Massimo Cacciari e il primato della politica
Potrà mai il capitalismo soddisfare quell’istanza di libertà che ne è a fondamento? Una politica autonoma potrà evitare che esso assuma sempre più le sembianze di una religione? Il politico per vocazione, il politico responsabile, è chiamato a rispondere a domande come queste. “Se è l’Ordine economico a dettare le nuove gerarchie di valore – scrive Massimo Cacciari ne Il lavoro dello spirito (Adelphi, 2020) - esso non è in grado, per i suoi stessi principi, di risolvere al proprio interno l’idea della geistige Arbeit da cui quelle stesse gerarchie erano nate. Lavoro spirituale che ora può assumere la figura della scienza e dell’agire politico, ma che, nella sua essenza, significa liberazione da ogni lavoro comandato. È necessario un Politico che sappia rappresentare tale idea all’interno del sistema capitalistico, una Autorità politica che ‘convinca’ della sua perseguibilità – possibilità reale in quanto immanente al dominio stesso della forma comandata del lavoro. Il capitalismo non può fare a meno di agire anche una tale idea. Il suo sistema può salvarsi, e cioè credere e far credere di poter indefinitamente avanzare, soltanto facendosi politico.”
Il ruolo della politica differisce in questo dalle altre professioni e da quello della scienza. Nel contesto della società contemporanea, “nessuna professione che si collochi nell’ambito del processo di razionalizzazione, e dunque faccia suo l’imperativo all’esattezza che esso richiede e la specializzazione che ne consegue, potrà decidere o aiutare a decidere nel contesto politeistico dei valori; nessuna professione disporrà mai di alcuno strumento valido per affermare quali fini debbano essere perseguiti nella Civitas, né alcun criterio per distinguere con chiarezza il divino dall’idolatrico”. Lo scienziato sociale avrà in questo scenario il compito di dimostrare come i valori presupposti siano frutto di una decisione che “non può essere a sua volta fondata. Ma nulla testimonia con più energia del dominio della forma occidentale di razionalità che la dimostrazione dell’irrazionalità di ogni gerarchia di valore”.
Alla luce di queste premesse, e facendo riferimento a Max Weber, Cacciari osserva quindi che, così come lo scienziato rinuncia a porsi come un riferimento essenziale rispetto a “un Sistema della libertà”; il politico rinuncia alla pretesa di sostenere su fondamenti razionali “i valori e i fini per cui combatte”. Weber ci fa infatti comprendere che “lavoro scientifico e lavoro politico partecipano ad un dramma in cui sono contemporaneamente protagonisti e antagonisti”, e che la dimensione politica costituisce “l’aporia immanente della scienza come professione”.
Al tempo stesso, tuttavia, “il politico in tanto sarà professione, e cioè lavoro intellettuale, in quanto saprà orientarsi sul paradigma dell’impresa tecnico scientifica”. Questa dimensione di cui deve rendersi partecipe, non implica però una sua neutralizzazione, anche perché essa costituirebbe a sua volta una posizione politica a pieno titolo. Il politico ha una responsabilità che, a differenza di quello dello scienziato, è globale: “non è chiamato soltanto a rispondere, a essere in causa per tutte le conseguenze dei propri progetti e dei propri atti e per i modi e i mezzi attraverso i quali intende perseguire i propri fini; in quanto professione il Politico è chiamato, da un lato, a calcolare, misurare, analizzare in analogia con il metodo del lavoro scientifico, ma in quanto, dall’altro, partecipante esplicitamente alla lotta sul terreno dei valori, egli sarà responsabile della sua scelta e dunque del fondo non razionalizzabile che la decisione comporta. Responsabilità globale per il politico è saper rendere ragione del proprio agire e insieme riconoscersi colpevole della insuperabile componente irrazionale che in questo agire si esprime”.
L’essenza del politico consiste dunque per Cacciari “nel saper decidere”, mentre “la scienza aiuta a prevedere, ma non a prendere decisioni. È comunque sulla base del concetto di responsabilità, e solo nella misura in cui sia assunto a effettivo valore dell’agire, che lavoro intellettuale e lavoro politico possono pensare di trovare una efficace mediazione. Il concetto di responsabilità costituisce la sottile striscia di terra lungo la quale scienza e politica, sapere e potere possono incontrarsi. Il metro che permette di com-misurarle”.
