Un maestro e un amico. Ernesto Rossi e il suo ritratto di Gaetano Salvemini
Era da pochi mesi finita la prima mondiale quando Ernesto Rossi conobbe Gaetano Salvemini. Fu una domenica a Firenze, in una saletta nei pressi del cimitero degli inglesi in cui lui ed altri si erano ritrovati per discutere di sistemi elettorali. C’erano una cinquantina di persone, per lo più collaboratori o lettori dell’Unità, la rivista che Salvemini diresse dal 1911 al 1920.
In quella saletta un tizio stava parlando in mezzo a una gran confusione e continuò a parlare per più di un’ora. Alla fine del suo discorso nessuno ci aveva capito nulla e quando Salvemini prese la parola iniziò il suo intervento così: “l’amico che abbiamo ora ascoltato, ha detto che…” e a poco a poco – racconta Rossi - “fu come se, in un treno che è stato trascinato a lungo sotto la pioggia da una sbuffante macchina a vapore, qualcuno strusciasse col fazzoletto pulito sul vetro del finestrino sporco di fuliggine. Parlava ed il vetro diveniva sempre più limpido, e sempre più chiaro si vedeva il paesaggio fino al lontano orizzonte. Dopo avere riassunto non quello che aveva detto, ma quello che avrebbe dovuto dire il precedente oratore, Salvemini prese a sviluppare il filo delle sue deduzioni. Con una logica così semplice e così rigorosa che non sarebbe stato possibile non capire. Alla fine della sua esposizione il sistema della rappresentanza proporzionale, che prima ci sembrava un terribile rompicapo, era divenuto la cosa più semplice del mondo”. Allora, rivolto chi gli sedeva accanto, Rossi commentò: “per un intellettuale, chiarezza equivale ad onestà”.
I primi passi dell’amicizia tra Rossi e Salvemini furono piuttosto difficili. Quando si conobbero Rossi aveva ventidue anni e nessuna esperienza politica: “ero andato al fronte – scrive - come volontario di guerra, non per Trento e Trieste, ma per impedire che il militarismo tedesco soffocasse, per tutta un’epoca, la libertà in Europa. Durante l’ora della cosiddetta ‘morale’, avevo letto e spiegato ai miei soldati I doveri dell’uomo di Mazzini. Tornato a Firenze, mutilato, non potevo ammettere che tutte le sofferenze patite e il sacrificio di tante giovani vite (avevo perduto al fronte anche mio fratello maggiore e i miei due migliori amici) venissero vilipesi dai socialisti, che erano stati in gran parte imboscati nelle fabbriche d’armi, e che, fino a Caporetto, avevano adottato la vile politica del <<non collaborare, né sabotare>>”.
Rossi confessa poi che se non avesse incontrato Salvemini sulla sua strada al momento giusto, sarebbe probabilmente “sdrucciolato” nei Fasci di combattimento, “che – conviene ricordarlo – avevano allora un programma a sinistra del programma del Partito socialista”: fu infatti Salvemini a ripulirgli “il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalla bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa”.
Rossi ricorda anche che Salvemini era un uomo di scienza e come tale fu “continuamente preoccupato di sempre più raffinare gli strumenti logici del suo pensiero, di definire in modo univoco il significato delle parole, di collaudare ogni anello nella catena di sillogismo per accertare che tenga ben salda”. Pur essendo ateo, il suo ateismo non gli impedì mai “di avere il più grande rispetto per le persone religiose, ma, per essere religioso, bisognava dimostrarlo con tutta la vita; non solo biascicare giaculatorie in chiesa”.
Ma Salvemini era anche un educatore, che “rispettoso come nessun altro maestro della personalità del discepolo” cercava di aiutarlo a ritrovare se stesso accompagnandolo per mano nei momenti difficili e inducendolo a domandarsi il perché delle cose, così come avrebbe potuto fare un fratello maggiore e più saggio. Voleva che ogni suo allievo arrivasse per conto proprio “alla scoperta della verità”, che provasse la “soddisfazione di questa scoperta”, che la verità diventasse davvero sua, “sangue del suo sangue, midolla delle sue ossa, non qualcosa di appiccicato con lo sputo, tanto per fare buona figura o per prepararsi dei titoli accademici”.
In quanto grande educatore, non poteva che ispirarsi alla lezione socratica: come Socrate, Salvemini aveva infatti “un altissimo concetto della dignità umana” e “cercava la giustizia per la medesima esigenza morale e con la medesima passione con la quale cercava la verità; perciò è stato per tanti giovani un maestro di vita; perciò è stato il più deciso avversario del fascismo, fin dal suo primo apparire”. Quando parlava con dei giovani, “non profittava mai della sua superiorità per chiudergli la bocca; cercava, invece, di trovare nei suoi discorsi quel che c’era di buono, da prendere sul serio”.
Essendo un educatore fedele alla lezione socratica, era anche un “seminatore d’idee”, che “da gran signore regalava a tutti”. Ritrovandole spesso in giro con l’etichetta di altre persone importanti, non si sognò mai “di rivendicarne la proprietà”, anzi, “era felice che, con quella etichetta, potessero penetrare in ambienti in cui col suo nome non sarebbero state accettate”. Il fatto poi che altre persone “arrivassero alle stesse conclusioni richiamandosi a teorie positivistiche o a teorie idealistiche, al liberismo o al socialismo, al cristianesimo o al laicismo, aveva per lui scarsa importanza. Importante era che si mettessero d’accordo su soluzioni pratiche da valere per qualche anno, su particolari problemi concreti”.
Anche negli ultimi giorni della sua vita Salvemini continuò sempre a parlare di politica. Dal suo letto, dopo essersi raccomandato che la sua bara fosse trasportata dai suoi più giovani amici, con un filo di voce ricordò a quelli presenti come i socialisti della fine del XIX secolo fossero persone buone: “volevano dare un tozzo di pane alla povera gente. Turati era molto buono. I comunisti non sono buoni, sono dei dogmatici. I preti… i preti… è il sistema che li fa quello che sono”.
Dopo il suo esilio americano, quando tornò in Italia, Salvemini abitò ancora per qualche anno a Firenze, “in una piccola pensione al terzo piano senza ascensore: nella camera da letto, che gli serviva anche da studio, non ci si poteva rigirare per le pile di carte che teneva sulle seggiole, in decrepite valigie da emigrante, legate con cordicelle, e in cassette d’ordinanza mezze sfondate; ma – nonostante dovesse mantenere la moglie e la sorella – riusciva ancora ad aiutare qualche studente bisognoso”.
Pare che nessuno, neanche i giovani da lui aiutati, siano mai venuti a sapere chi fosse il loro benefattore. Solo in qualità di suo esecutore testamentario, nel 1953, Rossi venne a conoscere il caso di un giovane pugliese al quale Salvemini era solito far prevenite 25000 lire al mese perché potesse arrivare alla laurea. La sua disponibilità verso tutti i più bisognosi, e in particolare verso i suoi studenti, la sua onestà intellettuale, la sua schiettezza e il suo coraggio, sono un lascito raro e prezioso, che oggi più che mai ci ricorda lo spessore umano e culturale di un grande storico che fu per molti suoi allievi un amico sincero e un maestro esemplare.
Ernesto Rossi, un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, confino. Scritti e testimonianze a cura di Giuseppe Armani, Kaos edizioni, Milano, 2001.