possibile, e società reale, la legittimità di un passaggio all’azione violenta.
A differenza di quanto vale in questi due contesti ideologici radicali ed estremi, da un punto di vista liberaldemocratico l’azione politica violenta, pur essendo legittima in paesi illiberali, dove i cittadini non dispongono di alcuna possibilità legale di far valere le loro idee ed opinioni, non potrebbe mai essere ritenuta ammissibile in paesi che hanno già assunto nelle loro carte costituzionali i principi della democrazia liberale, ovvero in quei paesi in cui ai cittadini è consentito esercitare liberamente i propri diritti civili e politici. Là dove esiste la libertà di scegliere il tipo di governo in modo democratico, non può infatti essere ammesso l’uso della violenza per determinare chi debba governare o le scelte politiche di un governo già insediato, dato che questo comportamento implicherebbe la sottrazione ad altri cittadini delle stesse libertà e gli stessi diritti di cui nessuno vorrebbe essere privato.
Ma è proprio questo il punto: quando si arriva a considerare, come avveniva per molte ideologie rivoluzionarie d’ispirazione marxista e leninista, una simile libertà solo apparente, se si giunge a considerarle – sulla scia di Marcuse e della Scuola di Francoforte - come l’effetto anestetizzante e tossico di una civiltà imperniata sulla logica del profitto che ha obnubilato in maniera silente e strisciante le coscienze, ogni reazione o strategia volta a combattere tale logica in maniera efficace diventa legittima.
In altri termini, se l’analisi teorica su cui la proposta politica si fonda è corretta, se lo è al di sopra di ogni sospetto soggettivamente ragionevole (per molti lo è stata, e per qualcuno lo è ancora) ci si può ritenere legittimati a operare un <<paragone ellittico>> che potrebbe avere implicazioni pericolose per la democrazia liberale, dato che in quella prospettiva essa non è considerata un valore. Il confronto implicito tra le due società, ovvero quella ideale, ma possibile, e quella reale, non può in questo caso che implicare la scelta di sopprimere la seconda. Un simile paragone potrebbe infatti costituire il mezzo necessario per decidere di passare all’azione anche a costo di porre in secondo piano il sacrificio di vite umane; potrebbe cioè, per esempio, risultare determinante per cercare di realizzare, anche con il ricorso alla violenza, il tipo di società non violenta descritta da Gallian, ovvero una società incomparabilmente più giusta e felice di quella capitalistica.
L’esercizio di un <<paragone ellittico>> potrebbe quindi legittimare anche vari tipi di violenza <<palingenetica>>: quella fascista o nazista, volte a realizzare una società gerarchica chiusa, basata sul culto della <<forza>> e ispirata da valori regressivi avvertiti come irrinunciabili, che non solo non escludono la violenza, ma anzi se ne propongono l’uso sistematico e persino scientifico; o la violenza rivoluzionaria che mira a realizzare la dittatura del proletariato e il <<terrore rosso>> per realizzare il sogno di un mondo giusto, in cui sfruttamento e violenza non siano più necessari. L’espressione <<terrore rosso>> - già utilizzata da Lenin nei documenti in cui progettava quello che poi, dopo la sua morte, diverrà l’arcipelago Gulag, che ha prodotto almeno venti milioni di morti tra i propri civili - ricomparirà non a caso all’interno della cultura terrorista che, parallelamente a quella nera, stragista e fascista, attraverserà l’Italia tra la fine degli anni sessanta e la fine dei settanta.
A ben vedere, tuttavia, nel primo dei due casi presi in esame il problema non si pone nemmeno, perché l’uso della violenza non ha alcun bisogno di essere giustificato. Dato che il tipo di società auspicata dai neofascisti o dai neonazisti non solo non la ripugna, ma la conserverebbe quale suo elemento strutturale essenziale, non vi è alcuna necessità di doverne giustificare l’uso attraverso un paragone tra la società da costoro auspicata e quelle reale.
Nell’altro caso, invece, data la difformità radicale tra mezzi e fini, l’uso della violenza ha bisogno di essere giustificata, e tale giustificazione può scaturire solo dal confronto più o meno consapevole o esplicito tra i due tipi di società in questione: quello ideale e quello reale. Un simile paragone è fondamentale perché possa scaturirne tanto un rifiuto dei principi della liberaldemocrazia e del riformismo socialista, quanto un impulso all’azione rivoluzionaria, condizione indispensabile per la realizzazione di qualsiasi disegno palingenetico non ultraterreno.
