Dieci, cento, mille cose buone.

 

Come un’argomentazione faziosa possa conseguire risultati opposti rispetto a quelli che si propone

 

   In un libro uscito pochi mesi fa, un giovane studioso, Francesco Filippi, cerca di dimostrare che l’opinione piuttosto diffusa secondo la quale il fascismo avrebbe “fatto anche cose buone” è falsa. Le argomentazioni che adduce per farlo toccano tutti i punti principali dei pochi meriti solitamente attribuiti al regime fascista. Per quanto tali argomentazioni partano spesso da premesse almeno opinabili, ne riporteremo qui di seguito alcune a titolo di esempio in maniera diffusa e testuale, così da poter far apprezzare il rigore logico delle stesse argomentazioni insieme allo spessore dell’obiettività che le ispira.

   Si potrebbe iniziare la rassegna di alcuni dei punti salienti della trattazione con un tema che viene di solito percepito come “gratificante”: sebbene Filippi ammetta che la tredicesima mensilità, denominata “gratifica natalizia”, sia stata “inserita ufficialmente il 5 agosto 1937 dalla Camera delle Corporazioni fascista all’articolo 13 del contratto collettivo nazionale di lavoro degli impiegati dell’industria”, egli precisa tuttavia che “nessuna altra categoria venne inserita tra quelle meritevoli di un innalzamento del salario a fine anno. Non si trattava infatti di una norma di ampliamento dei diritti dei lavoratori nel loro complesso, ma di un provvedimento ad hoc per una categoria che era bacino di consenso del regime: i cosiddetti colletti bianchi, che formavano la piccola borghesia italiana e che sognavano la sicurezza di un posto fisso che li strappasse alla precarietà; quelli, per intenderci, che cantavano ‘Se potessi avere mille lire al mese’ ”. Quindi, a quanto pare, quella “gratifica natalizia”, poiché riguardava una sola categoria di lavoratori, non può essere considerata una “cosa buona”.

 

   D’altra parte, anche la tanto decantata bonifica delle paludi pontine in senso stretto non lo è stata, perché “la quantità di terre strappate all’acqua rimase marginale rispetto all’enormità della sfida raccolta dal regime”. […] Dopo dieci anni di lavori e denaro pubblico il governo dichiarò infatti “di aver raggiunto l’obiettivo che si era prefissato, proclamando redenti all’aratro 4 milioni di ettari di terreno. La metà di quanto dichiarato come obiettivo all’inizio della ‘guerra’”.  Certo, Filippi ammette che si trattò di “un risultato comunque di tutto rispetto, se si pensa all’estensione della superficie interessata”, ma il problema è che, a conti fatti, “l’obiettivo di 8 milioni di ettari di terra da redimere fu mancato di ben 7 milioni e mezzo. In pratica era stato portato a termine poco più del 6% del lavoro preventivato”.

   Dunque, anche la bonifica delle paludi pontine, avendo realizzato solo il 6 % di un progetto molto ambizioso, forse troppo, non sarebbe stata una “cosa buona”, o almeno non così buona come molti pensano. E lo stesso si può dire della battaglia contro la malaria: è vero che dopo il 1935 “il numero degli infettati imboccò una decisa discesa”, ma poiché “la malaria retrocedette nelle aree endemiche più grazie a una profilassi diffusa che per le azioni di bonifica”, anche quella non può essere annoverata tra le “cose buone”, o almeno abbastanza buone.

   Stesso discorso per quanto riguarda l’edilizia popolare. A questo riguardo Filippi osserva che “la politica fascista nei confronti del problema della casa non ebbe bisogno di essere innovativa: ci si occupò di stimolare le iniziative dei singoli comuni, avviando progetti di ampliamento delle disponibilità in varie città, soprattutto sostenendo gli istituti già esistenti. Le politiche abitative rimasero però sostanzialmente un’iniziativa locale”; e tutto questo, naturalmente, non può essere considerato una “cosa buona”, così come non può essere considerata tale il fatto che, “tra il 1935 e il 1939 il nuovo consorzio ultimò appena 13700 alloggi, in gran parte iniziati prima della costituzione dell’ente, dando casa a 75000 persone”, perché nel 1940 il Ministero delle Corporazioni calcolò poi “che il fabbisogno di nuove case in Italia all’epoca era di almeno seicentomila vani l’anno”.

   Non si pensi poi che il fascismo abbia fatto “cose buone” sotto il profilo urbanistico: “come sintetizza lo storico Guido Melis, ‘il quartiere dell’EUR, sorto in previsione del ventennale del regime, rappresentò l’apogeo di questa ‘meditata edificazione di uno scenario’. Non un luogo di vita pubblica, ma una quinta teatrale in cui esibire il regime e la sua narrativa”. Del resto, anche l’architetto razionalista di Giuseppe Pagano, “tra i maggiori della sua epoca e in un primo tempo vicino al regime”, non lesinò le sue critiche, accusando il fascismo di impiegare denaro solo ‘per la costruzione di boriose montagne di marmo’ ”.

