Il ricordo delle foibe, tra omissioni e oblio

    Il libro di Erik Gobetti E allora le foibe è ricco di considerazioni interessanti e in parte condivisibili, anche se al prezzo di voler talora fronteggiare, seppur con dati indubbiamente utili alla ricostruzione della vicenda, delle tesi che l’autore individua come falsi obiettivi polemici. Nel perseguire quest’intento, pur essendo una buona fonte d’informazioni e di analisi su alcuni aspetti, risulta omissivo su almeno due questioni centrali: quella relativa alle modalità specifiche con cui vennero uccisi gli infoibati e il lungo oblio sulla loro sorte.  

   Ma procediamo con ordine. Gobetti ricorda giustamente che il regime fascista aveva imposto “l’uso obbligatorio della lingua italiana nei luoghi pubblici e persino nelle chiese (con il Concordato del 1929)”, che aveva italianizzato “forzatamente nomi, cognomi e toponimi”, ordinato “la chiusura delle scuole, delle associazioni e dei luoghi di ritrovo sloveni e croati. Oltre alla minaccia portata alle identità nazionali, la politica fascista aveva anche comportato “un generale impoverimento della popolazione slava, esclusa dai posti di potere, da molti impieghi pubblici e svantaggiata in ogni contesto lavorativo.” Ma non ci fu solo questo: sull’isola di Arbe/Rab, per esempio, a poche miglia marine da Fiume, vennero “internate in totale, nell’arco di circa un anno, dall’estate del 1942 al settembre del 1943, 30.000 persone”, di cui almeno 1500, in gran parte donne e bambini, morirono per fame, inedia ed epidemie.

 

   Certo, Gobetti ha ragione: il fascismo non si era comportato affatto bene, per usare un lauto eufemismo, verso le popolazioni slave che vivevano nei territori occupati durante il secondo conflitto mondiale, anche se forse, complessivamente, meglio dei tedeschi; ed è anche vero che noi, in Italia, ci siamo ricordati di quello che aveva fatto in quelle zone solo dopo esserci ricordati delle Foibe; ma in che misura questa sia una giustificazione per i crimini commessi successivamente, per lo più a guerra finita, dai partigiani titini su molti civili italiani che non si erano macchiati di alcun crimine, e soprattutto alla luce delle modalità specifiche in cui tali crimini avvennero, è una questione su cui le risposte di Gobetti risultano poco chiare e piuttosto evasive, oltreché tendenti a spostare l’attenzione su altri aspetti successivi e collaterali.

   Quando infatti sostiene che l’equiparazione della tragedia delle foibe con l’Olocausto “è un topos che si sta affermando sempre più spesso nell’uso politico di questa vicenda”, può avere ragione, perché viene da alcuni usato anche in questo modo, ma non è questo l’aspetto centrale della questione. Non è affatto necessario equiparare la vicenda delle foibe alla Shoah per ritenere che siano entrambe vicende ampiamente degne di essere ricordate. La Shoah naturalmente è stata un tragico crimine contro l’umanità di proporzioni di gran lunga maggiori, che ha coinvolto un numero di persone molto più grande, storicamente e geograficamente molto più esteso. Il tipo di motivazioni che l’ha innescata, come l’odio razziale e l’antisemitismo, sono inoltre un fenomeno storico ancora più barbaro ed esecrabile delle motivazioni prevalentemente politiche che possono aver originato i crimini verso gli italiani e le altre vittime dei partigiani titini, ma questo non impedisce affatto che entrambi possano essere considerati dei crimini contro l’umanità, e se vi sono narrazioni strumentali in merito, come capita sempre a proposito di qualsiasi ricostruzione storica, questo non è una buona ragione per sminuire la gravità di quanto accaduto in alcun caso.

   Il paragone con la Shoah pare infatti costituire, nel saggio di Gobetti, un fantasma polemico e retorico che solo in parte è giustificabile in base a una certa ricorrenza sui media e nell’opinione pubblica di un simile paragone. Questo fantasma gli consente di spostare l’attenzione su aspetti quantitativi, su numeri e percentuali, su sproporzioni abbastanza scontate e non sempre decisive per comprendere le caratteristiche salienti della vicenda.