In ogni modo, anche volendo prescindere dall’utilizzo della categoria crociana del <<paragone ellittico>> per spiegare il ricorso alla violenza dei <<ribelli d’Italia>> (e di molti altri <<ribelli>> nel mondo), bisogna considerare che una certa ritrosia circa la legittimità dell’uso della violenza in politica è cosa abbastanza recente: all’inizio del XX secolo, sulla scia delle teorie di Marx e di Lenin, di Sorel e degli anarchici, né la violenza né la guerra civile e rivoluzionaria hanno niente di esecrabile in sé, così come non ne ha in sé la guerra tout court nelle visioni del mondo e della storia dei dannunziani o dei futuristi, che sono poi per lo più confluite nel fascismo. Non è un caso che quanto tiene uniti i <<ribelli d’Italia>>, ciò che li rende tanto prossimi pur con le loro notevoli differenze, è proprio quell’humus culturale da cui socialismo, comunismo e fascismo, in modi diversi e con le loro varianti, sono germinati.
Proprio l’inadeguata <<resistenza critica>> che gli intellettuali di orientamento liberale (troppo spesso risucchiati all’interno della categoria economicistica dei <<liberisti>>, sulla scia di un’interpretazione del liberalismo riconducibile a Einaudi piuttosto che a Croce), hanno saputo opporre rispetto alle premesse teoriche da cui le varie tipologie di <<ribelli >> hanno preso le mosse può aver indirettamente contribuito a favorire la loro capacità di rigenerarsi incessantemente dalle proprie ceneri. La scarsa convinzione e tenacia con cui questi intellettuali hanno saputo tutelare in Italia i principi della liberaldemocrazia sui media e nelle scuole, l’aver cioè lasciato, per larghi tratti della storia italiana del XX secolo e di questo scorcio di nuovo millennio, quasi campo libero non solo alla gramsciana “egemonia culturale” perseguita dal Pci, ma anche a quella congerie di paradigmi teorici idonei a giustificare la violenza di destra e di sinistra, il loro <<ribellismo>> sterile e spesso foriero di tragiche conseguenza, costituisce forse, per questi intellettuali <<sconfitti>> - almeno dopo la morte di Croce, di Salvemini, di Ernesto Rossi e di altri liberali <<resistenti>>, spesso illuminati e socialisti - una responsabilità non di poco conto.
Una simile scarsa <<resistenza critica>> è forse dovuta al fatto che, mentre nel XIX il liberalismo era una concezione del mondo progressiva - che non esitava a misurarsi sia con quelle teorie conservatrici che rappresentavano il passato e gli interessi di classi sociali in via d’estinzione, sia con quelle teorie socialiste che si proponevano come ancor più progressive – nel secolo successivo non lo è più sembrato, ha perso sempre più la spinta propulsiva che gli derivava dal dover diffondere e consolidare i suoi principi fondanti nel mondo. Poi, forse per l’impressione diffusa che la Storia avesse già bocciato le teorie socialiste, nella seconda metà del Novecento anche l’esigenza di confrontarsi in maniera critica con i presupposti teorici su cui s’imperniavano le teorie marxiste-leniniste, o quelle francofortesi, è stata avvertita sempre di meno da chi non condivideva quei presupposti.
Ma la loro era un’impressione solo parzialmente corretta: il socialismo, sia nella versione socialdemocratica e riformista sia in quella massimalista, con modalità diverse, è ancora vivo e vegeto. Nella sua prima versione, è diventato una concezione politica ed economica perfettamente integrata nelle società liberaldemocratiche, che non ha mancato d’integrare e arricchire in maniera efficace e costruttiva; nel secondo ha continuato a riproporre, più o meno esplicitamente, paradigmi teorici incompatibili con la democrazia e virtualmente in grado di intaccarne le fondamenta.
In ogni caso non sarebbero gli esiti in cui sono incorse delle società storiche – come ad esempio quello dell’Urss - a poter decretare la fine di un’idea, il suo depotenziamento sotto il profilo sociale e culturale. In altri termini, non esiste bocciatura della Storia che possa risultare evidente a chi non ha destrutturato dentro di sé i paradigmi teorici cui è più o meno irrazionalmente legato, e questi non si possono disinnescare senza una <<lavoro culturale>> effettivamente in grado di sostituirli con dei modelli teorici alternativi.
