Storie di fate, di eremiti e di pulcini d'oro
Una bella poesia di Alcmane, ricordo dei tempi del liceo, recita così: “Dormono le cime dei monti /e le vallate intorno, i declivi e i burroni; / dormono i rettili, quanti nella specie/ la nera terra alleva, le fiere di selva, / le varie forme di api, / i mostri nel fondo cupo del mare; / dormono le generazioni /degli uccelli dalle lunghe ali”.
Tra le alpi apuane che guardano il mare, nelle notti d’inverno, quando uccelli notturni facevano udire il loro lugubre verso e qualche lupo il suo richiamo dal folto del bosco, in case dimesse e intorno a un focolare si raccontavano storie. Su queste montagne i vecchi “non conoscono il termine ‘leggenda’; essi conoscono semplicemente delle storie: leggenda è per loro un termine sconosciuto e alla richiesta di raccontare una leggenda ci guardano con meraviglia e imbarazzo. La ragione di tutto questo sta nel fatto che il termine ‘leggenda’ è qualcosa di codificato e classificato secondo determinati motivi e schemi che sono stati definiti dal mondo della cultura. Tutto ciò che l’anziano della montagna ci racconta è una storia che lui stesso ha sentito raccontare, alla quale si mescolano ricordi personali, fatti accaduti in passato, eventi particolari caricati di elementi fantastici e così via. Non è quindi una semplice storia o ‘leggenda’ quella che ci comunica, bensì una cultura ben precisa: quella che esprime le difficoltà della vita quotidiana, le fatiche del lavoro, l’eterna lotta fra il bene e il male, le paure, i sogni e i tentativi di dare una giustificazione a fatti misteriosi e inspiegabili”.
Così scrive Paolo Fantozzi, nell’introduzione a questo suo Storie e leggende delle Alpi Apuane. Sulla presenza del marmo, quello stesso che Michelangelo veniva a prelevare sin qui per scavarvi i suoi capolavori, di storie c’è n’è una particolarmente suggestiva che può forse essere riassunta senza minarne troppo il senso: il signore aveva dato incarico a un angelo scansafatiche di formare gli Appennini mescolando il contenuto di vari sacchi, ma mentre passava sopra le apuane decise di fermarsi su una nuvola e di farsi un pisolino. Risvegliato e rimproverato all’improvviso da un altro angelo, si riscosse allarmato urtando uno dei sacchi e facendone precipitare il contenuto. Fu così che il marmo si sparse sulle apuane.
Già Tito Livio ci dava notizie del popolo impavido e doloroso che abitava queste montagne, fiero della propria indipendenza e della propria terra, e di queste montagne parlano tra gli altri Dante, Boccaccio e l’Ariosto. Per secoli i loro abitanti hanno vissuto in un mondo pieno di mistero di cui ancora oggi non s’è persa traccia: un mondo fatto d’improvvise rivelazioni e di sorprese, di folletti e di elfi, degli scherzi, spesso di cattivo gusto, del Linchetto o del Buffardello e soprattutto delle storie lente raccontate dai più vecchi a veglia nelle lunghe notti d’inverno davanti al camino. All’ombra dei lumi a olio o delle candele, quelle storie sapevano incutere timore e un senso di mistero: tutto nelle stanze e sulle pareti fremeva, gettando il proprio riflesso fioco sulla vita del giorno appena trascorso e nulla appariva più insignificante o casuale: ogni cosa aveva la sua ragione d’essere o di poter accadere, di essere stata proprio così, stabilita da una volontà arcana celata nel folto dei boschi, sui declivi erbosi o più in alto, tra le alte vette superbe e innevate.
Storie eroiche o tristi, di persone umili o di re, di tesori appartenuti alle fate o di tane che urlano per la presenza di spiriti; storie di eremiti arcigni e di galline con pulcini d’oro, o di animali sotto incantamento che appaiono come dal nulla, bianchi o dorati alle prime luci dell’alba. Storie di anime dei morti che come ombre in catene fanno sentire la loro presenza, o di santi schivi e gentili, di gente buona e per bene, come per esempio Fra Baldassare. Si diceva fosse figlio del delfino di Francia, chissà come finito sui monti che guardano la Versilia. Costruiva croci che poi conficcava sulle loro cime quando vi si recava a pregare.
Oppure la narrazione di figure ancor più alte come la Madonna in persona, all’eremo di Calomini, innamorata della sua roccia alle pendici della Pania Secca, o più basse, come il Mugnaio di Eglio, punito per la sua incredulità. E poi le infinite abitazioni del diavolo, il racconto dell’estirpazione della Mandragola dalla cima del Procinto nelle notti di luna piena per curare certi mali, o delle lacrime del Linchetto che diventano cristalli di quarzo, fino alle visite dei magi sui loro quadrupedi alati sulla Pania della Croce prima dell’epifania e a una donna soave, soffusa e sinistra, fatta di nebbia, sul limitare di un certo bosco.
Queste storie suscitano la nostalgia delle credenze popolari più semplici, fanno venire voglia di abbandonarsi a un’ingenuità profonda e leggera. Verrebbe quasi da chiedersi cosa potrebbe ancora renderla possibile, quest’ingenuità del credere a storie simili, cosa potrebbe originare il piacere di lasciarsi avvolgere da certe atmosfere narrative. La risposta a queste domande può forse essere trovata in una certa disposizione spirituale ben colta e descritta da Anna Maria Ortese nell’epigrafe al testo prescelta dall’autore: “credo in tutto ciò che non vedo e credo poco in quello che vedo. Credo che la terra sia abitata anche adesso in modo invisibile. Credo negli spiriti dei boschi, delle montagne, dei deserti. Credo anche nei morti che non sono più morti. Credo nelle apparizioni, credo nelle piante che sognano, nelle farfalle che ci osservano improvvisando, quando occorre, magnifici occhi sulle ali. Credo nel saluto degli uccelli che sono anime felici e si sentono all’alba sopra le case; ma forse le cose amate sono soltanto invisibili, non perse”.
Paolo Fantozzi, Storie e leggende delle Alpi Apuane, Apice libri, Sesto Fiorentino, 2020.