   “Fermo restando che ogni violenza gratuita è condannabile, - scrive Gobetti - da un punto di vista storico il paragone non ha alcun senso. Non tanto per l’ordine di grandezza dei due fenomeni, ma soprattutto per le motivazioni degli aggressori e per la tipologia delle vittime. Le uccisioni commesse sul confine orientale nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 non possono essere in alcun modo considerate un tentativo di genocidio e le vittime non sono individuate in quanto appartenenti ad uno specifico popolo”.

   Ma anche ammettendo che l’intento primario dei partigiani titini non fosse quello di arrivare a un genocidio, resta vero anche che in quella zona uno specifico popolo ne pagò le conseguenze più di altri, e poiché si tratta del popolo italiano è assolutamente normale che in Italia si avverta l’esigenza di ricostruire quella vicenda più di quanto non accada con altre analoghe su confini molto più distanti da noi. Nonostante le profonde differenze, vi furono infatti anche le similitudini, e queste non sono di ordine quantitativo, ma riguardano l’atrocità dei crimini commessi.

   Forse l’obiettivo delle violenze non furono gli italiani in quanto tali, ma essi furono comunque tra le vittime più numerose di quelle atrocità in quella zona di confine. In ogni caso, se anche non lo fossero questo poco cambierebbe circa il significato storico e politico di quegli eventi, che resterebbero comunque di una gravità assoluta e raccapricciante, e non tanto per i numeri e le percentuali a confronto con altre di vicende analoghe in altre zone di confine nella fase post bellica, ma soprattutto per le loro modalità, su cui Gobetti sembra invece calare un velo opaco. Quando infatti scrive che, “al di là della comprensibile memoria traumatica delle vittime, queste violenze non sono condotte da bestie assetate di sangue e accecate dall’odio, come vengono spesso rappresentate”, non si capisce bene a quali autorevoli fonti queste definizioni siano riconducibili. In ogni caso, precisa subito che “tra le persone, pur numerose, che vengono processate sommariamente non figurano bambini e le donne sono in numero limitato, perché ben poche donne ricoprivano incarichi importanti nel regime fascista. La volontà degli aggressori è infatti quella di colpire solo determinate categorie di persone, ritenute, a torto o a ragione, responsabili dell’oppressione subita per più di due decenni”.

   In realtà, molte di quelle vittime non furono più “responsabili” di una qualche forma di connivenza col fascismo della maggioranza degli italiani che vissero durante il ventennio in Italia e non si può certo ritenere che a guerra quasi terminata fosse giustificabile il riservare a tutti loro, cioè a vari milioni di cittadini, un trattamento analogo a quello subito dagli italiani che vivevano in Istria o Dalmazia. A meno che, naturalmente, quando parla di “ragioni politiche” e non “etniche”, Gobetti non le ritenga anche in grado di giustificare crimini verso quei milioni d’italiani che avevano convissuto col fascismo per anni in modo abbastanza compiacente. In base a questa prospettiva, certo, avrebbero potuto ricevere un trattamento analogo. Essendo stati in qualche modo conniventi col fascismo, e quindi essendosi macchiati d’analoghe colpe degli istriani e dei dalmati, anche semplicemente per aver combattuto in guerra o non essersi rifiutati nel 1931 di giurare fedeltà al regime, come il 99% dei nostri accademici, avrebbero meritato, in base a questa logica, di essere gettati vivi in cavità carsiche qualora se ne fosse trovata qualcuna nelle vicinanze.

    Perché è esattamente questo il primo aspetto essenziale che la ricostruzione di Gobetti tratta con un’approssimazione sospetta di scarsa onestà intellettuale. Secondo Gobetti, infatti, la specificità dell’uso delle foibe “ha a che vedere con le caratteristiche del terreno e non con una supposta barbarie slava. Fucilare al muro i prigionieri o esporre i cadaveri appesi, come avviene ad esempio in Italia, non è certo meno barbaro che seppellire i corpi in fosse naturali del terreno”.

   Ma quei corpi non furono fucilati e poi seppelliti in grandi fosse presenti in natura, come Gobetti vorrebbe far credere, ma furono spesso gettati vivi nelle foibe, che non è esattamente la stessa cosa. Sostenendo una tesi del genere, si omette di evidenziare proprio uno dei due aspetti più tragici della vicenda, vale a dire la modalità con cui veniva data la morte. Ovviamente, qualsiasi modo di uccidere è sempre accompagnato dal dolore che la vittima, per un arco di tempo più o meno lungo, è costretto a provare, ma c’è una notevole differenza tra l’essere fucilati e l’essere uccisi come allora molti furono uccisi.