    Ora, sebbene possa sorgere il dubbio, a questo punto dell’argomentazione, che al cospetto di tali “boriose montagne di marmo” certi quartieri della periferia romana costruiti dai palazzinari negli anni 60 e 70 possano assomigliare a delle “enormi cloache di cemento”, non ci soffermeremo su questo tipo di considerazioni, che pur potrebbero risultare abbondanti, per procedere più speditamente ad esaminare come abbia fatto Mussolini, secondo Filippi, a riuscire a non realizzare alcuna “cosa buona”.

   Sarebbe infatti errato ritenere che le abbia realizzate anche nel campo delle infrastrutture e, più specificatamente, autostradale: in Italia, l’ideatore del concetto di autostrada “fu l’ingegnere Piero Puricelli, che per primo concepì la possibilità di costruire una rete di strade a scorrimento veloce, il cui costo sarebbe stato ammortizzato dal pagamento di pedaggi. Nel 1921 riuscì a far approvare il tracciato per una strada che avrebbe collegato Milano a Varese e alla zona dei laghi e che sarebbe stata limitata nell’uso ai soli veicoli a motore, riuscendo al contempo a far definire questo progetto, nato come esperimento imprenditoriale, di pubblica utilità. […] I tratti autostradali – meno di una decina quelli inaugurati tra il 1924 e il 1935 – avevano una lunghezza media di una settantina di chilometri e costituivano più un motivo di vanto per il regime che non un’opera di pubblica utilità”. Dunque, è evidente che trattandosi solo di circa 700 km di autostrade, in pratica i primi mai costruiti in Italia, la loro costruzione non può essere considerata una “cosa buona”.

   Filippi poi si sofferma a sfatare il mito che il fascismo abbia mai combattuto in maniera efficace la mafia. Certo, è vero che “Mori lavorò in maniera decisa e anche molto propagandata per sradicare il problema mafioso dalla Sicilia. Il suo sistema di contrapposizione dura, ai limiti della brutalità, portò in Sicilia uno stato di emergenza che bloccò le manifestazioni violente della mafia. Alcuni mafiosi finirono in galera o al confino. Grazie a questa battaglia e soprattutto al modo in cui i suoi interventi venivano diffusi dalla stampa, Mori diventò nella seconda metà degli anni venti una delle figure più in vista dello Stato, tanto da offuscare, a tratti, la popolarità dello stesso Mussolini”. Ma poiché il prefetto Morì fini col rappresentare, “agli occhi dell’opinione pubblica, un funzionario non del tutto assimilabile all’onda nuova di fascisti nelle istituzioni”, fini anche col risultare “una figura difficilmente controllabile che anzi, mano a mano che procedeva nei successi, rischiava di offuscare il regime”. Così Mussolini, forse per invidia o gelosia, “proprio mentre Mori chiedeva platealmente maggiori poteri per contrastare la mafia, diventando l’eroe italiano della legalità”, ebbe la brillante idea di dichiarare ufficialmente “che la mafia in Sicilia era stata sconfitta. Era il 1929. Contemporaneamente, ringraziava pubblicamente Mori per il suo impegno e gli comunicava il suo pensionamento per raggiunti limiti d’età (57 anni); la richiesta di rinvio del provvedimento inviata dallo stesso Mori fu respinta”.

   Anche da informazioni come queste si può dunque evincere che, avendo Mussolini spedito il prefetto Mori in pensione all’età di 57 anni, il giudizio del rapporto che il Fascismo ebbe con la mafia non può essere considerato positivo. Certo, “se si guardano le informazioni sui reati, bisogna ammettere che durante il regime fascista, tra il 1924 e il 1943, le statistiche ufficiali riportano un crollo dei reati mafiosi in Sicilia, che addirittura a partire dal 1929 praticamente scomparvero”. Ma questa circostanza è dovuta – secondo Filippi - soprattutto al fatto che molti delitti che prima erano annoverati tra quelli mafiosi poi vennero derubricati sotto altre denominazioni o categorie. Quindi, “sotto il fascismo la mafia, più che debellata, fu ‘silenziata’. Non solo nel senso che le venne impedito di commettere azioni plateali, ma anche che il suo agire non fu identificato, ma anzi taciuto”. È perciò evidente, alla luce di queste considerazioni, che nonostante le statistiche riportino, durante il fascismo, “un crollo dei reati mafiosi in Sicilia”, poiché le statistiche non sono in questo caso attendibili non vi sia stato alcun crollo, e dunque nemmeno alcuna “cosa buona”.