Se un lavoro culturale di questo tipo era stata ritenuto necessario da Gramsci per colmare lo svantaggio in cui il Pci si trovava sotto il profilo politico-elettorale e per attingere consensi nella piccola e media borghesia italiana, nella seconda metà del Novecento, dopo la morte di Croce, non parve probabilmente necessario, alle forze politiche liberali e soprattutto agli intellettuali di quell’area, d’intraprenderne uno analogo per cercare di opporre a tale disegno strategico una qualche resistenza efficace.
Quest’atteggiamento fu probabilmente motivato dal fatto che, già durante gli anni ottanta, quei paradigmi sembravano meno diffusi e influenti. In realtà, erano solo destinati a entrare in una fase di letargo, di sonno apparente, ma erano rimasti sempre attivi come riferimenti fondamentali di una visione del mondo e della società nelle menti e nell’orizzonte culturale della civiltà occidentale e di quella italiana in particolare, pronti a risvegliarsi improvvisamente e a provocare nuove rivoluzioni palingenetiche volte a realizzare finalmente una democrazia sostanziale. Si tratta, per esempio, di quanto avvenuto dopo gli anni Ottanta, quando questi modelli culturali sembravano superati e sconfitti. Ben presto, dopo qualche anno, hanno invece ritrovato una sorta di nuova giovinezza, hanno iniziato a germinare in altro modo, dimostrando una capacità persuasiva che potrebbe in prospettiva rivelarsi di nuovo pericolosa per la stabilità della società democratiche.
In pratica, man mano che il mondo occidentale ha mostrato di prediligere la prospettiva liberaldemocratica a qualsiasi altro modello di convivenza civile, quel lavoro culturale che era in passato stato rivolto alla tutela e al rafforzamento di quei principi è probabilmente apparso superfluo. Tali principi, infatti, si stavano già autonomamente dimostrando vincenti, e non sembravano richiedere alcun <<lavoro culturale>> di supporto. In Italia, in particolare, l’abbandono della <<battaglia culturale>> potrebbe essere dipeso anche dalla convinzione, propria di qualche falso liberale, che la cultura non dia da mangiare, convinzione che, appunto, ha assai poco di liberale, dato che i liberali non hanno mai considerato marginale la difesa dei principi su cui si fonda la loro idea di Stato e di società e non hanno mai considerato poco decisivo il confronto dialogico con chi non la pensa come loro.
Tra i risultati di questo disimpegno bisogna annoverare, in tempi recenti, la ripresa del mito della democrazia diretta. L’idea che una consultazione diretta e pressoché continua dei cittadini sulle questioni più svariate possa migliorare la qualità della democrazia, che possa farla assomigliare di più a una democrazia sostanziale, come quella vagheggiata da molti giovani negli anni sessanta e settanta, non solo è poco fondata, ma rischia di mettere in discussione gli stessi principi su cui si fonda la democrazia rappresentativa e parlamentare. Probabilmente, anche in questo caso, è all’opera un paragone ellittico: la società democratica ideale è quella in cui tutti possono esprimersi direttamente e immediatamente su tutto, quella in cui i cittadini possono governare se stessi senza mediazioni, in cui non sono subordinati al potere di chi li rappresenta, e non quella che invece attribuisce a i loro rappresentanti in parlamento un potere eccessivo, esorbitante, ingiustificato, e persino troppo remunerato. Di conseguenza questa seconda, essendo di gran lunga peggiore e meno democratica della prima, dev’essere superata e sostituita.
Una simile concezione della democrazia, virtualmente in grado di depotenziare le prerogative del parlamento, ha il serio inconveniente di non avvedersi di quanto possa risultare poco competente, responsabile ed efficace un governo la cui azione sia subordinata agli esiti di consultazione dirette e virtualmente quasi continue, esiti che rischierebbero di essere sempre il frutto di pareri molto condizionabili e umorali, oltre che spesso privi di quel sostrato di cognizioni necessarie per pronunciarsi su molti dei temi su cui i cittadini sarebbero chiamati a esprimersi.
Anche alla luce di queste considerazioni, il libro di Buchignani si rivela una preziosa ricostruzione per comprendere e saper interpretare le insidie che si celano in quelle concezioni politiche che, riproponendo in modo mascherato l’alternativa tra una democrazia puramente formale e una presunta sostanziale, riesumano con troppa disinvoltura il mito della democrazia diretta, che rischia di essere una democrazia d’inetti, ovvero di persone chiamate a decidere su ogni tema, a prescindere da qualsiasi conoscenza e competenza.