   Com’è a tutti noto, anche allo stesso Gobetti, spesso i partigiani titini sparavano in testa alle prime persone di una serie in cui erano legate tra loro con un fil di ferro, gettando poi nelle foibe i morti e i vivi. Questi ultimi, se non avevano la fortuna di morire sul colpo per la caduta, morivano dopo giorni di agonia, spesso con ossa e cranio fracassati, tra cadaveri in decomposizione. È capitato che le grida di alcuni di loro si siano sentite per giorni dopo esservi stati precipitati, e si trattava spesso di uomini e donne che svolgevano nella loro vita i lavori più usuali e comuni e che non si erano macchiati personalmente di alcun crimine.

    Si è visto poi che Gobetti è convinto che non si possa parlare di pulizia etnica, anche alla luce del fatto che “si contano a decine di migliaia gli italiani in armi nello stesso esercito” che praticò quegli eccidi: “in effetti – scrive - non si tratta di una pulizia etnica”, né nel 1943, né nella primavera del 1945. “Le violenze commesse dai partigiani jugoslavi, infatti, non hanno una logica nazionale (né tanto meno “etnica”) ma politica”.

   Appunto, politica. E proprio a queste ragioni “politiche”, non certo a una ipotetica “barbarie innata nelle popolazioni slave” sostenuta non si sa da chi, si devono ricondurre sia quelle vicende tragiche sia l’oblio cui vennero consegnate in Italia per quasi mezzo secolo. Quelle violenze si svolsero davvero in uno Stato che si stava “strutturando come regime comunista, seguendo un modello che all’epoca è quello stalinista. Sul confine orientale, dunque, la violenza colpisce anche persone che in altri contesti non sarebbero state individuate come obiettivi della repressione. Oltre a punire i collaborazionisti e i criminali di guerra, le autorità jugoslave operano per eliminare gli eventuali oppositori politici, in un contesto ancora fluido nel quale è necessario ottenere il maggior consenso possibile al nuovo regime. Si tratta di una vera e propria epurazione preventiva, che serve ad intimorire quella parte di popolazione che non accetta l’ipotesi di annessione della regione alla Jugoslavia. La stragrande maggioranza dei possibili oppositori è composta da rappresentanti dell’élite politica e sociale”.

   Per svolgere in modo efficace questa epurazione preventiva si fecero quindi morire delle persone in uno dei modi più atroci tra quelli mai concepiti da essere umano, paragonabili alle morti sotto tortura durante il medioevo, sotto il regime di Hitler o quello di Stalin. In effetti, non si capisce bene se Gobetti sostenga certe tesi cercando di fornire una spiegazione o una giustificazione, ma da quanto scrive dopo sembra non voler attribuire ad alcuni aspetti cruciali il giusto rilievo: “quasi sempre i corpi delle vittime vengono poi gettati nelle foibe, secondo una pratica che, come si è detto, era diffusa da tempo. Ma avvengono anche uccisioni in mare, ad esempio a Fiume o in Dalmazia, come nel caso degli industriali Luxardo di Zara, annegati alla fine del 1944 dopo la liberazione della città”.

   Come si detto, ma giova ribadirlo a chi pare restio a ricordarlo, in realtà moltissimi non furono prima uccisi e poi sepolti, bensì barbaramente uccisi gettandoli vivi nelle foibe. E il non evidenziare questa differenza sostanziale rende sospetta di riduzionismo tutta questa parte dell’argomentazione di Gobetti, secondo il quale “da un lato la pratica era diffusa nel tempo, almeno dove esistevano cavità carsiche, dall’altro esistevano allora modalità per uccidere civili in tempo di pace appena meno odiosi”.