   Ora, il sospetto che può sorgere al termine della lettura di questo saggio, che contiene varie altre argomentazioni di analogo tenore, è che può anche darsi che il Fascismo abbia fatto meno cose buone di quelle che alcuni gli attribuiscono, ma che comunque ne abbia fatte “alcune”, il che è esattamente l’opposto di quanto l’autore si proponeva di dimostrare.

  Non si tratta di un caso, e sarebbe stato effettivamente strano che Filippi fosse riuscito a dimostrare quanto si proponeva. Come infatti è noto, tutti i dittatori del Novecento, Mussolini incluso, si sono, in misura maggiore o minore, resi responsabili e corresponsabili di crimini contro l’umanità, ma a rigor di logica risulta assai improbabile che non abbiano potuto acquisire “alcuni meriti”, o che non siano stati capaci di fare “alcune cose buone”. Nessuno dei grandi dittatori del Novecento, pur avendo avuto un ruolo fondamentale nel provocare immani tragedie, può essere infatti considerato politicamente un inetto, se non altro perché degli inetti non sarebbero mai riusciti a gestire tanto a lungo un così grande potere in Stati tanto importanti, ed è poco verosimile che una persona non inetta che gestisce un potere pressoché assoluto per molti anni non riesca a fare alcune “cose buone”, o ad acquisire “alcuni meriti”.

    Tanto per citare, a mero titolo di esempio, alcuni di questi “meriti”, la metropolitana di Mosca può essere considerata un “merito” acquisito da Stalin e le autostrade una “cosa buona” fatta in Germania da Hitler, così come può essere annoverato tra i “meriti” di Mussolini l’aver bonificato - sebbene, secondo Filippi, in minima parte - le paludi pontine. Ma l’ammettere che questi dittatori possano aver acquisito anche dei “meriti” di questo tipo non implica affatto una maggiore condiscendenza verso di loro, non implica cioè in alcun modo una posizione meno ferma e intransigente verso il loro operato politico complessivo e verso le loro enormi responsabilità anche sotto il profilo morale. Anzi, il saper distinguere tra l’amministrazione di un territorio o di un Paese sotto il profilo urbanistico o infrastrutturale e un’azione di governo nel suo complesso risulta indispensabile per comprendere meglio che i tragici effetti cui può condurre una dittatura sono indipendenti da una certa eventuale sagacia amministrativa degli stessi dittatori, consentendo così di prendere in maniera più pronta ed efficace le contromisure necessarie contro chi, ancora oggi, tende a realizzare nuove forme di dispotismo pseudodemocratico  avanzando alcune ipotesi di riforme che in alcuni ambiti circoscritti potrebbero anche rivelarsi efficaci.

  Anche se i grandi dittatori del Novecento avessero fatto non dieci, o cento, ma mille “cose buone” la questione essenziale non verrebbe modificata di una virgola, e il fatto che i loro eventuali meriti non siano in grado di giustificare i loro crimini o di mitigare le loro enormi responsabilità dovrebbe risultare a tutti evidente. Di conseguenza, è preoccupante che alcuni sedicenti “democratici” non tengano le due questioni accuratamente distinte. Chi non comprende questa differenza sostanziale probabilmente ritiene che il fare alcune “cose buone” o l’aver acquisito “alcuni meriti” possa invece costituire in qualche modo un’attenuante, ma in questo modo dimostra di possedere una concezione molto approssimativa e poco democratica della democrazia.

    Alla luce delle recenti discussioni sorte intorno a recrudescenze di atteggiamenti fascisti, o intorno agli elementi di architettura fascista ancora presente in molte nostre città, e dopo le prese di posizione in merito di diversi leader di partito, un sospetto si rivela forse più realistico di altri: nell’attuale panorama politico nazionale, in cui il principale partito della sinistra italiana si sta appiattendo su posizioni populiste e giustizialiste, e dunque essenzialmente illiberali, la battaglia che si può condurre contro l’ipotesi che il fascismo abbia potuto acquisire “alcuni meriti” può apparire utile per cercare di serrare le fila e cercare di sottoporre l’elettorato liberale e democratico a un ricatto essenziale: chi non è disposto a sostenere una simile tesi, palesemente falsa, oltre che inutilmente falsa, ha qualche affinità o complicità col fascismo.

   Questo ricatto, tuttavia, potrà far sorgere ancor di più il sospetto, persino in coloro in cui esso non era già affiorato, che il modo fazioso e strumentale in cui il tema dell’antifascismo viene utilizzato da certa sinistra illiberale possa finire col portare maggiori consensi anche a quella destra che nutre effettivamente qualche nostalgia o simpatia per il fascismo. Il libro di Francesco Filippi sembra infatti poter produrre proprio quest’effetto, per cui se ne consiglia la lettura solo ad antifascisti di robuste convinzioni democratiche, giacché su tutti gli altri potrebbe conseguite risultati opposti rispetto a quelli che sembra proporsi.

  F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri. Torino,