Nei ripostigli del cuore, sentire le cose parlare
Come un pupazzo a molla che salta da un ventre di legno, preda del desiderio di prendere ancora e sempre parte alla vita, o come un foglio accartocciato in un cestino e riaperto con circospezione per ritrovarvi le tracce di quanto non è mai accaduto, o “un sogno impalpabile di luce e di calore/che vaga tra l’erba e le piante del prato”, siamo alla fine questo stesso qualcuno afferrato da “una acuta ed inutile voglia” di sedersi per terra e di non fare più nulla per lasciarsi sorprendere dal proprio sguardo sul mondo. Si tratta solo di sapersi riconoscere in pochi momenti essenziali in cui si resta sospesi, in quei pochi smisurati istanti in cui la vita intera pare tirare le fila e disegnare un profilo nell’aria, il nostro o quello di uno sconosciuto, di quel pupazzo un po’ sinistro e ignoto che siamo, sogni di altri non meno ignoti, di un destino ridente che ci fa assomigliare ad un piccolo Dio con la sua aura di banalità che lo accompagna come un’ombra.
"Cantiamo ciò che non abbiamo": in questo verso, che dà anche il titolo a questa raccolta di poesie di Marco Giovannetti, sembra riecheggiare, come in un romanzo di Vittorio Saltini di un po’ di anni fa, un verso di Antonio Machado: "Se canta lo que che se pierde": quel che non abbiamo o abbiamo perduto è infatti ciò che rimane accartocciato nel cestino, è “l’angoscia di non poter urlare il nostro niente/come un ciclope accecato, irriso”.
Ma col niente bisogna averci a che fare, perché costituisce per tutti un cimento elettivo, un fondamentale apprendistato, un esercizio vitale anche quando può essere inconsapevole, un puro irrilevante intrattenimento o una distrazione. Così, per esempio, in una poesia che trae spunto da una piazza in una giornata di sole, animata da bambini che giocano: "La piazza che fa finta di niente/ è un giorno qualunque, noioso / C’è gente che vende il suo niente, / chi compra acquista il suo modo di fare. / La piazza dona a tutti il suo sole. / La piazza è dei piccoli, / i grandi stanno solo a guardare."
Quel che si perde non cessa mai d’inviare i suoi barbagli di luce: se ne sta acquattato nei ripostigli dei giorni ma poi riesce sempre ad aprirsi un varco verso l’aperto e la nostalgia di una possibilità nuova, sebbene già scaduta. Sa sempre ritrovare il suo canto, perché in fondo solo ciò che manca è reale, e per questo ritorna. Ritorna per sussurrare che saresti ancora capace di ricominciare da capo, ma che “tutto ciò che hai fatto lo impedisce”, come se avesse tracciato le feritoie di una cella invisibile e segreta.
Una delle poesie più brevi della raccolta, Prigione, mette in evidenza questo stato d’animo e questa consapevolezza non meno bene di un classico, e ricorda in qualche modo l’ultima e giustamente famosa poesia di Sergej Aleksandrovič Esenin, i cui due versi finali recitano così: morire in questa vita non è nuovo, ma più nuovo non è nemmeno vivere. Nella breve poesia del Giovannetti cui si fa riferimento questa dimensione in cui la vita resta sospesa a un nulla di senso, a una contraddizione apicale, a una mancanza di nuova vita, viene declinata in modo meno estremo e più articolato: "Vivere senza il piacere di vivere,/cioè diversamente poter vivere /anche se diversamente non vivresti."
Questo “diversamente poter vivere” evoca il desiderio di poter essere amati per “un solo gesto”, o “una mezza parola”, che conserva lungo tutta questa raccolta la capacità di contrastare quest’esperienza del niente e della contraddizione. Sullo sfondo di ogni poesia, anche delle più disincantate, rimane infatti sempre un unico possibile volo: quello che apre le ali nella speranza muta di essere compresi, riconosciuti, ovvero il desiderio di “esserci” per qualcuno e di poter vedere insieme “le cose parlare”.
Anche mentre cammina da solo sul selciato di un paese antico, questo desiderio sembra essere per l’autore l’ultima luce, quella che non muore e accompagna ogni solitudine, capace di sfiorare con i suoi riflessi dorati anche le mura stanche della propria anima. Così in San Biagio (Montepulciano): "Il cappotto, gettato con un sogno sulle spalle. / Le mani ne reggono i lembi./ Vento, aria da neve./ Non un passante/Le pietre antiche mi segnano al passaggio/come fossi uno spettro conosciuto. Il cappotto mi vuole volar via / per essere bianco autonomo fantasma. / Non un passante. / La luce / non so da dove venuta / fa uscire dal buio le antiche facciate, / gli antichi umidi muri".
La presente raccolta è stata pubblicata a cura dall’autore, che pare non si sia dato nemmeno la pena di cercare un editore. Non per una forma di superbia o d’eccessiva sfiducia negli attuali addetti ai lavori (essendo stato per diversi anni vice-direttore generale della Siae ne avrebbe anche conosciuti), ma forse per una forma di distacco, per un’istintiva repulsione verso compromessi o chiacchiere vane, per una forma di fedeltà a quanto d’essenziale in tutta una vita questi versi hanno saputo raccogliere.
In un’epoca in cui la poesia pare voler tornare a una sorta d’impressionismo spontaneistico, o in cui tende a produrre argute sorprese linguistiche, o messaggi da decriptare, quasi fosse concepita solo per lusingare dotte intelligenze, pare sicuramente una scelta comprensibile. Qui siamo infatti di fronte a poesie che, come nei classici più limpidi, non impediscono a nessuno il piacere di riconoscersi nei loro versi, la cui profondità è evidenziata dalla loro semplicità e dall’integrità della loro ispirazione, che costituisce infatti un aspetto cruciale del loro programma estetico. Lo si comprende forse meglio leggendo una poesia che assomiglia a una riflessione e che implicitamente contiene in nuce tutta un’estetica: "La semplicità / è apprezzata degli ignoranti / e dai saggi. / Dagli uni / perché credono di capirla, / dagli altri / perché / vi riconoscono / il perfetto risultato del complesso. / Agli stupidi piace il complesso / poiché / al suo interno / possono nascondere la loro vacuità".
Ma la vacuità non è mai da nascondere e anzi può essere bello scoprirne i risvolti segreti soffermandosi sulle circostanze che la vita ci offre come occasioni per cogliere un vuoto, una mancanza profonda, o l’alone di una nostalgia, persistente sullo sfondo, di un senso diverso, di un nuovo pretesto per vivere ancora. Allora, “quando il parlato e l’apparire non bastano” – come scrive Maria Cristina Locori, curatrice del volume, nella sua presentazione – la penna “è una lente d’ingrandimento che mette a fuoco situazioni insospettate ma sotto gli occhi di tutti”, illuminando “fotogrammi che si animano solo quando si è pronti a coglierne il valore”.