   Non ci pare che quest’ultimo argomento possa costituire una giustificazione, e come spiegazione si ritorce contro chi adottò certi metodi gratuitamente crudeli, non necessari a qualsiasi epurazione, sebbene efficaci per indurre in molti che ne fossero venuti a conoscenza il desiderio di fuggire prima possibile dal regime che le stava adottando. Pur essendo vero che le violenze commesse dai liberatori alla fine della guerra costituiscono “un fenomeno drammaticamente ‘moderno’, paragonabile a numerosi fenomeni simili che avvengono negli stessi giorni in tutto il continente europeo”, non si può accettare in alcun caso che quel fenomeno sia giustificato in nome di ragioni politiche nemmeno in sede di ricostruzione storica. Se non fu prevalentemente originato dalla volontà di perseguitare una minoranza etnica, e se anche lo scopo delle uccisioni nelle foibe non fosse stato “quello di terrorizzare la popolazione italiana per indurla a lasciare in massa le regioni di confine”, quell’effetto fu comunque ampiamente conseguito. Se anche l’esodo non fosse stato “il prodotto di un’espulsione formale”, e se anche fosse rimasta per molti “la possibilità di optare, di scegliere legalmente l’espatrio”, se anche avessero avuto “molto tempo a disposizione per prepararsi”, poco cambierebbe rispetto alla tragicità complessiva della vicenda e alle responsabilità di chi scelse di operare in quel modo.

   Gobetti ricorda anche che, “nel volgere di quasi quindici anni, sono circa 300.000 i profughi, 250.000 dei quali di nazionalità italiana. Dall’Istria se ne va almeno metà dei 400.000 abitanti presenti prima della guerra. Secondo i censimenti jugoslavi, si registra in questi anni una diminuzione dell’83% della popolazione italiana in Jugoslavia”. Si chiede quindi perché un’intera comunità abbia deciso di andarsene e “di abbandonare le proprie case, un territorio col quale si identifica e che rimpiangerà per sempre”. Cosa li indusse “a lasciare tutto per intraprendere la strada dell’esilio? Come si è detto – risponde - il fenomeno non è strettamente correlato con le violenze subite alla fine della guerra o con una presunta volontà di espulsione da parte delle nuove autorità jugoslave”.

   Secondo Gobetti, dunque, la consapevolezza delle sorti in cui erano incappati parenti, amici, conoscenti non incise poi molto sulla loro decisione di partire perché, evidentemente, è secondo lui poco probabile che una morte inflitta con quelle modalità possa indurre qualcuno ad andarsene prima che sia troppo tardi, visto che in fondo il buttare dei cadaveri nelle foibe era semplicemente un modo per non dover far fronte a problemi di sepoltura e risparmiare tempo.

    A suo avviso, le cause di quanto avvenuto sarebbe in definitiva da ricondursi, più che alla crudeltà degli assassini titini, al “circolo vizioso innescato dall’imperialismo italiano e poi dal fascismo. Gli esuli sono le vittime ultime della politica aggressiva del regime, dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e della sconfitta militare in una guerra che Mussolini aveva ottusamente contribuito a scatenare. L’Italia fascista e monarchica ha perso la guerra, ma a pagare sono stati soprattutto gli abitanti del confine orientale, molti dei quali si sono visti costretti ad abbandonare per sempre la propria terra”.

   Le responsabilità di quelle morti, ricadrebbero dunque sui fascisti sconfitti. Certo, questi avevano commesso durante la guerra dei crimini verso le popolazioni slave, come in effetti gli eserciti invasori sono spesso soliti compiere verso i popoli aggrediti, ed è comprensibile che a guerra finita in molte persone ancora serpeggiassero verso i loro ex aggressori l’odio e il rancore che in questi casi rimangono spesso vivi a lungo. Ma qui si sta parlando non tanto degli effetti di questi stati d’animo comprensibili e presenti in molte altre zone di confine, ma delle specifiche, gratuite e crudeli modalità con cui tale comprensibile odio e rancore presero forma, e proprio su questo tema Gobetti sembra stendere un velo omissivo, quando non riduzionista e distorsivo.

    L’altro aspetto cruciale della vicenda su cui Gobetti si pronuncia con un pietoso silenzio è appunto quello del silenzio che fece seguito a quelle stragi e a quell’esodo: si tratta, anche in questo caso, di un’omissione sostanziale, avvolta da circostanziate memorie di vari aspetti e dinamiche atti a distogliere l’attenzione dalla questione centrale. Circa l’accoglienza che molti esuli trovarono in Italia Gobetti si esprime così: “senza voler negare l’aspetto propriamente umanitario, la Chiesa e la Democrazia cristiana (che domina la politica istituzionale italiana nel dopoguerra) utilizzano anche in maniera propagandistica il dramma dei profughi provenienti da un paese comunista. Lo scenario è quello dell’inizio della Guerra Fredda, dell’acceso scontro politico fra blocchi ideologici contrapposti e delle prime, decisive, elezioni politiche in Italia. Non c’è da stupirsi quindi che si registrino anche fenomeni di rifiuto da parte di membri del Partito comunista.”