In questo senso, Ribelli d’Italia riesce a generare il dubbio che avesse ragione Gaetano Salvemini quando sosteneva che “il rivoluzionarismo non è, in fondo, praticamente che l’indifferenza di fronte a tutti i problemi concreti immediati: è la latitanza politica degli ingenui e degli inetti. E i partiti conservatori non domandano ai partiti democratici che di rimanere sempre latitanti”.[22]
Il predominio dei rivoluzionari all’interno del Partito Socialista – aveva annunciato Salvemini poche righe prima – “servirà solo, e meravigliosamente, gli interessi dei partiti conservatori”, che non avranno mai da temere dai rivoluzionari “un’azione politica consapevole, sistematica, efficace, in senso democratico”, ovvero utile per affrontare i diversi problemi che di volta in volta ci troveremo di fronte.[23]
Analogamente, il mito della democrazia diretta da realizzare attraverso l’ausilio di internet rischia di diventare un modo molto efficace di far passare qualsiasi teoria o credenza atta a favorire gli interessi di lobby di potere politico ed economico come giusta e veritiera. Oggi, mentre questo mito sembra riprendere vigore in tutta Europa, dove stanno emergendo movimenti politici – quali i Gilet gialli o i Cinque stelle – che in modi diversi mettono in discussione, più o meno esplicitamente, i principi fondamentali della democrazia parlamentare, queste parole di Salvemini ci sembrano pertinenti e premonitrici. I rivoluzionari di oggi, quelli che pensano di poter realizzare attraverso il web una democrazia più sostanziale di quella parlamentare, non solo non fanno paura ai partiti conservatori, che anzi sanciscono con loro dei <<contratti di governo>>, ma sembrano viceversa far ricorso agli stessi metodi demagogici e populisti. Il ricordare qui le parole di Salvemini può forse essere utile come sprone a tutti coloro che credono nei principi della liberaldemocrazia a confrontarsi con questi presunti <<rivoluzionari>> odierni e con le sfide e i drammi che l’epoca presente ci pone di fronte, in maniera aperta, schietta e argomentata, come molti liberali e socialisti liberali hanno insegnato a fare in passato con il loro pensiero e il loro esempio.
[1] P. Buchignani, Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle brigate rosse, Venezia, 2017, Marsilio editore, p. 73.
[2] Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), Torino, Einaudi, 1956, p. 96; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit. p. 69.
[3] P. Buchignani, Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle brigate rosse, cit., pp. 50-51.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. C. Malaparte [C. Suckert], Biografie, Curzio Malaparte inizia il racconto della sua vita, in <<Cronache italiane>>, Maggio-Luglio 1954; riportato in G. Pardini, Curzio Malaparte. Biografia politica, Milano, Luni, 1998, pp. 28-29 e poi in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 75.
[6] P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 124.
[7] Ivi, p. 160.
[8] Ivi, p. 202.
[9] Ivi. p. 199.
[10] Ivi, p. 200.
[11] Ivi, pp. 219-220.
[12] Ivi. p. 225.
[13] L. Gallino, Introduzione a Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1864, pp. XI-XII; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 265.
[14] Tutto partì da Piazza Fontana. Poi lanciammo la prima pietra, intervista di Roberto Delera ad Adriano Sofri, in <<Corriere della sera>>, 2 Aprile 2004, p. 6; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 266.
[15] D. Breschi, Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68, Firenze, Mauro Pagliai, pp. 29-30; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit. p. 271.
[16] P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit. pp. 271-272.
[17] Ivi, p. 311.
[18] E. Berlinguer, Chi sono i nuovi fascisti, in <<La Stampa>>, 23 Settembre 1977; riportato in. P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit. p. 363.
[19] A. Ronchey, La questione Lenin, in <<Corriere della Sera>>, 30 Aprile 1978; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 368.
[20] A. Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1968, Roma-Bari, Laterza, 212, p. 269; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 372.
[21] P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 317.
[22] G. Salvemini, Il congresso dei conservatori, in <<L’Unità>>, 13 Luglio 1912; riportato in P. Buchignani, Ribelli d’Italia, cit., p. 65.
[23] Ibidem.