La responsabilità della politica appare ancor più fondamentale da quando “la crisi della rappresentanza si accompagna al dilagare dell’idea della possibile identificazione tra Governo e pubblica opinione. Il riconoscimento della complessità sociale, che sta a fondamento del politeismo democratico, scompare nel mito del Popolo. E il Popolo esige im-mediatamente il Capo, ovvero esige che questi proclami: sono il tuo Capo e perciò ti seguo. La crisi della rappresentanza diventa, allora, la crisi di tutti gli elementi e le funzioni che mediano tra società civile e Governo”, producendo, nel migliore dei casi, quelli che Carl Schmitt chiamava “i doveranti”, ovvero funzionari ligi alla lettera delle norme che in fondo costituiscono, sul versante burocratico amministrativo, l’altra faccia di ciò che Weber definiva, in ambito scientifico-culturale, “specialisti senza spirito”. Insieme agli “edonisti senza cuore” questi caratterizzavano per Weber la società quale si stava profilano all’orizzonte del secolo appena trascorso, una società sempre più complessa che, a fronte della crescente necessità di una politica responsabile e competente, tende invece, e in maniera apparentemente paradossale, ad affidarsi ad una moltitudine incompetente. Di fronte a “questo nulla che si immagina – come scrive Weber – “di essere asceso ad un grado di umanità mai raggiunto”, il lavoro intellettuale rischia di rivelarsi impotente: ma solo se esso saprà nutrire l’azione politica questa sarà in grado di difendere la propria autonomia e fornire un valido antidoto allo sviluppo liquido di “un cosmopolitismo dilagante e indifferenziato”, altrimenti destinato ad essere amministrato solo da Capi che, come illusionisti più o meno abili, sappiano dare l’impressione di saperne gestire la straordinaria e sempre più conflittuale complessità.
Ora, alla luce di questo scenario, realistico e non rassicurante, prospettato da Cacciari, l’interrogativo che sorge più spontaneo non riguarda le conclusioni cui la sua argomentazione perviene, ampiamente condivisibili, quanto una sua premessa, del resto non indispensabile per giungere a quelle conclusioni: quella responsabilità di cui si parla, e che costituisce il luogo di un possibile incontro di scienza e politica, non è sempre responsabilità rispetto a dei valori? E se i valori hanno fondamenti irrazionali, l’essere responsabili rispetto ad essi cosa può in definitiva rivelarsi se non un mero esercizio di coerenza?
Cacciari sostiene che Weber comprende come “il Politico, se per un verso può collegarsi al lavoro scientifico sulla base di un’etica della responsabilità, non può non decidere, in ultima istanza, che in forza di convinzioni. La sua virtus consiste allora nel saper mediare le due dimensioni. Accordo precario al limite dell’impraticabilità”. Per la politica il Beruf non coincide con quello delle professioni, ma si colloca su un piano diverso e più alto: in essa etica della responsabilità ed etica della convinzione si integrano e completano: esse “non costituiscono – scrive infatti Weber - due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la ‘vocazione per la politica’”, tant’è che alla fine si può giungere alla conclusione che ogni etica non possa che basarsi su “convinzioni”: “l’etica della responsabilità” declinandole e interpretandole alla luce delle conseguenze delle loro ipotetiche applicazioni; “l’etica della convinzione” propriamente detta prescindendo invece da tale mediazione.
Ma in questo caso, se il politico non può non decidere, se deve farlo alla luce dell’etica della responsabilità e delle sue convinzioni, e se queste ultime non possono essere razionalmente fondate, e se la stessa responsabilità presuppone comunque l’esistenza di valori di riferimento, dato che senza di questi nessuno potrebbe ritenersi responsabile di alcunché, e se questi valori non possono essere anch’essi razionalmente fondati… se tutte queste premesse sono vere allora lo scenario che si profila è quello di un agone politico in cui scelte e comportamenti diversi od opposti risultano tutti ugualmente legittimi, in quanto nessuno ha fondamenti razionali migliori di altri. Se le convinzioni cui i politici ispirano le loro scelte sono esentate dal dover esibire un fondamento razionale, vi potrà anche essere un accordo di metodo, le varie proposte politiche potranno anche condividere la mediazione di conoscenze scientifiche e tecniche, ma riusciranno anche così a condurre con eguale legittimità in direzioni diverse ed opposte senza che sia possibile individuare un criterio che consenta di preferirne alcune ad altre, a parte quello della razionalità con cui assecondano i rispettivi valori di riferimento e perseguono i loro diversi scopi.
La questione era già stata discussa da Ludwig Wittgenstein e Karl Popper all’interno di una famosa discussione sorta davanti a un caminetto durante una delle riunioni del Circolo di Vienna: se di valori non si può parlare, allora il discutere di politica si riduce ad un esame delle scelte e dei comportamenti che possono rivelarsi razionali rispetto ad una convinzione, o efficaci per conseguire un certo scopo, sia che si voglia tener conto delle conseguenze delle proprie scelte sia che non lo si faccia, ma tra chi asseconda convinzioni diverse e tra chi persegue diversi scopi non potrà che esservi una sostanziale incomunicabilità. In altri termini: o esiste una ragione comunicativa attiva, un continuo esercizio al suo sviluppo che renda sensato discutere di valori e convinzioni e che sia in grado di argomentare in modo efficace per fondare le proprie scelte politiche su un’etica che a sua volta non sia fondata soltanto su un momento mistico e ineffabile (per quanto proprio così la dimensione etica si manifesti, in ultima istanza, in ogni coscienza), oppure di politica avrà senso discutere solo valutando la coerenza delle proprie azioni rispetto a scopi e a valori, e poi pragmaticamente, a posteriori, alla luce dei fatti e delle conseguenze delle varie scelte, delle strategie adottate e delle decisioni prese, ma senza mai accedere a un vero confronto tra le convinzioni che stanno a fondamento dei vari progetti politici.