   E cosi continua poco dopo: “in questo senso va interpretato, ad esempio, il famoso episodio della stazione di Bologna, dove, nel febbraio 1947, i ferrovieri comunisti inscenano una protesta all’arrivo di un treno carico di profughi dalla Jugoslavia”. Secondo Gobetti “le condizioni incontrate dai nuovi profughi che arrivano negli anni Cinquanta sono dunque generalmente migliori, anche se resta la difficoltà di integrazione, e la fase iniziale di ricerca affannosa di casa e lavoro rimane problematica”.

   Arrivare a considerare migliori le condizioni di vita dei profughi istriani e dalmati rispetto a quella della media degli italiani arricchisce il quadro fornito da Gobetti di un dettaglio significativo. Le persone che avevano dovuto lasciare la loro casa e la loro terra dopo aver subito persecuzioni, spesso con qualche morto infoibato tra parenti o amici, malamente accolti e talora insultati, che devono ricostruire da zero o quasi la loro vita in un ambiente spesso ostile, hanno secondo Gobetti avuto in Italia una vita migliore degli italiani già residenti che, fatte salve le conseguenze generali del conflitto, sussistenti per tutti, erano potuti rimanere nelle loro case, quando non bombardate, e nelle loro città.

   In fin dei conti, precisa Gobetti, alla fine della guerra ci furono in tutto il continente europeo “epurazioni violente, processi sommari, massacri anche di civili ritenuti collaborazionisti dei nazisti”. In Italia, poi, dove operano “bande partigiane molto meno numerose e organizzate di quelle jugoslave, e non tutte comuniste, il livello di violenza non è molto diverso. In Piemonte alla fine della guerra vengono uccisi più presunti fascisti che sul confine orientale: sono poco meno di 2000 solo nel Torinese. Episodi analoghi avvengono un po’ ovunque: in Veneto, Liguria, Lombardia. Senza contare il famoso ‘triangolo rosso’ in Emilia dove, in uno spazio anche più ristretto, il numero delle vittime è simile a quello del confine orientale [...]. La guerra, la sconfitta militare, il cambiamento dei confini sono le ragioni principali, il minimo comun denominatore alla base di tutti questi fenomeni. Gli avvenimenti del confine orientale non sono tra i più violenti o i più estesi a livello geografico e numerico. Inoltre, episodi analoghi accadono anche in altre zone d’Italia. La loro specificità sta essenzialmente, come si è visto, nella volontà di instaurare un nuovo regime di stampo comunista”.

   E questo regime comunista fu in effetti instaurato in Jugoslavia utilizzando anche le modalità che abbiamo qui descritto, dato che erano state menzionate in modo assai impreciso da Gobetti, che poi omette di soffermarsi anche su un altro effetto non marginale del prolungato oblio che accompagnò il destino degli infoibati e dei profughi. Dopo aver ricordato che in Italia ne arrivarono migliaia anche da altri paesi e che non ricevettero la stessa attenzione di quelli istriani e dalmati, come se fosse così strano che ogni paese si occupi di più e prima dei propri, sostiene che le responsabilità di tutto ciò che accade in una guerra o nell’immediato dopoguerra sono in primo luogo di chi quella guerra ha determinato. Sebbene questo sia vero in linea generale, con l’avvertenza che secondo questa logica si potrebbe risalire di causa in causa a lungo a ritroso, ciò non toglie che vi possano essere concause più recenti e dirette, motivo per cui non bisogna desistere dal cercare di spiegare bene il silenzio che fece seguito alla vicenda delle foibe.

   A questo riguardo Gobetti ammette che per un certo periodo essa abbia fatto fatica ad essere ricordata, e spiega perché: “sollevare la questione dei crimini commessi dai partigiani (anche se jugoslavi) avrebbe messo in crisi il quadro retorico che si andava costruendo sulla Resistenza. Si sarebbe finito per evidenziare il ruolo svolto dal PCI di Togliatti durante e dopo la guerra nell’appoggio politico alle rivendicazioni jugoslave sul confine”. Per questo motivo, “sollevare la questione dei crimini commessi dai partigiani (anche se jugoslavi) avrebbe messo in crisi il quadro retorico che si andava costruendo sulla Resistenza. Si sarebbe finito per evidenziare il ruolo svolto dal PCI di Togliatti durante e dopo la guerra nell’appoggio politico alle rivendicazioni jugoslave sul confine” […] Ben pochi - poi aggiunge - avevano interesse a ricordare pomposamente una vicenda complessa, con molti risvolti imbarazzanti, e che avrebbe sollevato questioni su cui si preferiva non ritornare”.

   Si tratta di un’analisi corretta, ma incompleta per quanto concerne il seguito, perché omette ancora di rilevare che per circa mezzo secolo dopo l’esodo sui libri di storia in uso nelle scuole italiane la vicenda non venne mai trattata se non in modo sporadico e frettoloso. I testi scolastici iniziarono a parlarne solo dopo il crollo del muro di Berlino, privando per decenni milioni di studenti di una corretta informazione in proposito. E non è che non ci fossero storici al corrente di come fossero andate le cose. Ma non lo fecero, mentre l’interesse di quegli studenti non era certo quello di ricordare “pomposamente”, ma semplicemente di poter ricordare, di poter essere informati per poter capire e valutare, di esercitare il loro diritto di conoscere la sorte in cui era incorsa una parte del popolo italiano e di poterne analizzare le ragioni, cosa che invece non fu possibile anche per il silenzio di intellettuali e politici. L’esigenza di una ricorrenza civile dedicata fu finalmente avvertita da quasi tutti soprattutto per risarcire le vittime e i profughi di quel lungo oblio e per non correre il rischio di prolungarlo.

   E non si tratta di un oblio tra molti altri equivalenti e di diverso segno, ma di uno peculiare e particolarmente profondo, almeno tra quelli concernenti il secondo dopoguerra, al contrario di quello che sostiene Gobetti, che si chiede “come reagirebbe l’Europa, specie i paesi che hanno sofferto l’occupazione nazista, se la Germania di oggi celebrasse solo le proprie vittime della fine della guerra e non i crimini commessi negli anni precedenti”. Gobetti sembra porsi questa domanda come se in Italia non vi fosse stata memoria storica di quei crimini. Ma la sacrosanta memoria storica di quei crimini c’è stata, attraverso innumerevoli pubblicazioni, saggi, film, dibattiti e tutto quanto poteva arricchirla di dettagli, di chiarimenti e approfondimenti. Quella che in Italia invece è completamente mancata per circa mezzo secolo è la memoria storica delle foibe, in buona parte per le ragioni da lui riportate. Che vi siano poi anche delle strumentalizzazioni di quelle vicende, in un’epoca in cui è difficile trovare qualche informazione, notizia od analisi che non venga anche strumentalizzata da qualcuno, è probabilmente inevitabile; ma sostenere che il Giorno del ricordo sia stato istituito per renderlo uno strumento di propaganda di una parte politica è solo un modo per deviare l’attenzione da quelle che sono state le ragioni della rimozione delle circostanze storiche cui fa riferimento.

   Queste ragioni, che lo stesso Gobetti almeno in parte prende in esame, sono essenzialmente due: il desiderio, da parte di una composita classe politica, di conservare buoni rapporti diplomatici con la Jugoslavia, in quanto paese non allineato e di fatto Stato cuscinetto tra l’Italia e il blocco sovietico; e la censura per lo più comunista che ha cercato prima d’impedirla e poi di rimuoverla. Forse, invece di chiedersi cosa è successo a questo paese negli ultimi quindici anni, “cosa abbiamo sbagliato” a questo riguardo, Gobetti dovrebbe chiedersi cosa gli era successo nei precedenti quarantacinque, perché sminuire oggi, con omissioni e rinvii a pregresse responsabilità, che nella storia sono sempre attive, il significato e la portata di un ricordo finalmente ritrovato, rischia di rivelarsi solo un modo per assecondare le ragioni e gli intenti che provocarono quel lungo oblio, dovuto anche alla complicità con quei crimini di molti che sapevano e che non parlavano, alcuni dei quali erano poi anche gli autori dei testi di storia, a volte per altri aspetti eccellenti, che erano abitualmente in uso nelle nostre scuole.